“Ho ucciso. Ho sanguinato” di Blaise Cendrars: confronto con “Guerra” di Louis-Ferdinand Céline
Nella Nota di lettura di “Ho ucciso. Ho sanguinato” di Blaise Cendrars, Paolo Rumiz scrive che è “imbarazzante presentare un capolavoro assoluto” – e su questo attributo (non imbarazzante, ma assoluto) io mi dissocio: anche se prima di leggerlo certamente lo era, esso ha cessato di esserlo dopo esserlo dopo che l’ho letto, per via dell’inevitabile entanglement che è sorto, magicamente ma anche fisicamente, tra i due soggetti: autore e lettore.
‘Sto inclìto miracolo mi è capitato così tante volte che ormai non mi fa quasi più effetto. Io non ho “invidia letteraria” per alcun autore, manco per Shakespeare, anche perché, dopo quel silente evento che è la lettura, io glielo’ho fregato tutto, il suo talento ineffabile, e lui ha fregato me per l’eternità: a thing of beauty is a joy for ever
Ma è sempre un discorso cosmicamente biunivoco.
Si tenga presente che in questo caso il buon (seppur frastagliato) me medesimo poche settimane prima ha letto Guerra di Louis-Ferdinand Céline, per cui ora, dentro di sé, si sta chiedendo: che facciamo, correliamo pure lui nel discorso? La risposta è certo!, dato che non ce ne stanno di altre disponibili.
Vi sono varie differenze fra le due opere. La prima è micidiale: Cendrars è Cendrars e Céline è Céline. Due geni, due destini. Il primo è l’autore preferito di Charles Bukowski. Il secondo lo è di Henry Miller.
Si tenga presente che Charles leggeva con piacere le pagine che Henry dedicava al sesso e alla vita, ma non quando questi filosofeggiava, così almeno scrisse in un suo racconto. Celine non filosofeggia mai o, se lo fa, il lettore quasi non se ne accorge. Blaise ogni tanto lo fa. Cendrars era l’unico di questo poker di funambuli della scrittura che ancora ignoravo. Sono convinto di aver perso tanto, ma so che prima o poi recuperò. Sono andato a vedere in solaio, in garage e in cantina: non ho altri libri dell’ameno svizzero-francese, per cui mi dovrò dare da fare per rimediare a ‘sta miseria.
Cendrars accumula parole su parole, oggetti su oggetti, forse per muchèr, ammucciare, nascondere, il suo malessere. Céline non ha di questi timori. Egli vive il male come sua condizione naturale.
Ergo, grazie Blaise, grazie Paolo, grazie Marietti 1820, anche se m’avete leggermente inguaiato.
Anch’io, come Paolo, per andare in guerra devo “compiere parecchi viaggi nel tempo…” – alla ricerca del conflitto perduto, perché per fortuna non ne ho mai incontrato una dal vivo. Quella che si intravede in televisione è sempre una guerra d’altri.
Leggendone, si finisce per sentirla come propria.
Anch’io provo o tento di provare “la frustrazione, in definitiva, di non poter entrare nelle scarpe di quei ragazzi.” – anche se è una tragedia vissuta leggendo, non letta vivendo.
Io odio la guerra perché è un cancro. Questa è la definizione che mi è sorta leggendo prima il libro di Céline e ora questo di Cendrars. Filippo Tommaso Marinetti la definì come “la sola igiene del mondo”, per cui sarebbe stato bello arruolarlo in uno degli eserciti belligeranti affinché potesse vedere l’effetto che faceva dal vivo (se non anche dal ferito e dal morto).
Non capisco del tutto il ragionamento finale di Paolo, che la guerra è “solo una delle tante espressioni di un nuovo modo – cinico e predatorio – di fare economia…” – mi correggo: capisco e condivido la prima parte del ragionamento, ma non la seconda: “… E a tutto questo l’uomo, non si sa come, sopravvive.” – è a quel non si sa come che vorrei obiettare: lo si sa, lo si è sempre saputo. Lo dice anche Primo Levi che, pur nel chiuso asfissiante di un lager, l’uomo si adatta subendo. È solo uscendo che riesce a reagire.
Durante la naja che subii, involontaria e non meno alienante, mi adattai gradatamente alle regole impostomi, ma una volta uscito ne risi a volte, nel rimembrare alcuni episodi, insieme ad amici che ebbero la buona fortuna dell’esonero o a chi la patì come me. È allorché si è fuori, che il periodo in cui uno è stato rinchiuso assume il suo nuovo valore.
Mi domando come Giuseppe Ungaretti sia riuscito a scrivere Veglia mentre era seppellito in una trincea. Quest’assurdità potrebbe essere consentita alla breve poesia, oppure al breve scritto, com’è Ho ucciso. Ma risulterebbe troppo arduo per uno più esteso tipo Ho sanguinato. Ma chissà chi lo sa!
Ho ucciso. Dura una decina di pagine. Partendo dalla prima parola “Arrivano” a “I canti riprendono più forti”, a leggere ci si mette un minuto circa. Poi ci sono 5 versi di canti bellici, sconnessi e volgari e a seguire una poesia assai più lunga e non meno maleodorante, intrisa di morte e di schifezza. Poi, da “Gli autocarri ronzano.” – a “Come chi vuole vivere.” – non c’è un solo a capo. È una full immersion nell’odioso Stige (l’allegoria, forse fuori luogo, è mia), da cui mi salva solo il luogo e la data: “Nizza, 3 febbraio 1918.” – ancora 9 mesi e sarebbe stata partorita l’incerta pace.
Il breve scritto termina con le parole: “Ho ucciso. Come chi vuole vivere.” – così mi narrava il partigiano Egidio Baraldi, detto Valter: ho ammazzato tedeschi e fascisti, perché sennò loro uccidevano me. È lo stesso ragionamento che fanno ogni volta Tex e i suoi pard, quando incontrano i fuorilegge.
Leggo ora Ho sanguinato.
L’autore si sente “simile a una puerpera con il suo neonato, dall’enorme bendaggio, grosso quanto un bebè…” – che fascia “il braccio amputato” – particolare che lo identificherà tutta la vita. In seguito, egli sarà colui che è senza un braccio, anche se, ogni volta, dopo una certa conoscenza, finirà per acquistare un nome e un cognome.
La scrittura di Cendrars non è meno pugnace di quella di Céline: “… non si può fermare il proprio cuore, e il mio cuore, con il suo battito regolare, pompava a ogni istante ondate di sangue che sentivo schizzare…” – dalla felicità! Come a dire: Sono vivo!
Non è meno espressiva, ma è più positiva, meno cinica di quella di Céline. Non dovrei dirlo, perciò lo dico. Cendrars è più simpatico, ci si sta bene insieme a lui, lo si legge piacevolmente, ma qui è questione di carattere, non di valore. Anche Henry Miller è più amichevole di Bukowski. È però una questione di sfumature e di come si è alzato quel giorno il lettore.
“… e così un sergente fuori di sé, consumato dalla paura, mi attaccò alla caviglia l’etichetta da amputato, senza una parola, senza neppure uno sguardo per quell’uomo nudo…” – comincia così la discriminazione. In un ospedale essa non può mancare. Ognuno è classificato per il male che l’ha colpito, non per i dati anagrafici o per la sua gradevolezza.
La protagonista, insieme all’io narrante, del I capitolo, e che gli dà il titolo, è Suor Philomène, personaggio che il lettore non riesce a classificare: fa quasi più pena del ferito, forse perché “Lei possedeva la sua verità” – o ne era posseduta, non si capisce.
Il successivo capitolo è II. La morte del giovane pastore.
Una frase inquietante, senza entrare in particolari: “Se non provo il minimo disprezzo nei confronti delle donne, è perché ho conosciuto lei e altre due, tre infermiere come lei. Tutte loro hanno pagato il prezzo della guerra in prima persona.” – e questo (a parte l’eventuale errore di calcolo numerico) deve servire da insegnamento a chi si lamenta della propria condizione. È vero, stai soffrendo, ma sei sicuro di non ricevere un immenso dono proprio a causa della stessa sofferenza? La quale potrebbe essere una questione illusoria, perché se uno sente male sente male, non ci sono scuse da concedere al destino. Ma occorre setacciare il fondo di buono pur nella situazione più misera. È forse questa l’unica condizione ottimale per l’uomo.
A pagina 50 l’io narrante si chiede: “ma che cos’era la mia modesta, banale amputazione paragonata alle piaghe di ogni tipo, alle…” – etc etc. Anche ora egli dimostra una dose di buona filosofia che non può che rendergli merito.
Egli poi descrive le peripezie ospedaliere del pastore indicato nel titolo. Il tutto va letto e salvato dall’oblio. Solo in questo modo il calvario di quel povero Cristo acquisirà un senso. Sono felice di averlo letto e penso che mai lo scorderò. Il tutto si conclude nel III, che non riporta alcun titolo. Non era il caso di mettercelo, probabilmente.
In IV. Una parola di vita, si parla di un ferito gigante, che occupa enormemente e plasticamente la scena, pur derelitto com’è.
“– Ha visto i suoi occhi, Cendrars? È come se si accendesse una scintilla, – mi diceva Madame Adrienne dopo ogni visita.” – che bello un mondo in cui respira l’anima di questa donna!
Non intendo dire come si è manifestato il primo vagito di questo colosso rinato. Accenno solo al fatto che deriva da una parola greca che vuol dire cosa cattiva, sporca. In questo caso però significa cosa buona, salvifica.
È scritta tra pagina 77 e pagina 78 ed è tantissimo aulente.
Per cui, buona lettura!
Difficilmente m’è capitato di leggere un libro più spietatamente ottimista.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Blaise Cendrars, Ho ucciso. Ho sanguinato, Marietti 1820, 2023
Louis-Ferdinand Céline, Guerra, Adelphi, 2023
Info
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