“Caro Michele” di Natalia Ginzburg: dov’è finita la catarsi?

Advertisement

Assai saporita è l’Introduzione di Cesare Garboli, che sa colpire già dalle prime frasi: “Col tempo, è venuta sempre più accentuandosi nella Ginzburg la tendenza a concepire i rapporti interpersonali, cioè i rapporti per cui si può parlare anche oggi di una società di esseri umani, come rapporti fra animali…” – gente che soffre, intesa come unità sociale, che si trasforma in bestie che soffrono, se colta da un punto di vista drammaticamente individuale: “le parole volano e fuggono, si perdono nella chiacchiera o nel silenzio e sul volto di chi le pronuncia resta solo uno sguardo di bestia incapace di esprimersi.

Caro Michele di Natalia Ginzburg
Caro Michele di Natalia Ginzburg

Interessante è l’indicazione di alcune opposizioni:Così il romanzo della Ginzburg viene a disporsi spontaneamente su due piani, uno virile e l’altro femminile, uno laico e l’altro religioso, uno socio-famigliare e l’altro animale o tribale, uno formale…” – e l’altro no, a secondo di come sono esaminate o confuse “le proprie ragioni” – ed è in conseguenza a queste dicotomie, specie all’ultima, che mi permetto di aggiungerne un’altra: un piano è amoroso, amicale, basato su una passione sempre tenuta sotto controllo; un altro è fondato su un improvviso egoismo che finisce per mandare (quasi) tutto a carte quarantotto.

Hai ragione, caro Cesare:Tutto procede, in Caro Michele, per opposti.” – e l’egoismo è sempre quel che pare fondare la decisione ultima: “Ciascuno parla per sé o tace”; “Ciascuno vive del proprio…” – e “Ciascuno vive di torti subiti o di ragioni taciute.” – e, volendo citare il solito Vasco Rossi, è “… ognuno a rincorrere i suoi guai/ Ognuno col suo viaggio/ Ognuno diverso/ E ognuno in fondo perso/ Dentro i fatti suoi, suoi...”

Caro Michele inizia così:Una donna che si chiamava Adriana si alzò nella sua casa nuova. Nevicava. Quel giorno era il suo compleanno. Aveva quarantatré anni…” – un altro, o la stessa Natalia Ginzburg, in altro romanzo, avrebbe potuto scrivere: Nevicava. Adriana si alzò nella sua casa nuova. Quel giorno era il suo compleanno. Aveva quarantatré anni…

Colpisce la semplicità della prosa, che sfrutta un congiuntivo a ogni morte d’indicativo, più qualche condizionale, pur senza esagerare. Questo romanzo viene definito epistolare, ma la cosa non mi va giù. È sì composto da lettere, ma pure da conversazioni, descrizioni, giudizi, alcuni dei quali sono significativi. È un romanzo, che ti fa osservare le piccolezze. Quel che differenzia l’arte moderna, dai tempi di Dante, Boccaccio, Giotto e Piero della Francesca, tanto per indicare i primi massimi geni che mi vengono in mente, da quella antica è che da circa un millennio Arte non è un’unicità che contiene il tutto, ma è ciò che contiene un’attenta ed esistenziale scelta che deriva da esso.

Romanzo è Casa Howard di Edward Morgan Forster, La coppa d’oro di Henry James, Rayuela di Julio Cortázar, I detective selvaggi di Roberto Bolaño, nonché Caro Michele di Natalia Ginzburg: opere così difformi che paiono appartenere a generi letterari diversi. Scorgo ora che in sala uno spettatore si è alzato e mi sta applaudendo. Si tratta di Salvatore Patriarca, inclito autore del saggio Elogio della banalità.

“‘Caro Michele’ scrisse” Adriana in una delle tante lettere che invia al suo amato figliuolo, il quale ebbe la (s)ventura di vivere col padre, e non con lei (i due genitori sono separati da anni), che ha in casa le due figlie minori e gemelle. Altre due consanguinee vivono con le loro nuove famiglie.

La mamma è un tipo schietto, che sa scrivere:Quando mio padre aveva la diverticolite, ho fatto un viaggio in Olanda. Ma lo sapevo benissimo che non era diverticolite. Era cancro. Così quando è morto non c’ero. Ne ho rimorso. Ma è vero che a un certo punto della nostra vita i rimorsi li inzuppiamo nel caffè la mattina come biscotti.” – e come si fa a non essere d’accordo!

Di lettere Michele ne riceve anche da altri, e ad altri lui ne scrive, quasi mai alla madre. Da Londra, l’8 dicembre ‘70 gliene manda però una.

In risposta, la madre le scrive tante cose, nessun delle quali è da buttare. Voglio soprattutto salvare questa: “le tue sorelle sono forse meno balorde di te. Però sono anche loro abbastanza strane e balorde, una per un verso una per un altro. Nemmeno loro le ho educate o le educo perché troppo spesso mi sentivo e mi sento una persona che non mi è simpatica. Per educare un altro bisogna avere nei confronti di se stessi almeno un poco di fiducia e di simpatia.” – pur non essendo del tutto d’accordo, sono, come minimo, solidale e grato per tanta sincerità.

Scrive a Michele una certa Mara, ragazza madre di un figlio che lei stessa non sa a chi attribuire, simpatica, non troppo istruita, ma poco importa, che mi va d’inquadrare come co-protagonista della storia, forse anche più di Michele, a cui scappa detto: “Tu hai un gran brutto carattere, ma non è per questo che non ti voglio sposare. Non ti voglio sposare perché quella volta là e anche tante altre volte mi hai fatto pena, e io vorrei sposarmi con un uomo che non mi facesse mai pena, perché già mi faccio tanta pena io. Vorrei sposarmi con un uomo che mi facesse invidia.” – il discorso può anche non piacere ma come minimo è comprensibile a chiunque lo legga.

Scrive Michele all’amico Osvaldo:Non potrei vivere con una donna stupida. Non sono molto intelligente, ma adoro e venero l’intelligenza.” – convivere dovrebbe essere unirsi non all’opposto di sé, ma al proprio complemento. Molte unioni si frantumano quando occorre la spesso inevitabile osmosi esistenziale. Oppure assai prima, quando finisce la benzina (della passione).

Altra perla, stavolta inserita in una lettera di Adriana al figlio: “Ti sembrerà strano ma io non mi stupisco e non mi spavento più di niente essendo in uno stato perenne di spavento e stupore.” – al che viene da pensare che la calma è un fatto stupefacente. Poi a lei scappa alcuni pensieri ottimistici: “Dio lo perdoni, se esiste Dio, cosa che forse non è del tutto da escludere.” – di sicuro, si dice, c’è solo la morte (allegria!). E poi: “Ti abbraccio e ti auguro felicità, ammesso che la felicità esista, cosa che forse non è del tutto da escludere, anche se raramente ne vediamo traccia nel mondo che ci è stato offerto.” – a volte mi dico che sarebbe ancor più bello un mondo felice, pur orfano di dio. In ogni caso, cara Adriana, non sai come ho apprezzato quel tuo lievissimo congiuntivo!

Scrive Mara ad Angelica:Qui si passa la vita a farsi pena gli uni con gli altri.”

Scrive a Mara l’ex uomo suo: “Ti auguro ogni bene possibile, e spero che tu sia felice, ammesso che la felicità esista. Io non credo che esista, ma gli altri lo credono, e non è detto che non abbiamo ragione gli altri. Il pellicano” (era così soprannominato per via del suo grande naso).

Il pellicano era ricco e pieno di cultura (faceva anche l’editore a pagamento). Lei no. Si erano lasciati prima della suddetta osmosi, che non sempre ce la fa a maturare.

Angelica scrive a Mara: “Così penso che cercheremo di mandarti ogni tanto dei soldi. Non è che i soldi ti risolvano niente essendo tu sola, sbandata, vagabonda e balorda. Ma ognuno di noi è sbandato e balordo in una zona di sé e qualche volta fortemente attratto dal vagabondare e dal respirare niente altro che la propria solitudine, e allora in questa zona ognuno di noi può trasferirsi per capirti. Angelica.” (mi viene il sospetto che queste righe Natalia Ginzburg le abbia scritte anche per sé).

Scrive Adriana a Filippo: “Ti sembrerà strano, ma ci si attacca a desideri minimi e strani quando in verità non si desidera niente. Adriana”.

Poi accade l’orrendo patatrac, di quelli che possono accadere ai vivi.

Ecco una possibile spiegazione: quel ragazzo, “può darsi che trovasse difficile rimanere tranquillo.”

L’importante è farsi una ragione dei tanti patatrac che levano fin anche il fiato, ma poi si pensa che sono cose che capitano a chi non è finora morto. “‘Ci si abitua a tutto quando non rimane più niente’ disse Angelica.”

Natalia Ginzburg
Natalia Ginzburg

Caro Michele è un’opera tragica, mi si consenta di dirlo!

E vorrei terminare qui la mia reazione, ma qualcosa di ancora più tetro incombe. Scrive Osvaldo ad Angelica: “… perché ci si consola con nulla quando non abbiamo più nulla, e perfino aver visto in quella cucina quella strana maglietta cenciosa che non ho raccolto. È stata una strana, gelida, desolata consolazione per me. Osvaldo”.

“Questo volume è stato impresso nel mese di ottobre 1977…”.

Ma poco o nulla è cambiato da allora. O forse sì, in peggio.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Natalia Ginzburg, Caro Michele, Mondadori, 1977

 

Advertisement

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: