“La paga del soldato” di William Faulkner: ciascuno dei personaggi s’illude d’essere il solista
Pochi scrittori come William Faulkner fanno reagire psicologicamente il lettore e pochi, come lui, inibiscono chi sente che deve farlo per iscritto, per lasciare una traccia dell’esperienza patita.

È come recarsi prima a Katmandu e poi in cima all’Everest, evento che può non durare più di tre o quattro settimane, ma che è ricca di fatti da narrare, e poi non voler dire nulla su ciò che si è vissuto.
Ogni riga de La paga del soldato di Faulkner è scolpita, anche se riporta lo sbraito di un lanzichenecco che, nella fattispecie, è il capo di una banda di soldati reduci da un conflitto penoso (una guerra grande di bestialità), che ha ridotto il loro autocontrollo, oltre che, in taluni casi, talune funzionalità esistenziali. Stanno tornando a casa, quei dissipati, quasi laceri lanzichenecchi, in treno. Purtroppo, in quel vagone almeno, non c’è nemmeno un intellettuale che sta leggendo la Recherche. Sono tempi duri, dove basta scorrere i titoli dei giornali e si crea un’ansia che non ha più fine.
“Lowe, Giuliano, matricola n°…, già cadetto pilota, squadriglia X, armata aerea X, noto agli altri assi in embrione della sua squadriglia come ‘un’ala’, considerava il mondo con occhio giallo e deluso…” – e il suo camerata Yaphank “puzzava di cattivo whisky a un miglio di distanza.” – le distanze, in certi casi, sono orpelli che abbelliscono la realtà: puzzava come l’ubriacone che era.
Si chiede Joe Gilligan, facente parte della medesima gang: “Cosa può uguagliare l’amore di una madre? Niente se non una buona bevuta di whisky. Dov’è quella bottiglia? Non ci hai mica sverginato una fanciulla, no?”. Con loro c’è un soldato in difficoltà, che a domanda risponde: “Sì, lo voglio. Sì.” – quel rotto lanzichenecco intende farsi “un bicchierino” – per allontanare lo spettro solo lui sa di che. Poi c’è il più malmesso di tutti, Mahon, “che dorme sotto la sua cicatrice…”, “sotto il suo sfregio” – sognando l’ipotesi di rinascita che forse lo attende a casa. “… sedettero in silenzioso cameratismo, il cameratismo di coloro le cui vite son diventate insignificanti solo a causa del giuoco equivoco degli eventi, di quella misera sgualdrina detta Circostanza.” – e mi chiedo perché in questo caso si citi l’operaia e mai il suo datore di lavoro? Tipo: quel tronfio lenone detto Destino.
Sto notando che basta dargli la parola ogni tanto e Faulkner si offre cortesemente all’utenza. A volte pecca, per confondere ulteriormente la mente del già rabbuiato lettore, nell’identificazione dei vari attori, prediligendo i pronomi personali come “lui” ed “ella”, assai più ella che lui.
Nel Capitolo secondo la scena si trasferisce in un ambiente borghese, presso l’abitazione di un “rettore”, detto anche “zio Joe”, il cui “capo riluceva contro un muro coperto d’edera sul quale la grazia elaborata di una cuspide ed una croce dorata sembravano curvarsi verso giovanette nuvole immobili.” – e già siamo in un ambiente infinitesimamente proustiano.
Gennaro Jones è un vaccaro quasi obeso, brutto nei modi: ma schietto. Vorrei capire di più che significhi, ma talvolta ha lo sguardo “giallo e distaccato”.
“Zio Joe”, il suo ecclesiastico anfitrione, che è il padre di quel disgraziato sfigurato di cui è imminente l’arrivo a casa, nonché il probabile decesso, è un misto di Don Abbondio e di prelato di mezz’altezza. Non scevro di religiosa signorilità, mai è arguto oltre misura.
Poi c’è Emmy, a cui al momento basta una triste definizione: “la vergine disonorata” – più la prima che la seconda che ho detto, mi pare (ma ancora non ho letto la storia che ebbe a suo tempo con quello scalcagnato soldato), più mesta e smessa che altro.
E poi c’è Cecily, che è un virgulto di donna, che attende da un giorno all’altro l’arrivo del suo fidanzato che, anche grazie alla guerra, le è diventato storico. Non si tratta di quel ferito grave a cui non dispiaceva un goccio di whisky, ma l’altro, il più grave.
Infine c’è “la signora Powers” che, già sul miserando treno, e ora presso la famiglia del rettore, di cui è ospite indispensabile, tanto tempo e zelo dedica al milite noto (ma cieco e mezzo morto), e che va d’accordo con Joe, non l’ecclesiastico zio Joe, ma Gilligan, inquadrati poco sopra.
Il grasso Jones ci prova con tutte le femminucce che gli appaiono davanti, fino al punto di vergognarsene. Non è cattivo, ma goffo in misura così eccessiva da parere colpevole.
Fuori, “una raganella iniziò il suo monotono trillo e l’Ovest era un grande lago verde, fermo come l’eternità. Tobia apparve silenziosamente.” – per dire che la tavola è stata imbandita.
A volte mi faccio una domanda esistenziale mica da ridere: se una raganella (oppure una cicala, oppure una tortora) dell’Eurasia dell’Est s’imbatte in una sua consanguinea di Pisciotta Nord, per intendersi, ha necessità di Google traduttore? All’uomo tale handicap è occorso perché ha cominciato a ciarlare millenni prima di aver iniziato a chattare. Per gli animali inferiori non so. Una volta ero immerso in profondi pensieri seduto sulla panchina di un parco di Santa Cesarea Terme e, udendo il continuo effetto sonoro dovuto allo sfregolìo dei timballi addominali, mi chiesi cosa avrebbe compreso una rincote arşâna, ivi appollaiata per caso, per fare di mattina un paio di bagni, anche se uno le sarebbe bastato. Misteri della natura! Scusami tanto, William, se per un attimo ti ho tenuto da parte. Tocca a te, ora.
Domanda che si pongono questi sfaccendati d’ambo i sessi: Cecily, detta Sis, sposerà o no il qui quasi giacente fidanzatino? Si accettano scommesse, anche perché in gioco c’è un’altra donna che lo sventurato ha conosciuto in quel treno e con cui ha stabilito una pur limitata empatia.
Spezzone del dialogo fra il giovane Joe e “la signora Povers” – a cui poc’anzi alludevo: “… Non perderà l’occasione di sposare colui che chiama un eroe, fosse anche solo per impedire ad un’altra di prenderselo. (Voglio alludere a te, egli pensò.) (Vuole alludere a me, ella pensò.)”
Cecily, la disgraziata promessa sposina, ha scorto la cicatrice del suo fidanzato, e non l’ha manco osservata bene, essendo quasi svenuta per l’orrore.
Il ragazzo, se scampa ancora un po’ è un miracolo, dopo di cui potrà finalmente trasvolare Lassù, per sempre svincolato dal contesto umano. Sempre che accada, sennò rischia di rimanere aggrappato come un cieco chirottero alla presente storia.
“Gli occhi di Emmy erano neri e inespressivi come quelli di un animale di stoffa, e i capelli erano una macchia bruciata dal sole di nessun colore particolare…!” – e non so se, tu, Faulkner sai che c’è un nome di donna cinese il cui significato è Fiore che sorge dal letame, – “… Si poteva immaginarla crescere come un piccolo ma vigoroso cespo di verzura su un mucchio di letame. Non un fiore. Ma nemmeno letame.” – che rimane linda pur se pulisce un cesso intasato da aulenti detriti.
Il rettore chiede a quel che gli resta del figlio se si ricorda “di Emmy” – e quello risponde: “‘Sissignore,’ egli ripeté senza espressione.” – sissignore generale?
Cecily è nella sua camera. Entra suo padre e la vede “in calzone di pallido satin e leggera liseuse arancione, con le gambe rialzate sul bracciolo di una poltrona.” – e la saggia lezione che il padre intendeva impartire alla figlia perde in autorevolezza. C’è qualcosa che non va nelle nuove generazioni, pensa sicuramente il genitore. Chissà come andrà a finire…
C’è una lieve empatia fra “la signora Powers” – che ne ha patite più del vecchio malvissuto di manzoniana memoria, ma che è rimasta una donna bella, calma, dedita al prossimo – e la piccola operatrice ecologica, cioè Emmy, che le ha appena confessato un momento erotico passato con colui che ora stanno accudendo: “La signora Powers la tenne stretta, e infine Emmy alzò la mano e si scostò i capelli dalla faccia…” – io adoro questi romanzi corali, dove ciascuno dei personaggi s’illude d’essere il solista, finendo per turbare l’ordine mentale che il lettore tenta di organizzare nella sua mente. Mi domando se anche tu, Faulkner, ogni tanto non ti confonda un po’. A volte rimpiango romanzi come Storia della mia vita di Giacomo Casanova o la Vita scritta da esso di Vittorio Alfieri, dove pochi sono i dubbi su chi sia il Dominus della storia e chi è vile tappezzeria.
Ora però si capisce in che senso Emmy sia una vergine disonorata, che il grande eroe, l’amante di un giorno, al ritorno dalla guerra, manco l’ha vista e salutata. Per forza: è praticamente cieco. A pagina 100 aveva detto: “Non mi ha parlato…” – e poi, a chi le ricorda che il poveretto non ha parlato con nessuno, ella: “‘Ma a me, me! Nemmeno mi ha guardata!’ ripeteva.”
C’è tutta una serie di problemi. Cecily sarebbe ancora innamorata del giovane ex milite, ma non sa reggere la vista del suo progressivo sfacelo. E ci sono tanti cicisbei che spasimano per lei, basta che esca in strada. Il padre di lei pretende che lei svolga con diligenza il suo ruolo di fidanzata. Lei dapprima rifiuta, poi un po’ accetta, poi non si sa. Intanto “Mahon sedeva immobile senza speranza come il Tempo” – che scorre com’è sua costumanza, ma non è mai privo di dati penosi. Poche decine di pagine erano trascorse da quando “Ella alzò la faccia. ‘Baciami, George.” – così disse a un lui e così lui fece. C’è assai poca speranza anche nella loro pressoché intirizzita passione. Al massimo si sposeranno.
Il Capitolo quinto dapprima parla (eccessivamente) di eventi e pensieri bellici e poi, al sottocapitolo 4, colgo il primo sgorgare di flussi di memoria che tanti lutti addurrà ai poveri lettori. Peggio di te, William Faulkner, ci sarà l’irraggiungibile James Joyce e l’arcigna Virginia Woolf.
Tetri esempi: “(… il mio Devey è morto, loro non avevano figli, e il mio figlio è tornato e il mio no. Che faccia grigia, pover’uomo)”; “(Oh poveretto, poveretto. E la tua faccia sfregiata! Madden non mi ha detto che la tua faccia era sfregiata, povero Donald.)”; “Dick… Dick… come eri giovane, come eri terribilmente giovane, non deve esserci un domani. Baciami, baciami, sui capelli…)” – e qui tronco il riporto perché ‘sta mesta vecchietta continua a dire che il corpo, che in inglese ha un suo bieco significato, “… è così brutto, caro Dick…”; “I soliti reumatismi, ma ormai sono vecchia…” – chissà da quant’è che non si pappa delle braciole di suino; “Dick, amore mio, che non ho mai amato, Dick, il tuo brutto corpo che irrompe nel mio come un ladro,…” – ah, bei tempi! – “… il mio corpo che scorre via… lavando tutte e tracce del tuo… Baciami e dimenticami. Ricordami solo per augurarmi buona fortuna, caro, brutto, morto Dick…” – mi sa che potrà incontrarlo ormai solo in un cimitero e poi magari Altrove.
Esibisco alla gentile utenza due esempi che possono far comprendere come la tua prosa è politically not too much correct.
Primo: “Naturalmente, le ragazze si erano servite di lui per tutto il periodo in cui v’era stata penuria d’uomini, ma sempre in un certo modo distaccato, impersonale. Come fornicare con una bella donna la quale non fa che masticare gomma, costantemente. Oh, Uniforme! Oh, Vanità! Esse se ne erano servite, ma appena apparve la prima uniforme lo mandarono a spasso.”
Secondo: “Le donne francesi presenti sono o marchese o prostitute o spie tedesche, qualche volta tutt’e due, qualche volta tutt’e tre.” – per cui occorre confidare sempre su chi è assente!
Cecily, a un ballo pubblico, sta facendo da badante al ciecato (attuale?, ex?) fidanzatino. Un gentlemen la invita a ballare e lei: “Avete sentito, signor Madden? Quest’uomo mi vuol mandar via. Voi lo fareste?” – e lo dice fraintendendo intenzionalmente una frase del damerino: “Il signor Dough vi scuserà. Perché non balliamo? Presto sarà ora di andarsene.” – e poi ella spiega, con arguzia che si potrebbe dire tutta femminile: “Lo chiamo ancora signor Madden, benché ci si conosca da sempre. Ma poi lui è andato in guerra ed io no…” – finendo per favoleggiare che lei sarebbe “diventata un tenente con stivaloni brillanti o un generale o qualcosa del genere. No?” – Sì!
“… egli sentì subito il piccolo seno di lei e le ginocchia, e facendo scorrere ancor di più il braccio fino a sentire l’arco del suo fianco sotto la mano…” – beh, questa scena non sarebbe spiaciuta né a Luchino Visconti, né a Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Jones mi ricorda fisicamente un recente presidente americano, il cui cognome nello slang yankee significa peto. Grande, grosso, fragoroso, uno che sa portare a casa il suo, poche storie, uno che è dotato di una sicurezza consapevole. Se lo sposi, ti tradirà, facendoti vivere bene, senza pensieri.
Cecily è un passerotto minuto, che cinguetta da dea, non stupida ma nemmeno geniale. È una che sa esibirsi in società, sa fingere un po’ per tutto, anche nell’essere sincera. Appare in un modo che non sempre è quel che dentro nessuno (neanche lei) sa cosa stia covando. Ha un fine, la propria felicità.
“Jones guardò su con la sua abituale calma flemmatica, poi si alzò, pigramente cortese. Ella lo osservò attentamente con l’astuto terrore di un animale, ma la sua faccia e i suoi modi non le dissero niente.” – sembra il solito conflitto fra Titti (mi è sembrato di vedere un gatto!) e quel micio a cui in fondo lei vuol bene. Il lettore si sta affezionando a quel grasso trombone, dallo sguardo giallo.
“Il suo sguardo giallo”; “Gli occhi di Jones erano insondabili, pigri, gialli.”; “Lo sguardo giallo divenne insopportabile ed ella distolse il suo.”, tutto questo in tre pagine; poi: “Ella esaminò Jones con disperata attenzione. Se non fosse così grasso! Come un verme!” – il petomane, mi piacerebbe chiamarlo; “Egli avrebbe un aspetto decente, ella pensava, se non fosse così grasso, e se potesse tingersi gli occhi di un altro colore.” – oggi gli sarebbe possibile; “Lo sguardo di Jones era calmo, impudente e intento, osceno quanto quello di una capra.” – che come sanno i pastori, diversamente dalle pecore, che mangiano di tutto, sono di gusti aristocratici; “Il suo sguardo giallo passò su di lei liquido, caldo e chiaro come urina.” – di colore limpido, cristallino, o forse paglierino.
Bell’incontro romantico fra l’obeso Romeo e la mingherlina Giulietta. Lei era bravina a scuola, “Jones era cresciuto in un orfanotrofio cattolico, me, come Henry James, egli raggiungeva la verosimiglianza per mezzo della tediosità.” – non so se ho capito quel che vuol dire, anche perché in un angolo della mensola mi sta distraendo La coppa d’oro, che lo scrittore di New York scrisse nel 1904 e che da un decennio attende di essere letto dal sottoscritto. Presto mi e vi toccherà.
Segue un diverbio fra galli appassionati, uno dei quali è Jones e l’altro è il soccombente, che meriterebbe un romanzetto a sé, corto però (Thomas Bernhard, mi raccomando, pensaci tu!). Si contendono la cinciallegra, che a volte geme per la tristezza! È così grande la differenza di calibro fra quei due tristi alfieri che alla fine finiscono per augurarsi una pur tiepida “Buona notte.”
Ogni tanto la più vissuta delle tre donzelle (chi mai sarà?) riceve una lettera da un certo J. Quella datata “24 aprile 1919” si conclude con un “È l’inferno senza di te, mi manchi e ti amo tanto da morire.” – lo riporto per essere indiscreto (oggi si dice spoiler).
Egli “vide la donna bruna nel giardino tra le rose, che soffiava fumo sopra di esse dalla bocca increspata, piegandosi ad odorarle.” – e il lettore del tuo lettore forse ignora chi sia l’unica fumatrice delle tre consorelle, io sì ma preferisco al momento quantificare gli “Ella”: 3. La fumatrice dice al suo interlocutore, bella ma schietta: “Con tutta la vostra intelligenza, sembra che non abbiate acquistato molta esperienza delle donne.” – e cultura da spendere come spiccioli. Si trattava di “Jones, remoto, giallo e impenetrabile” che “le fissava la bocca.” – e quell’enorme giallastro conosceva persino il significato di “epiceno”, che io devo andare a cercare su zio Google. “Ella la fissò con una spilla.” – si tratta di una rosa che “macchiava di rosso il davanti del suo abito nero”. Poi ella disse: “In fatto di parole, le donne ne sanno più di quanto non potranno mai saperne gli uomini. E sanno che possono significare molto poco.” – una donna che frequentavo mi diceva, quando c’era da contrattare: Fai parlare me.
“Jones spostò il suo sguardo giallo.” – e tre righe sotto spunta il nominativo della interlocutrice.
Joe non stima la giovane vanesia (qui si sta parlando di Cecily): “… Mi irrita vederla cambiare idea ogni venti minuti”: lo sposo, non lo sposo, lo sposo, non lo sposo, e ancora quel rivolo di pensieri le va scorrendo su e giù per la capa.
Ella la giustifica: “Non siate sciocco, Joe. È soltanto giovane e più o meno pazzerella con gli uomini.” – e quindi c’era questo Joe (non zio Joe, Gilligan) nei dintorni. Al che potrei ripercorrere all’indietro le pagine del sottocapitolo per cercarne l’indicazione. Ma lo metto tra le cose da fare quando sarò anziano e non avrò più la passione di scoprire mondi nuovi.
Emmy è una tipa che parla poco ma che eccelle nei flussi di pensieri, e che dentro di sé chiama “Grasso verme” il “signor Jones” – e lui ricambia con un “Piccola sudiciona”, il tutto sempre sottaciuto e messo tra parentesi. C’è anche un “Va’ all’inferno, dannata.” e un “Va’ all’inferno, dannato.” – tutto silente e fra parentesi. Ci sono poi tre, fra loro un po’ diradate, frasi analoghe, pensate e non dette, indovinate da chi (è facile!): “(Questo era Donald. Ed è morto)”; “(Questo era Donald. Ed è morto)”; “(Questo era Donald. Ed è morto)” – quell’Ed è morto m’aveva distratto, per cui l’avevo subito confuso con quel Devey. Sai, amico mio, la tua scrittura esige la massima attenzione, sennò non ci si raccapezza troppo.
Il sottocapitolo 7 di questo Capitolo settimo si intitola Voci. A cinguettare c’è la mamma di quella vittima della guerra, che mai tornò (vivo): “Dewey, ragazzo mio…” – ma qui tutto si confonde. L’ultima voce è ancora della straziata “signora Barney”: “Dewey, Dewey, così bravo così giovane… (Era Donald, mio figlio. Ed è morto.)” – un giorno ne parleremo, Willy, comodamente assisi a un tavolino di quel bistrot. Ok?
Sei un magico descrittore di figure umane: “Il testone di Emmy dai capelli di nessun colore particolare era vicino alla testa devastata di lui in attenta devozione, le sue mani sciupate dal lavoro sembravano possedere un loro proprio occhio, così svelte, così tenere nel prevenirlo, nel guidare la sua mano col cibo che ella gli aveva preparato.” – si tratta di uno degli invalidi di guerra più malmessi e più richiesti come mariti dalla storia.
“… Ha cambiato così spesso idea che nessuno può dire ciò che farà.” – di chi mai si sta cianciando?
Cecily pare essersi decisa, dice la sua e, dopo aver saluto con un sussurrato “Addio”, “volò agile e scura come un uccello, graziosamente, con un delicato batter di tacchi, così come era venuta.”
In mezzo a un gran bel discorso indiretto spunta una frase fra parentesi “(ma te l’avevo detto sempre di quella ragazza)” – che è colei che ha finito per sposarsi per conto suo: si tratta di un flusso di pensieri o di parole dette, non è chiaro, in cerca di un personaggio.
Tutti i tuoi, caro mio, sono (i 7 principali, di cui 4 maschi e 3 femmine) personaggi in cerca di un’individuazione.
A pagina 267 Emmy ancora definisce “verme” il suo obeso e giallastro spasimante. Poi spunta un fatto inquietante: anche i suoi denti sono gialli. Per il fumo, I guess.
Donald Mahon questo poco ciarliero e che da tempo non gliene frega nulla di essere individuato: “riposava quietamente, consapevole dell’invisibile dimenticata primavera…” – era del tutto orbo.
“… stava passando di nuovo dal mondo buio nel quale aveva vissuto per un tempo che non riusciva a ricordare, ad un giorno che era passato da tanto tempo, che era già trascorso per quelli che vivevano, piangevano, morivano, e così ricordandolo, ora, questo giorno fu soltanto suo…” – essendo il tuo romanzo d’esordio, Willy, ti dico che prometti bene: te lo dice uno stupido (stupito).
“‘Ecco come è andata,’ disse, guardando il padre.” – aveva rivissuto per l’ultima volta il suo quasi mortale incidente: mortale a scoppio ritardato, tanto per sparare una sciocchezza.
Nel tuo romanzo, Willy, manca quel che non c’è, ma tutto il resto c’è.
L’ultimo capitolo, il nono, presenta nella prima pagina una frase notevole: “I suoi gialli occhi di capra…” – chissà di chi si sta parlando?
Poi esplode un “Vita. Morte. Vita. Morte. Vita. Morte. Per sempre e sempre. (Se soltanto potessi piangere.)” – è la sposa mancata che non riesce manco a frignare.
“Lo sguardo giallo di Jones l’avvolse come ambra, osservando i capelli cotti dal sole e lo scorcio della coscia che il corpo girato metteva in rilievo.” – Amen e Così Sia!
Poi tutto continua, ci si lascia, si geme, ci si ubriaca, ci si accapiglia. E tutto finisce: “… ed essi si avviarono verso la città sotto la luna, sentendo la polvere nelle scarpe.”
Quando lessi Fëdor Dostoevskij pensai che una parte di sé fosse confluita in ogni singolo personaggio (anche in quella vecchia che batté le manine in segno di dolore, anche in Smerdjakov, il cui nome era così odoroso!). Citando l’Harry Potter di J. K. Rowling, si potrebbe dire che tutti gli attori di una storia siano degli horcrux dell’autore. Leggendo Henry Miller e Jack Kerouac, ma anche Charles Bukowski e Vittorio G. Rossi, ho sempre sentito una pur celata fiction nel loro ostentato essere io narranti e rigorosamente autobiografici. Henry scriveva in Tropico del Capricorno che egli aveva deciso non rileggere nulla di sé, al fine di risultare schietto: non gli ho mai creduto. Henry è un autore veritiero e bugiardo al contempo. Il Serenello di In campagna è un’altra cosa è un horcrux di Achille Campanile. L’horcrux di Guido Morselli è chiamato al telefono da un amico deceduto che gli promette un pacchetto di sigarette, ricordo la marca, alla fine di Dissipatio H. G. Pochi mesi dopo toccò a Guido chiamare un amico e offrirgli da fumare.

Nel leggere La paga del soldato di William Faulkner, ti viene da dire che tutti i suoi personaggi, anche quella sciocchina di Cecily, a tutt’oggi e credo per sempre, siano anime sottese dell’audace Willy, che sempre le rincorrerà, una a una, come se fossero dapprima convergenti e poi, inevitabilmente, divergenti, come Beep Beep!
Contemporaneamente sto leggendo I canti di Maldoror di Lautréamont e, subito dopo, mi consegnerò a La coppa d’oro di Henry James, autore che William Faulkner seguiva con poco umile sudditanza. Tutti e tre gli autori, compreso Willy, sono genialmente capaci di crepare annaspando, e di annaspare creando. Il più annaspante e creativo è il citato giovine francese, ma i due yankee non gli sono poi tanto da meno.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
William Faulkner, La paga del soldato, Garzanti, 1965
Nota
Il titolo originale è The Soldier’s Pay tradotto in italiano con “La paga del soldato” ma da alcuni anni lo si trova in commercio con “La paga dei soldati.