“Un giorno e una donna” di Nicoletta Bortolotti: la storia della scrittrice Christine de Pizan
Un passato remoto non è così remoto se ti infila nel petto una freccia di malinconia. La malinconia è ora, è attuale, ma la narrazione arriva dal buio di tanti secoli passati sotto i ponti, sopra i dolori e dentro le storture.
Era il Millequattrocento. Era Parigi, era il 1418 quando stamattina ho aperto il libro di Nicoletta Bortolotti Un giorno e una donna (HarperCollins, 2022), e mi son trovato lì. Dalla magia delle pagine scritte, alla storia di un tempo. Viaggio all’indietro in un secolo sepolto, ma non dimenticato. Ci sono miscelate tutte le sensazioni che un corpo può sentire sulla pelle.
Scorrono i capitoli del romanzo come un treno supersonico che viaggia all’inverso: via a ritroso dove tutto succede. Non sono al cospetto di un documentario sbadigliato che ricostruisce giorni che furono, sepolti sotto una spessa patina del tempo.
L’autrice mi porta lì, diretto, senza mediazioni, a sentire il freddo, la neve sotto i piedi, il gusto della povera tavola di allora, o lo sfarzo vacuo dei ridondanti banchetti. Sono lì, con i miei sentimenti, a percepire quella freccia di malinconia di allora che colpisce oggi. Con quella rabbia di un secolo di ammazzamenti e soprusi, oltreché ingiustizie. Sono lì a inveire contro i baroni ottusamente maschi dell’Università che strozzano la cultura perché ancora non avevano capito che un popolo si evolve con l’intelligenza delle donne.
Allora tra le pagine di Nicoletta Bortolotti trovi la storia, ma la trovi allo zenit dei colori di oggi, dove ora, forse finalmente una donna può. Era il Millequattrocento, era il colore viola della paura, il colore azzurro della voce del re di Francia, il sapore del sangue, della miseria e del senso indomabile di riscatto di una grande donna.
Viaggio nel medioevo tra sensazioni forti, laceranti e intense, così autentiche che le distanze temporali, appunto, si azzerano. E allora sono in presa diretta, nella mia poltrona, con il libro in mano, a vivere ora, ma seicento anni fa.
Un giorno e una Donna è la storia di Christine de Pizan, la prima scrittrice europea, vissuta nella sanguinosa e sanguinaria Parigi degli inizi del Millequattrocento. In un’epoca nella quale la sussiegosa boria maschilista faceva fremere di rabbia, e si impiantava in un angolo ancestrale del nostro cervello per contaminare i secoli che dovevano venire. E forse ancora adesso non abbiamo superato proprio tutto.
La protagonista viveva nei contorni della nobiltà dell’epoca, in una Parigi crepuscolare per l’infinita Guerra dei cent’anni. E quando all’improvviso, giovanissima, rimane vedova con una famiglia a cui badare, si lancia a capofitto nell’arte della scrittura. Una strada in salita, perché per una donna non era normale, anzi, spesso era considerato disdicevole e oltraggioso.
Non si potevano sfidare i vecchi parrucconi incrociandoli con una cultura più evoluta della loro. Bisognava mostrarsi meno, e Christine era così intelligente che riusciva anche in questo.
Certo la sua fortuna era che aveva avuto un padre illuminato, medico di corte, che intuendo le qualità della figlia l’aveva fatta studiare: un avvenimento rivoluzionario per l’epoca. Ma lei era destina a vive quella rivoluzione, a interpretarla, per far fare un passo avanti a tutta la società.
Di Christine De Pizan sono rimasti libri di storia, saggi, tante poesie, e un’opera monumentale dedicata alle donne: La Città delle Dame. Dove ha fatto sentire una potente voce al femminile. Ha parlato di tante donne porgendo un pensiero gentile sempre coniugato al suo genere.
Ha svelato al mondo, tra l’altro, che una donna stuprata non prova alcun piacere, ma solo dolore e umiliazione. C’era bisogno persino di questo! Ha svelato al mondo che lei ha fatto per la cultura più di quanto hanno fatto tutti i vecchi professori che la osteggiavano. Ha svelato al mondo… il mondo.
Allora le fisonomie della protagonista e della autrice si fondono. Anni di fatiche per cercare di emergere la prima, e anni di fatiche, di studio e ricostruzione la seconda. Si fondono e raccontano in una voce unica, in controcanto, il nostro secolo che vede quello del romanzo. Tempo presente, che oggi ci fa pensare, e passato remoto perché sarebbe vecchia storia. Che è passata, ma è viva, ed è dentro quello che siamo ora.
Così il tempo della voce narrante è il passato prossimo: quasi un non tempo, vicino da far male, ma che non si riavvolge più. Una sorta di limbo temporale, come stare su un fiume dove in una riva c’è il medioevo e nell’altra il presente. E stiamo lì in mezzo a vedere due secoli che si specchiano, che trovano tante differenze, e si toccano sulla stessa acqua che scorre.
E tutto scorre, anche la Guerra dei cent’anni, ma anche la forza e la resilienza di una grande donna che ha lasciato, allora, una traccia fantastica che noi possiamo capire oggi.
Queste distanze del tempo, dove ora è il millequattrocento, ma dove ora sono qui, Nicoletta Bortolotti le gestisce benissimo nella forma epistolare del racconto. Era allora, ma santo cielo è terribilmente attuale, era allora, con la scrittura spessa di oggi, che missiva dopo missiva ci raccontano la storia, la nostra storia, ora, di allora.
L’autrice, Christine/Nicoletta, immagina un fitto carteggio con la figlia che sceglie la vita monastica. Così la madre mano a mano le racconta la sua storia, le racconta di sé, le racconta la vita, le descrive il mondo, di guai, di sangue, e di scrittura salvifica.
Ecco il messaggio che ci leggo io: capiamo bene il passato, ancoriamolo dentro di noi per salvarci.
Written by Pier Bruno Cosso