Le métier de la critique: Giorgio Simonotti Manacorda, il Blu Bar e la Linea Lombarda

Negli anni Cinquanta si costituì un circolo di scrittori, poeti e critici che si riunivano nel milanese Blu Barin piazza Filippo Meda: c’erano, tra gli altri, Luciano Erba, Vittorio Sereni e Piero Chiara; avrebbero prodotto saggi teorici e testi poetici ascrivibili a una corrente letteraria del Secondo Novecento nota come “Linea Lombarda”, termine derivante dal titolo che Luciano Anceschi diede a un’antologia pubblicata nel 1952, che includeva editi ed inediti di Vittorio Sereni, Roberto Rebora, Giorgio Orelli, Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba.

Giorgio Simonotti Manacorda con la moglie
Giorgio Simonotti Manacorda con la moglie – Cascine Pinte di Santa Maria del Tempio a casa dell’apicultore Paolo Ferraro

Autori uniti, oltre che da un’appartenenza geografica nordico-lacustre, da un’attenzione ai rapporti tra poesia e realtà, definita da Anceschi come “poetica degli oggetti”, “poesia in re”. Tra l’altro, essi «operano la corrosione dall’interno dei modi di vita, della mentalità e della cultura borghese, per una disperazione più o meno evidente che li porta a distruggere, con le armi dell’ironia e della corrosione del linguaggio borghese, i miti di quel mondo dal quale vorrebbero “chiamarsi fuori”»[1].

È ascrivibile a Linea Lombarda anche la produzione poetica di Giorgio Simonotti Manacorda, caratterizzata da «un’ironia incantata, preziosa e allusiva come una luce lunare che insieme svela e nasconde un paesaggio corroso, arido, amaro, ma percorso da favolose, ilari figure»[2].

 Ecco tre di queste “ilari figure”, ironicamente presentate in forma epigrammatica: tre ritrattini che rivelano uno humor signorile, talvolta melanconico, tipico di un uomo raffinato sul quale pesa l’eredità culturale dei suoi antenati.

Il cavalier Marengo”

Aveva mani fiorite di lavanda,
un nome di epopea napoleonica.
Braccia conserte dentro il suo podere
impavido attendeva Waterloo.
Vide il ghiacciaio e disse: quanta ghiaccia!
Aveva la casquette coi quadratini
e la piccozza con le bandierine.
Dalla ghiaccia si tenne lontano
quel tartarino[3] padano.

So Nen”[4]

– Porto dentro i limoni, so nen
– diceva, sorridendo negli spicchi
di vetro fra le limoniere.
Aveva il ventre sopra l’equatore
e pantaloni in zona depressa;
era un uomo, So Nen, che si portava
buture di gerani e di ageratum[5]
a fiorire di là.

Il ragionier Zanoni”

Gracili spalle e rientrava il petto.
Le mani strette alla sua borsa
di ragioniere. Dentro la grande estate
un esiliato e si annullava
laggiù fra le cicale.
Contò i miei sogni ad uno ad uno

Non solo “figurine”: anche famosi campioni sportivi piemontesi ispirarono la poesia di Giorgio Simonotti Manacorda. In Casale immortala Umberto Caligaris, famoso terzino degli anni Venti e Trenta del Casale (la prima divisa sociale era ed è: maglia nera con stella bianca sul petto) e poi della Juventus. La «doppia forbice» è un tipo di dribbling assai difficile da effettuare, come pure da spiegare. Il «cielo di cemento» è metafora polisemica: connota un cielo che si fa bigio e al contempo celebra la città che a quei tempi era ancora “la capitale del cemento”.

Casale”

Si ritaglia in un cielo di cemento
la doppia forbice di Caligaris,
sarà in maglia nero-stellata
la notte.

Quest’altra poesia contiene una dedica “(a F.C.)”: il dedicatario, come si evince dal contesto della lirica, è senza dubbio il campione ciclistico Fausto Coppi, morto il 2 gennaio 1960, a soli quarant’anni.

Nell’alta solitudine dei passi”
(a F.C.)

Dov’è rimasto il tuo cuore
dentro l’aria pesante di pioggia
nell’alta solitudine dei passi;
la tua leggenda si sperde nei lumi
di fondovalle, sui balconi di legno
in un estremo scroscio di torrente.
Slontana il rombo degli applausi
e l’ingranaggio scricchiola di fango
(t’insegue il nero angelo
e un silenzio azzurro di campane).
Null’altro, e la parola
che si fa sola al tuo poeta.

Ed ecco una poesia che presenta un Monferrato di favola, ma che è pure un richiamo allo svariare di illusioni e di ideali: San Giorgio (Monferrato), un comune poco distante da Casale Monferrato, si concentra attorno al castello che, da un ben visibile colle circondato dal «mare dei vigneti», domina la strada di collegamento Asti-Casale e la parallela ferrovia, in disuso dal 2010.

“San Giorgio

Giorno alto navigato
sul mare dei vigneti;
la sera il vento che sciaborda
alle murate del castello,
nella saletta di navigazione
con gli strumenti lievemente guasti
puoi traguardare le stelle.
Piccole voci nella piana,
le verdi filigrane dei treni
dicono al cuore: la rotta è sicura.
Lontanissime sorgono luci
dentro la notte, forse l’invasione
temuta lungamente
appassionatamente attesa dei Tartari…
Fugge il più audace fantasma
dentro le sue torri di tempo.

Giorgio Simonotti Manacorda nacque a Casale Monferrato nel 1915. Il padre, ingegner Oreste, era un facoltoso imprenditore nel campo della produzione di energia elettrica, fu presidente del Casale Calcio e, per un biennio, dell’Ambrosiana Inter; aveva sposato la figlia dell’avvocato Luigi Manacorda più volte sindaco di Casale Monferrato: Vittoria, donna avvenente e audace (aveva partecipato anche a una Mille Miglia), amica e corrispondente di Gabriele d’Annunzio, amatissima dall’unico figlio che sempre si firmò col doppio cognome. Giorgio trascorse felici e svagate villeggiature nella sontuosa dimora di Villabella presso Valenza; qualche viaggio all’estero e una consuetudine di letture ad amplissimo raggio lo arricchirono di quel senso di appartenenza all’Europa tipico di tanti giovani della fascia alto – borghese cresciuti tra le due guerre.

Nel 1944-45 partecipò alla Resistenza con la qualifica di Partigiano combattente, fu arrestato e detenuto a Milano, nella famigerata Villa Triste e a San Vittore: un’esperienza di cui parlava con distacco quasi sorridente, ma che lo minò nel fisico e nel morale.

Nel dopoguerra frequentò il “Blu bar”, il già citato ritrovo letterario milanese dove conobbe Carlo Bo, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni. Il poeta e francesista Luciano Erba, nella nota introduttiva a I baffi di Blériot, scrisse di lui: «è mio amico… Coltiva in proprio non so quante moggia di terra in riva al Po. È di quelli che si alzano presto al mattino e trovano subito gli stivali per uscire nei campi. […] mi ha raccontato […] di quando e come conobbe la Belle Otero e sentì cantare Yvette Guilbert; e strinse la mano a Caligaris, gloria del calcio subalpino». E vent’anni dopo così ricorderà l’amico perduto elogiandone le prime poesie: «mi colpì una involontaria consonanza di temi, di modi, di pronuncia con la poetica di quella che si sarebbe poi chiamata la Linea Lombarda: lo stesso retroterra culturale, il senso e il gusto degli oggetti, il rifiuto dell’enfasi, l’avversione a ogni eloquenza»[6].

Piero Ravasenga a destra con il cav. Ferraro (primo a sinistra), Giorgio Simonotti Manacorda, Edoardo Ferraro e la moglie di Simonotti - 1967
Piero Ravasenga a destra con il cav. Ferraro (primo a sinistra), Giorgio Simonotti Manacorda, Edoardo Ferraro e la moglie di Simonotti – 1967

Di Luciano Erba fu amico personale, come pure di Piero Chiara,[7] spesso da lui ospitati a Villabella e accompagnati a comperar miele e a discutere di cose culturali a Cascine Pinte di Santa Maria del Tempio (una frazione di Casale Monferrato), godendo la squisita ospitalità del cavalier Paolo Ferraro, la cui tenuta, frequentata da personalità della cultura e della politica, fu ribattezzata (ormai non si sa bene perché) “Venezuela” dall’assiduo e sempre in bolletta scrittore Piero Ravasenga, l’avucàt dal Burgh.[8]

Trovandosi in ristrettezze economiche, riprese gli interrotti studi universitari e nel 1965 si laureò a Milano con Mario Fubini, presentando una tesi sul poeta piemontese Giovanni Camerana. Come docente di Lingua e Letteratura italiana insegnò dapprima nella scuola media di Candia Lomellina (PV) e poi nell’Istituto professionale per i servizi commerciali “Raffaele Jaffe” di Casale Monferrato. Dopo la morte della madre, nel 1966, lasciò la residenza di Villabella per trasferirsi nel centro di Casale, nello storico Palazzo d’Alençon, allora di sua proprietà. Morì l’11 ottobre 1971, all’ospedale di Casale Monferrato, per le complicazioni di un banale intervento chirurgico.

La carriera letteraria di Giorgio Simonotti Manacorda culminò nel 1967 con la pubblicazione presso Einaudi del volume di poesie I banchi di Terranova, che si può considerare quasi un’antologia perché, oltre ad alcuni inediti databili 1966-1967, si ripresentano testi già pubblicati nei libri precedenti.[9] Il titolo della silloge einaudiana è ironico e polisemico. Da una parte rinvia a un’autobiografica quotidianità: in quegli anni il poeta si recava al lavoro di insegnante servendosi del treno che passava da Terranova (una frazione di Casale Monferrato, ai confini con la Lombardia) e lo portava alla scuola media di Candia Lomellina, attraversando un tratto della pianura padana spesso immersa nella nebbia. Banchi di nebbia, banchi di scuola… Ma d’altra parte, indicando per omonimia un gruppo di bassi fondali a sud – est dell’isola canadese di Terranova, il titolo rinvia a una zona di buona pesca ma molto nebbiosa che, prima dell’avvento della navigazione strumentale, rendeva insidioso e avventuroso il passaggio in quel tratto di mare. Il titolo segnala pertanto la tematica e il tono poetico di Giorgio Simonotti Manacorda: gli immaginati spazi oceanici compensano un’angusta realtà esistenziale, peraltro serenamente accettata, se non addirittura cercata, come si evince da questa poesia:

“Non partiremo mai”

Antonio, noi non partiremo mai.
Navigheremo sempre
antichi mari di sogno
sotto la luce fragile
del paralume giapponese.
Non sentiremo l’urlo
della sirena nei distacchi amari
lungo i moli di nebbia.
Restiamo, io non ho più voglia
di vedere
oltre i colli
della mia fanciullezza.
Il Mare delle Antille
ha un colore
meraviglioso
spiegato sulla scrivania.

Secondo Giovanni Cantieri, studioso spagnolo di origine italiana, traduttore di Pirandello e di Ungaretti, Non partiremo mai è una poesia-chiave, perché, accanto alla nostalgia risvegliata dal ricordo dei suoi viaggi, in parte realizzati solo con la fantasia, c’è l’ironia amara di sapere che mai la realtà potrà superare i sogni: il colore delle Antille è meraviglioso solo se contemplato da una mappa posata sulla scrivania, sotto la luce fragile/del paralume giapponese.”[10]

Servendosi di un verso libero quasi sempre breve, che in pochi casi supera la misura dell’endecasillabo, Giorgio Simonotti Manacorda crea una poesia fatta di sogni e di rinunce, di ricordi d’infanzia e di adolescenza, di un’accettata ma non del tutto soddisfacente quotidianità di piccole cose e di ordinari eventi che assurgono a occasione per manifestare un complesso sentire e un sommesso ma incisivo meditare:  la tosse dei preti (perché «nove mesi dura l’inverno/ dentro le sagrestie di campagna»)[11], i manifesti mortuari appesi ai muri, bagnati dalla pioggia e strappati dal vento, il rumore dei petardi posti sui binari della ferrovia, che scoppiano al passaggio dei treni, avvertendo il macchinista che si trova in prossimità della stazione. Vicende, persone e cose inserite in un ricorrente scenario, quello della pianura del Po e dei bassi colli monferrini: luoghi pur essi un poco leggendari, dove i ricordi, suoi o di altre persone, talvolta autentici e altre volte falsi o falsati dalla memoria, paiono avere maggior peso della realtà. Ecco una poesia che dimostra molto di quanto fin qui affermato:

“La tosse dei preti”

Nove mesi dura l’inverno
dentro le sagrestie di campagna,
 i preti si portano la tosse
come un breviario di abitudini.
Le stagioni si addossano nell’anima
come quaderni canonicali
che hanno copertine nere
e antiche macchie di cera.
I melograni parrocchiali
(frastaglio d’ombre l’estate
saporose polpe autunnali)
non sopravvissero alla guerra
a litanie di perpetue
al riapprodare sul sagrato
degli anni.
Queste sono le croci
questi sono i battesimi
e questi gli sponsali della vita;
sui crocicchi nel vento triste
dei paesi i manifesti funerari
sono lasciati a sbiadire.
I preti vanno con la loro tosse
lungo i fossi del giugno,
quando si piega il rosso dei papaveri
anche noi senza più sogni
senza più frutti come i melograni.
Ora la traccia dei cani
si fa più chiara e più alta la voce
dei treni nel disgelo.
Chi oscillerà stasera con la lanterna
del nero casellante che appresta
i mortaretti per la notte?
Chi partirà con l’ultimo merci
nella garitta del frenatore di coda
al segnale della civetta?
Io resto a bere il vino con i preti,
oltre i cancelli una figura
che passa urta nel petto,
l’odore della vita è buono,
io lascio che i cartelli con le lodi
dei congiunti laceri il vento;
verrà dentro le rose,
forse è una ghirlanda
la vita se la puoi donare
sui sagrati di maggio.

Ecco un’altra poesia in cui compaiono molti spunti della tematica, della gnomica, della disposizione sentimentale e della Weltanschauung di Giorgio Simonotti Manacorda:

“L’anima del vino”

È l’anima del vino che ritorna
nelle sere d’ottobre
quando nel fuoco danzano i folletti
batte alla porta il vento
come un brigante un vecchio bracconiere.
E tu l’accogli come i sogni
di frodo al fondo dei bicchieri:
è il grande amico è l’avventura
sulla spiaggia battuta di libeccio,
non rinchiuderlo l’uscio
appare la fanciulla in giustacuore
la favola vissuta e non ridetta mai.
Anche torna il dolore
(le bottiglie stanno laggiù
come soldati pazienti allineati
nelle trincee degli anni)
adagio si alimenta dentro l’anima
e si decanta illimpidisce
di scorie, non rimane che l’essenza
del puro sentimento il fiore.
Non contarli i bicchieri
senti il grido sottile degli aironi
(se ne vanno sul filo del fiume
e tu con essi ne hai la grazia
inconsapevole l’istinto
sei nuvola alto fiuto sospeso),
lascia la nebbia che si impigli
nei tralci deserti del cuore.
È questa l’anima del vino
è il sole sprigionato di un ottobre
il tempo che fu di tua madre
che ai dolci clivi sbocciava
ragazza in fiore; stasera
nel tempio dell’anima
sui muri che ondulano le ombre
ritornano quelle tue sere
padane persuase nel sonno.

Dopo I banchi di Terranova Giorgio Simonotti Manacorda pubblicò poco altro. Molto significativa (quasi un testamento letterario), la lirica Poetica, apparsa su “L’argine letterario” nel 1971:
basta non uscire più non svagarsi
con le immagini di ragazze
non divagarci sliricizzarsi
è questa forse l’unica poetica
possibile (ce ne saranno altre
non so) ma quando senti il primo treno
delle quattro del mattino
pensa che può essere il tuo
e non è il caso di dire
troppe parole.

Non ci sono maiuscole, mancano i segni d’interpunzione, non c’è trama fonica, la sintassi si allenta a favore dell’accostamento di immagini per analogia, il tono si fa prosaico, i versi sembrano grezzi appunti, cose un prendere appunti, svelte annotazioni di qualcosa che comunque non deve andare perduto.

Giorgio Simonotti Manacorda con la moglie - Cascine Pinte di Santa Maria del Tempio
Giorgio Simonotti Manacorda con la moglie – Cascine Pinte di Santa Maria del Tempio

Nel febbraio 1972, pochi mesi dopo la morte del poeta, uscì una plaquette stampata in duecento esemplari dall’editrice lussemburghese “Origines”, con testi scritti dal poeta in italiano e tradotti in francese da Dominique Ferrari: Non fanno ombra gli iris/Les iris ne donnent pas d’ombre, con un’incisione di Joxe De Micheli. Ricompaiono gli stilemi linguistici e tonali già rilevabili in Poetica, sia nelle tre liriche brevi (La cintura, L’ombrello, Il piromane), sia in Discorso filato, un poemetto di cinquantun versi liberi. Eccone alcuni, tra i più significativi:
scomporlo questo discorso
ricomporlo la notte
quelle tabule rase
delle strade di polvere
bianchissime nel cuore
il capino dei papaveri
l’ombra dei cani
alle catene
rossastri cani di campagna
con le zampe nel sole
che struggimento che pena
che discorso filato sfilato
mamma dimmi che posso
ridirlo alla brunetta
col grembiule nero
che si dimentica
persino di sorridere…

Nulla dell’avanguardismo a quei tempi così tanto di moda. Piuttosto, la volontà di sliricizzarsi, ma in un modo tutto suo: abbassando il tono poetico, rinunciando alla piacevole fatica di levigare e indorare la propria parola. Una strada nuova, che la morte improvvisa lasciò interrotta.

 

Written by Vincenzo Moretti

 

Note

[1] Giorgio Bárberi Squarotti, La cultura e la poesia italiana del dopoguerra, Bologna, Cappelli, 1966.

[2] Giorgio Bárberi Squarotti, Poesia e narrativa del secondo Novecento, Milano: Mursia, 1961.

[3] Tartarino di Tarascona, il personaggio eponimo del libro dello scrittore francese Alphonse Daudet (pubblicato nel 1872), è un piccolo borghese della città di Tarascona (in Provenza), non più giovane, tendente alla pinguedine, vanaglorioso e pasticcione, che di continuo ingigantisce e mistifica i fatti ma diventerà facile preda di dileggi e di raggiri.

[4] So nen, in dialetto piemontese vale “non so”: qui è l’’intercalare tipico del giardiniere, donde assume il proprio soprannome.

[5] Botura (o bottura o buttura): nell’Italia settentrionale, sinonimo poco comune, di talea (parte di una pianta capace di emettere radici, adoperata perciò per generare un nuovo individuo nella cosiddetta “riproduzione per talea” o semplicemente “talea”). L’ageratum o agerato è una pianta ornamentale che produce fiori azzurri.

[6] Luciano Erba, Ricordo di Giorgio Simonotti Manacorda, in Piemonte e letteratura del Novecento, Atti del Convegno di San Salvatore Monferrato, 1980. Luciano Erba (Milano 1922 – Milano 2010) fu docente universitario di letteratura francese e di Letterature comparate all’Università Cattolica di Milano. Poeta innovativo nel seno della Linea Lombarda, pubblicò quindici libri di poesie dallo stile apparentemente semplice, leggibile, ma al tempo stesso raffinato e sottile. Fu coautore con Piero Chiara dell’antologia di poesia contemporanea Quarta generazione (1954).

[7] Piero Chiara (Luino, 1913 – Varese,1986) fu un prolifico e dovizioso autore di romanzi che furono spesso traposti in film dei primi anni Settanta: Venga a prendere il caffè… da noi, 1970 (dal romanzo La spartizione), regia di Alberto Lattuada; La stanza del Vescovo, 1977, regia di Dino Risi; Il cappotto di astrakan, 1980, regia di Marco Vicario.

[8] l’avucàt dal Burgh (“l’avvocato di Borgo San Martino”) era l’appellativo con cui i Monferrini si riferivano allo scrittore Piero Ravasenga (Borgo San Martino, 1907 – Alessandria, 1978), che era effettivamente laureato in Giurisprudenza ma che non esercitò mai la professione forense.

[9] Poesie (Guanda, 1952), I baffi di Blériot (All’Insegna del Pesce d’Oro, 1961), La tosse dei preti (Rebellato, 1964).

[10] in Diccionario literario de obras y personajes y de Autores, Gonzalez Porto-Bompiani 1959, alla voce I banchi di Terranova, redatta da G.C. (Giovanni Cantieri). Sul tema del viaggio è ritornato di recente Stefano Giannini, Viaggi e itinerari (in)compiuti della poesia italiana del dopoguerra: una nota sulla poesia di Giorgio Simonotti Manacorda, in Tradition and the Individual Text: Essays in Memory of Pier Massimo Forni, Johns Hopkins University Press, 2019.

[11]La tosse dei preti, in I banchi di Terranova, Torino, Einaudi 1967. Sulla figura del prete esiste un esaustivo articolo di Pier Massimo Forni, L’immagine del prete nei versi di Giorgio Simonotti Manacorda, in “La rivista del clero italiano”, 1977.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *