“Stazione di Baranovitch” di Shalom Aleichem: tre racconti ferroviari
Leggo nella Presentazione di Daniela Leoni che “Shalom Aleichem – pseudonimo di Shalom Rabinowitz”, nato “nel 1859 Perejaslav, piccola cittadina dell’Ucraina”, è ebreo e scrive in yiddish, che a suo dire è la lingua “nella quale ogni autore ebreo pensa anche quando scrive in ebraico…” – per cui, arguisco che, usando direttamente quel linguaggio più recente, evita di doversi tradurre scrivendo.
È un po’ come se uno scrittore arşân, reggiano, indeciso se usare il latino o il francese, preferisse esprimersi, scrivendo, nel dialetto avito anziché nelle due lingue che l’hanno determinato. Pochi fenomeni danno l’idea del Panta Rhei, come quello linguistico. E nessuna gente, come quella ebraica, ha girovagato per il mondo intero, finendo talvolta, come nel caso di Shalom Aleichem, i suoi giorni “nel Bronx”, oppure in altri luoghi assai distanti da quelli di nascita. Quando penso all’ebreo errante, il primo nome che mi viene in mente è Albert Einstein. Tedesco di nascita e poi naturalizzato (che parola orrenda!) svizzero e statunitense.
Leggendo Il cappello scemo di Haim Baharier ho scoperto che, nell’antico ebraico, tevà è sia parola che arca: un mezzo di comunicazione che, quando la sai condurre, può recarti dove esattamente non si sa, anche se un po’ lo si sa: dove ha inteso portarti l’autore che leggi, o il timoniere del natante.
Riporto ancora un pensiero di Aleichem, inserito nella suddetta Presentazione: “Uno scrittore desidera scrivere, perché se non gli piacesse scrivere non sarebbe uno scrittore.” – è come capita nel fumo, in cui si comincia per curiosità e per soddisfare un piacere, poi tende a diventare un vizio, più o meno mortale.
Il consiglio che do all’eventuale lettore del lettore di Stazione di Baranovitch è di smettere immediatamente di leggere la mia reazione a questa silloge di racconti, per rivolgere la sua attenzione alla Presentazione di Daniela Leoni, chiarissima e veramente illuminante e poi di ingurgitare non in un fiato, ma in tre fiate, una per giorno, le novelle in essa contenute.
Per dare l’idea della cogenza di questa lettura, riporto le ultime due parole usate da Aleichem al termine del suo prologo Al lettore: “Buon viaggio!”. Bene! Finalmente si è partiti e a breve si arriverà, anche se s’ignora dove.
Dice l’io narrante: “Se volete, vi narrerò la storia di un racconta-frottole, uno dei miei compaesani di Kamink.” – un paese non è tale se, a ogni via, non c’è almeno un cûnta bâli, così li chiamiamo dalle mie parti, che è il narratore di eventi al limite dell’incredibile. Ve n’è uno anche nella via dove abito e, quando lo incontrano, tutti lo chiamano con il suo nome di battesimo, ma poi egli diventa al cûnta bâli, quando si parla di lui in terza persona.
La prima storia narrata è sfiziosa perché è incredibile ma resa quasi ipotizzabile, almeno fino a un certo punto. Un deceduto, sedicente redivivo, senza mai presentarsi di persona, pur minacciando di farlo in caso di mancato versamento di denaro, costringe innumerevoli volte un paese, mobilitato dal fin troppo saggio e buon avo del raccontatore, a raccogliere i fondi necessari per il suo mantenimento in vita (diversamente quel diversamente vivo si sarebbe suicidato). E qui mi domando quanti arşâni avrebbero aderito all’iniziativa. C’è un detto delle mie parti che dice che ûn… s’al vōl ch al cûl chêga, al va po’ a lavurêr! – e qui non oso tradurre per decenza.
Gli ebrei non sono meno individualisti di noi, ma quando l’attimo è fatidico, diventano un popolo coeso come pochi altri, o forse nessuno. Pure noi reggiani possiamo diventarlo, ma solo se c’è di mezzo una lotta di liberazione. Diversamente ognuno tende a fare i suoi.
Il bello di questo racconto non è il suo svolgimento, ma il non giungere a una sua fine. Una fine ce l’ha, ma è monca come la coda mozzata di un cane, perché chi la va contando, è ora arrivato alla “stazione di Baranovitch, stazione di Baranovitch…” e deve prendere con urgenza il prossimo treno, per cui si limita a gridare: “Quale fine? È solo l’inizio. Lasciatemi!”.
Ecco perché le ultime parole di chi scrive sono: “Che la stazione di Baranovitch possa bruciare!” – ma come sono vendicativi questi umani dal volto semita! La loro storia non è mai importante quanto il modo in cui essi la vivono e poi la vanno raccontando.
Il secondo racconto, non meno fantasioso, si conclude “quando nella carrozza giunse il controllore a chiedere i biglietti. Sempre (l’ho notato molte volte) il controllore giunge nei momenti meno opportuni…” – in effetti è così, anche se ultimamente, coi treni ad alta velocità, le cose sono cambiate.
Appena sali, tu sai che, prima della successiva fermata, quello lì passerà (magari dopo aver assunto le forme di una bella ragazza) e chiederà i primi caratteri del tuo biglietto, e ciò varrà per te e per chi hai visto salire insieme a te, alla tua stazione di partenza. E se questo non accade (ma sta’ pur certo che prima o poi succederà) ti senti quasi quasi defraudato.
Tornando com’è doveroso al racconto, ora “nella carrozza scoppiò una gran confusione, un caos terribile…” – un fenomeno entropico che interrompe ogni civile confrontarsi, ogni reciproco ascoltarsi. Quando l’io narrante racconta al cûnta bâli un’informazione, questa gli viene direi quasi donata, ma in senso negativo: quel fantasioso ballista gli dice quel che essa non è. Di tutto ciò non mi concedo però nemmeno un mezzo spoiler.
Il terzo racconto è così ebraicamente tragico che non mi va di accennare ai suoi personaggi. Ma alla morale che ne esce sì: il Fato, che è deciso da chi vige nel non-luogo che è non-situato oltre gli Dei, ma chissà che è poi, e se c’è davvero, ma per quanto orrido, ha un suo bello: ci toglie la responsabilità dei nostri atti. Ma questa non è la morale ebrea, quanto di chi non crede in Nulla.
In sintesi: quando un congiunto che sta per terminare la sua terrena esistenza, implora d’essere dimenticato, sa bene che ciò è impossibile, ma così facendo intende soprattutto chiedere la grazia in riferimento al suo ultimo peccato: la propria morte.
La silloge m’ha confermato il fatto che non sono in grado di stabilire un giudizio sereno su questo popolo controverso, essendoci qualcosa che fatico a non ammettere. L’ebraico, anche chi fra i suoi componenti lo negherebbe sotto giuramento, ha fede d’essere il popolo eletto, cioè diverso da tutti gli altri, pur senza cessare d’indicare a tutti gli altri, pure ai suoi nemici, a tutti noi, che da lui si possa imparare chi si è, perché e fino a quando.
E, pur essendo arduo ipotizzare che un giorno tutto ciò abbia fine, in quel penoso caso stento a capire quanto tale evento sia auspicabile. Un mondo in cui ebrei e non ebrei si sentissero ugualmente fratelli, e non soltanto figli del medesimo dio, è così spietatamente meraviglioso che non può che recare la più greve delle angosce.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Shalom Aleichem, Stazione di Baranovitch, Marietti 1820, 2023