“Danubio” di Claudio Magris: un fluido e ceruleo entanglement

Ho letto le prime 105 pagine di “Danubio” di Claudio Magris e ora sento il bisogno di trarre i remi in barca, di poggiare la testa alla poppa della barca e i piedi alla prora, essendo io breve quanto la barca, che è a misura d’uomo, per cui ci sto proprio bene, anche se quell’infida mi sta recando chissà dove.

Danubio di Claudio Magris
Danubio di Claudio Magris

Morire è un po’ partire. E quando si arriva, si resuscita, almeno si spera. Ci si sta davvero bene in questa bagnarola che utilizzo da quando avevo sei anni. Non della medesima dimensione è il fiume di parole che mi sta avvolgendo e scuotendo da più di un giorno: lungo e ricco di anse, a quanto mi pare d’aver capito.

Ho appena riletto il quarto capitolo del Chant troisième de Le Chants de Maldoror, scritti dal ventenne conte di Lautéamont, esattamente quello in cui il “CréateurIl était étendu sur la route, les habits déchirés”, sbeffeggiato da chiunque lo scorgesse, tranne che dal regale “lion, qui passait, inclina sa face royale, et dit”: quel che gli pare giusto. Quel tapino, esaurita la sua stessa entropia, non ce la fa più nemmeno a disperdersi, poiché troppo gli costò “tenir constamment les rênes de l’universe…” Per cui quell’ormai orbo Nume ha deciso da tempo di riposarsi, contando sull’aumône de le derviche e sulla pietà di chi sa essergli riconoscente. Di cosa? Dell’idea della vita, che solo una divinamente creatura geniale poteva partorire e svezzare giorno per giorno.

Pablo Neruda intitolò la sua autobiografia Confesso che ho vissuto, come se fosse una colpa che può destare meraviglia più che il compianto del peccato, che si spera che non esista. Vivere per raccontarla la chiamò Gabriel García Márquez, che non volle porre limiti alla propria esistenza, ma solo fissarne dei momenti, ri-vivendoli uno per uno. Egli sapeva che, se peccato c’era, ci sarebbe stato anche domani e per l’eternità: a thing of pity is a joy for ever. Nel mio arşân, pèca è il gradino che non si può evitare se si vuol salire o scendere. Quel nume è accasciato al suolo e attende che l’ultimo bagliore della vita si smorzi. Dio non è morto affatto, però è moribondo.

Se non ho ancora detto alcunché di Danubio di Claudio Magris è perché ho atteso più di cento pagine prima di formulare per iscritto, mentre la mia anima già ribolle da un po’, il minimo pensiero intorno a esso. E ancora non so proprio decidermi.

La nerezza è un indicatore di un colore che pare non sia che l’annullamento di tutti gli altri. La Negritudine è l’esaltazione di quel che viene considerato da tutti un’offesa: la parola negro è a volte collegata ad aggettivi infamanti. La fame è nera, il destino avverso lo è. Non posso però dimenticare la frase di mia madre Rosalinda che un giorno, vedendo in televisione il faccione allegro di un cantante di colore, disse: e gh piêş al gnôc, am sa!: gli piace lo gnocco, mi sa. E che ancor più mi sorprese quando mi rivelò un banale segreto (nel senso indicato da Salvatore Patriarca nel suo Elogio della banalità): i nîgher a gh ân al sângov ròs cme al nôster!, frase che non ha bisogno di traduzione. E tutto ciò perché l’ho scritto? Perché la parola che mi suggerisce, almeno finora, la lettura del romanzo (quanto autobiografico, chiedo, dopo aver letto a pagina 4 che è “un’opera di fantasia”, di Claudio Magris, autore che ha sempre destato la mia simpatia, anche quando penso a qualche intervista televisiva a cui si è sottoposto, in cui rivelava d’essere stato amministratore di condominio, nonché la sua abitudine di scrivere le sue opere al bar) è Infinitudine.

Se Magris mi vedesse come sono conciato io ora (tra abbigliamento vergognosamente casalingo e un attacco di gotta al piede destro, infilato in un mastello di plastica di color blu Danubio), di certo intuirebbe perché io non sia così propenso a seguire il suo esempio: io scrivo a casa perché voglio essere solo col mio autore. Terza frase memorabile di mia madre: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun!

Chissà se arrivo alla quinta pagina della mia reazione (che è già cominciata, ben inteso!) a Danubio senza citare nemmeno un suo passo? Ne dubito.

Per me la citazione dell’Altro è fondamentale; e in questo la mia genitrice m’è di aiuto; il ruolo del genitore Rolando, persona assai più silenziosa, fu di convincermi, quasi in ginocchio, a leggere L’Idiota di Dostoevskij, cosa che feci obtorto collo. Ma già dalle prime pagine mi convinsi che quel Principe Myskin c’est moi! E mi aiuta anche quel ragazzaccio di Arthur Rimbaud, per quando dice (tutt’ora, tutti i giorni che ci penso): “Je est un autre”

Claudio Magris dissemina la sua prosa di innumerevoli citazioni di artisti, filosofi, scrittori, opere d’arte, chiese, campanili, rivi strozzati che gorgogliano, esploratori delle foci del Nilo come Richard Burton e John Hanning Speke, personaggi che m’emozionarono anni fa quando vidi la serie televisiva Searching for the Nile: problematici eroi di cui anche tu, Claudio, parli, a pagina… no… purtroppo non l’ho segnata con alcuna sottolineatura, ero troppo emozionato.

“È confortevole che il viaggio abbia un’architettura e che sia possibile portarvi qualche pietra, sebbene il viaggiatore sembri non tanto uno che costruisce paesaggi – ufficio del sedentario – quanto uno che li smonta e li disfa…” – oppure li re-censisce, attribuendo loro il giusto valore.

Io non so scrivere re-censioni perché non amo censire, valutare, quanto re-agire all’altrui valore, facendolo mio. Lo ammetto, sono un mezzo ladruncolo. È uno scambio quello che desidero, un entanglement quantistico. Uno scambio di esistenzialità.

Andando con la famiglia verso il Cilento, mi fermai a vedere la Cascata delle Marmore, e quando le vidi mi dissi: Ah, tutto qui? E allora, perché bramo con tanto ardore di tornarci, portandoci magari mio figlio Michelangelo, che quel giorno era assente (essendo intento a rincorrere i suoi personal dreams)? L’aspettativa e il ricordo sono sempre più costruiti, più realizzati, della realtà, ed è tutto quel che ci stimola a esistere e, nel caso più disgraziato, a scrivere.

“Ma anche la distruzione è un’architettura, una decostruzione che segue regole e calcoli, un’arte di scomporre e ricomporre ossia di creare un altro ordine”: Śiva e Visnù da sempre sono soci amministratori di pari grado della medesima compagine sociale (una S.N.C.: Società Numi Collaboranti). E se paiono bisticciare, non dubito che si tratti, come si dice ad Amalfi, di ‘na parata, fatta a nostro specifico beneficio.

“… se il poeta si affida al battello ebbro…” – ancora ciao, Arthur Rimbaud, infernale patrigno di tanti figli di NN, mentre “il suo supplente cerca di seguire il consiglio di Jean Paul…” – scrittore che ho conosciuto, ahimè, di sfuggita, “… di raccogliere per strada e annotare immagini, vecchie prefazioni, locandine di teatro…” – e così via…

“… viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando…” – essendo un atto anti-borghese, perché ti distacca da quel che hai, alla ricerca di quel vorresti essere. S’è mai visto un profugo abbiente? Quelle vittime del capitalismo assassino fuggono dal loro ambiente perché colà non è rimasto nulla. Il borghese viaggia turisticamente, avendo messo dei soldi da parte per i suoi sfizi esistenziali. Panta Rhei, ma sempre dipende dove e perché. E fino a quando.

“Sant’Agostino aveva in parte torto, quando esortava a non uscire fuori da se stessi: chi resta sempre dentro, strologa e si perde, finisce per bruciare l’incenso a qualche idolo di fumo uscito dalla spazzatura delle sue paure.” – per cui, come traduco io un pensiero di Gianni Celati, l’importante è… è ex-agerare, traboccando dagli argini del fiume.

“… bisognerebbe dibattere i problemi almeno due volte, come i goti che piacevano per questo a Sterne, e cioè prima da ubriachi e poi dopo smaltita la sbornia…” – e vorrei qui citare Onorio, che non ha mai bevuto né letto quanto me (pur essendo anche lui Etrusco/Gallo/Unno/Goto) a cui chiesi perché molti scrittori eccedessero nell’alcol. Con la sua magica flemma, mi rispose: per liberarsi dai pregiudizi. Lo vorrei chiedere a Stephen King e, nel caso abbia tempo, a Charles Bukowski.

“Quel Danubio che c’è e che non c’è, che nasce da più parti e da più genitori, ci ricorda che ognuno, grazie alla molteplice e nascosta trama cui deve la sua esistenza, è un Noteentiendo…”un kangaroo che zompetta per i fatti suoi. Sono il figlio riconosciuto di Rolando e Rosalinda, ma anche di tutti gli autori che ho letto, anche di te, Claudio, e dei luoghi che j’ai vu et vécu, anche di Pisciotta, dove un giorno ti porterò.

“Forse scrivere significa colmare gli spazi bianchi dell’esistenza…” – amo tanto quel forse.

“… non la successione di quegli attimi senza storia crea storia, bensì le correlazioni e le aggiunte apportare dalla storiografia…” – che sarà scientificamente falsificata dalla sua malefica prole.

“L’amore non è sufficiente per creare la poesia, anche se talvolta…”kam’a, la passione è la benzina. E, come disse un cristiano di nome Massimo, senza benzina anche una Ferrari non si muove di un millimetro (alludeva però alla necessità della preghiera).

“L’identità è una ricerca sempre aperta e anche l’ossessiva difesa delle origini può essere talora una regressiva schiavitù quanto, in altre circostanze, la complice resa allo sradicamento.” – mi piacerebbe che si facesse una ricerca comparata del Dna etnico dei nostri governanti, per poter scoprire quanti popoli i loro avi hanno tentato di sostituire.

Heidegger (l’autore che meno pare concedere confidenza) va “a contraddire felicemente il culto del radicamento…” – quando insegna “che ‘lo spaesamento è un modo fondamentale dell’essere-nel-mondo’, che senza disorientamento e perdita, senza errare per sentieri che si smarriscono nel bosco non c’è chiamata…”da parte di quanto ignoto “Essere”.

Il poeta “non assomiglia ad Achille o a Diomede che infuriano sul cocchio di guerra, ma piuttosto a Ulisse, che sa di non essere nessuno…” – che sa di essere un Nessuno che segue virtute e canoscenza: cercando nella propria volontà la forza che lo induce a mutare l’umano suo cammino.

“… ogni pensiero veramente grande deve aspirare alla totalità e questa tensione comporta sempre, nella sua grandezza, anche un elemento caricaturale, una punta di autoparodia.” – e chi non ride è perduto, perché si ferma, mia vile traduzione del detto di mamma: piânşer fa trî e réder fa trî: ma se il primo atto ti blocca, il secondo ti fa proseguire.

“Il viaggiatore, scrive Jean Paul, è simile al malato, è in bilico fra due mondi.”in ponte, dicono ad Amalfi, la vita è un ponte fra due nulla”, diceva Nietzsche, in spicajòun, dicono a Rèş, penzoloni e pronto a spiccare un salto verso il successivo versante (o verso la pur necessaria caduta).

“Ma forse non solo Jean Paul, bensì chiunque scrive è un falsario di se stesso…”un produttore di Finzioni, direbbe Borges, quando “affibbia con appassionata sincerità ma con arbitraria sostituzione di persona il pronome ‘io’ a un altro, che in realtà va per la sua strada.” – in uno degli infiniti mondi ipotizzati da Hugh Everett III.

“La letteratura offre riparo alla mancanza, grazie a ciò che trasferisce sulla carta rubandolo alla vita, ma lasciando quest’ultima ancor più vuota e mancante”: la solita, ineluttabile, catartica, salvifica, cosmica e banalissima E = mc2.

Lo scrittore, come suggeriscono Jean Paul (pseudonimo di Johann Paul Friedrich Richte) e Musil, nei loro “Saggi sulla stupidità”, è stupido perché si stupisce per ogni cosa. Se non lo fosse, non gorgheggerebbe come un putto bramoso di títo, di lattosio. Ora però ti devo lasciare perché devo leggere il tuo horcrux.

Egli (mischiato a te) parla adesso del Kitsch del male, e di quell’orrido seppur grazioso a vedersi “Josef Mengele, il medico aguzzino di Auschwitz” – di cui non intendo riportare i crimini che vai enumerando a pagina 103. M’induce però a ricordare uno sceneggiato Rai del 1972, Il sospetto, tratto dall’omonimo romanzo di Friedrich Dürrenmatt, in cui l’im-paziente Paolo Stoppa, dopo aver riconosciuto il sadismo nazista del dottore che l’ha in cura, mirabilmente interpretato da Adolfo Celi, lo definisce, paradossalmente, masochista. In noi le due tendenze, distruttive e autodistruttive, convivono con la cinerea sorella. L’affetto disastroso che talvolta diventa l’appassionata kam’a, che fa deragliare la nostra umana macchina. E se penso a quel meneghino Memores che fece voto di castità, povertà e ubbidienza (allo sterco di Satana), e che ora si gode prebende governative con cui s’alimenterebbe giornalmente una carovana di gitani, la prima pulsione è di arrecargli un dolore fisico, anche perché quello si fa ritrarre ogni volta col sorriso più lussurioso che si possa immaginare. Ma poi mi chiedo: perché devo essere cancerogeno come lui? E allora lo perdono, nel ricordo di quel Tale che si fece crocifiggere e che, secondo alcuni, fu poi staccato dalla croce, e fatto trasmigrare nel Kashmir (area del mondo in cui non ci è concesso di andare a controllare, per via del bellum che sta colà divampando, ignorata dal globo intero, da vari decenni). Non è perdonare, né dimenticare, ma mettere da parte quel che non serve, inseguendo l’Amato Bene, seguendo l’odissea virtute.

Il Danubio, che ci conduce a tanti fantasiosi pensieri, attraversa tutta quella Mitteleuropa che mi pare il simbolo della crisi dell’uomo moderno. Ogni crisi reca alla morte o a una provvisoria guarigione. Sperando che cessi l’effetto di queste tragedie che fanno dire a un filosofo come Cacciari che “L’Europa non ha alcun ruolo ma guai a dirlo!”

Finché c’è presente c’è speranza, essendo condito da ogni sorta di ricordo e di immaginazione!

Questo l’ho scritto dopo aver letto la chiusa di un tuo paragrafo: “Le vittime di Mengele sono figure di una tragedia, Mengele è una figura da polpettone.” – ora che l’abbiamo ingerita, possiamo lasciare la graziosa “Günzberg”, “detta la piccola Vienna durante il periodo asburgico.”

Svariate pagine fa parlasti di Ulm, che per me era solo la città natale di Einstein. E ti confesso una mia peregrinazione assurda: avevo digitato, presso zio Google, Hum, la croata città più minuscola del pianeta. Davvero carina. Di Ulm, stupidamente, non vedo l’ora di salire i gradini del suo campanile che è il più alto del mondo (rimembrando quello di Giotto e di Cremona). È nel bimbo che sonnecchia, spesso ronfando, in me, che affido ogni speranza di salire verso la suddetta Infinitudine. (scalare una montagna, o un campanile, somiglia al leggere).

A pagina 142 riporti le problematiche connesse all’annoso (per chi lo conosce, ora anche per me) e teologico problema su quale dei due fiumi, tra il Danubio e l’Inn, sia affluente dell’altro. E tu giustamente consideri: “È evidente che, avendo deciso di scrivere un libro danubiano, non posso accogliere questa teoria…” – secondo cui, se si ragiona per “piedi di larghezza” e per “profondità dei due fiumi”, “il Danubio…” sarebbe “… un affluente dell’Inn…” – ma si sa che, a parte che per i film di Jurassic Park, size does not matter “… come un professore di teologia in un’università cattolica non può negare l’esistenza di Dio, l’oggetto della sua scienza…” – poi c’è il fatto indicato da quell’ebreo ulmiano che spazio-tempo sono concetti relativistici. Per Julian Barbour e Carlo Rovelli, sono mere illusioni o, in certi casi, dei grumi che vorticano su se stessi.

“Quel che è certo, è che il fiume scorre a valle, come chi lo segue; poco importa appurare donde provengono tutte le acque che si porta dietro e che si confondono nelle sue onde”: donde le onde? It doesn’t matter!

M’inquieta la questione di “Marianne Jung, nata probabilmente il 20-11-1784” – altrimenti conosciuta come “Marianne Willemer”, autrice di alcune poesie, inserite da Goethe nel suo Divano occidentale-orientale, e che tu dici “pochissime” eppure “altissime”, fatto strano per una ballerina, che non scrisse però altro. Sarebbe interessante conferire il nome a ciascuna onda del fiume, o anche del mare, oppure credere che tutte siano parte del Panta Rhei, Unico Autore di perturbazioni dello statu quo. Secondo Borges, se non l’ho frainteso, uno solo è l’umano scrittore e, al contempo, l’umano lettore. Alla fine di quel sentiero intricato ci si trova soli e in un’infinita compagnia.

Dici anche che “i suoi pochi versi sono fra i più grandi della lirica mondiale, ma ciò non è sufficiente a fare entrare Marianne Willemer nella storia della letteratura nonostante i saggi scritti da acuti studiosi. La letteratura è un sistema di manutenzione non le bastano alcune righe assolute, ma ha bisogno di un ingranaggio produttivo, non importa se di pagine geniali o banali, per costruire su di esso la sua catena di distribuzione, il ciclo di edizioni, recensioni…” – e anche reazioni? Prima di produrre l’entanglement con l’autore, lo devo innanzi tutto individuare, mutandolo, come lui finisce per mutare me. Inoltre, e Onorio te lo può confermare, è decisamente sfizioso, per noi vèc getunêr, quali lui e io siamo, differenziare fra IPM (Industria politecnica meridionale con sede a Napoli) 7603 e IPM 7603 variante (essendo a rotazione orizzontale). La perfetta individuazione, teologicamente, non vale un tappo, eppure anche i tappi delle bibite meritano una loro tassonomia. Ecco il motivo per cui, fin da stamani, mi metterò alla ricerca di quegli sparuti versi di Marianne e cercherò di santificarne l’estro, catalogandolo a parte rispetto a quello di Johann Wolfgang von Goethe. A proposito, caro il mio triestino, come sei messo a TELVE? Io ne ho uno di zinco.

A pagina 167 citi un’opera di “Rudolf Höss. La sua autobiografia, Comandante ad Auschwitz” – che “è il racconto oggettivo, imparziale e fedele delle atrocità che sconvolgono ogni metro umano, rendendo intollerabili la vita e la realtà…” – e aggiungi che “nella pagina di Höss lo sterminio sembra narrato dal Dio di Spinoza, dalla natura indifferente al dolore, alla tragedia e all’infamia…” – e ti confesso che quel che mi fa perdonare Dante di aver scritto i mirabili canti dell’Inferno è che ogni volta colgo, pur negli avverbi e nelle congiunzioni, una sua pietà amorosa. Quel che dovrebbe mancare in Höss. Peggio per lui. Ma anche la citata cantica dantesca “è un esempio estremo di annullamento dell’individuo.” – seppur vissuto dolorosamente dal suo autore, che sa rinvenire in ciascun dannato “quell’individualità senza la quale non c’è poesia.” – nonostante l’oscura presenza di quel dio tanto ignobile in quanto generato da un homuncolus sterminatore.

“… il singolo si sente uno dei grandi numeri macinati dallo Spirito del Mondo che evidentemente dà segni di squilibrio mentale, uno dei numeri di matricola che l’ufficio competente del Lager incideva sul braccio dei detenuti.” – e io stesso fui individuato in modo analogo per oltre 38 anni.

Penso ora a Marianne, nonché a “quella giovane donna” – la cui storia che narri a pagina 169 è troppo bella per essere condensata o riportata, per cui va letta proprio lì, a quel punto della tua avventura fluviale, credo sia giusto soccorrere i sommersi e trarne il maggior numero possibile in salvo. Dati anagrafici inclusi.

Perdonami, caro, ma chi è questa Maddalena, che citi (e non è la prima volta che lo fai) a pagina 171? Te lo chiedo perché “sta comprando delle cartoline e si china per esaminarle, imbronciando un po’ le labbra come fa sempre quando sta attenta a qualcosa.” – m’interessano, quelle cartoline, almeno una ne vorrei, per farne dono a mia sorella che le colleziona fin dall’infanzia.

“Ma la vera letteratura non è quella che lusinga il lettore…” – e inizia spesso con quell’odiosa congiunzione avversativa – “… bensì quella che lo incalza e lo pone in difficoltà…” – com’è la tua?

Parli degli zingari: “… popolo oscuro e trascurato, assente dalla nostra coscienza come lo è in genere dalla memoria storica.” – quella scritta? Esiste un idioma gitano fatto di segni grafici? È agglutinante (termine che mi hai fatto conoscere) o celiaco?

“La scissione fra natura e cultura produce il disagio di quest’ultima.” – quell’homuncolus non ha voluto restare faber, e ora è sapiens. Addirittura auto-bissandosi: sapiens sapiens!

“Ma la nostra cultura…” – sempre usi quella congiunzione! – “… esce piuttosto dalla monotona fantasia di Sade, nella quale – dice Flaubert – non c’è un vero albero né un vero animale. La mondanità sociale costituisce il nostro unico orizzonte.”una singolarità il cui quel miserabile nobiluomo si credeva l’unico principio gravitazionale.

“Il democratico è umanista, il naturalista – anche quando sia immune dalle inclinazioni nazisteggianti rintracciabile nel passato di Lorentz – difficilmente crede nella ‘religione dell’umanità.” – anche il non credere assolutamente è una forma di fede.

Ti consiglio, se già non lo conosci, L’animale culturale di Danilo Mainardi, dove si dice che l’uomo è l’unica bestia che sa costruire utensili in grado di costruire utensili. E libri in grado di narrare libri.

“… anche ognuno di noi va incontro al fato…” – se gli si va incontro si chiama però de-stino.

Gli episodi, fantastici, in cui descrivi la figura del tuo professore liceale (da pagina 268 a pagina 270), mi fanno rimembrare la figura del mio maestro elementare (laureato, capitano di lungo corso, diplomato al Conservatorio, campione italiano di Scacchi, triestino come te) Enrico Paoli. Ci dava bacchettate di due tipi (palmo disteso, mano destra raccolta a ghianda), esigendo un grazie! Una volta mi fece così male che il mio sconvolto Grazie!!! lo fece ridere a crepapelle, dopo di cui m’abbracciò. Paoli sapeva premiare e punire. Mi fece odiare la scuola e amare la cultura. Sarà sempre nel mio cuore (e nel mio fegato).

Chi è questo Amedeo che spunta a pagina 333, di cui già parlasti, mi pare? Egli ti “propone una deviazione sino a Szeged, perché una volta ha conosciuto una certa Klara, che era di Szeged e portava delle calze a strisce.” – roba da anni ‘60, mi sa.

Poi, “Amedeo tira fuori il suo violinaccio da viaggio, sistema un leggio e si mette a suonare, mentre i pendagli continuano, sullo sfondo, a tintinnare. Non suona, per una volta tanto, brani classici, ma canzoni tzigane…” – e svariate e girovaganti amenità.

Ora stai esaminando la figura di Nonna Anka, che dà il titolo alla settima sezione del tour, o Geschäftsreise, se preferisci. Chissà perché i tedeschi usano sperperare tante maiuscole, anche in nomi che non sembrano propri.

L’ava, vetusta e venusta, nonché vivacissima, conosce tante lingue e mi chiedo se il nome che le hai dato abbia un significato esoterico.

Ti domandi se “quel pensare ‘in più popoli’ è una sintesi unitaria o un affastellamento eterogeneo, una somma o una sottrazione, un modo di essere più ricco o di essere Nessuno?” – e questo io mi chiedo quando m’accorgo di leggere troppi libri, per poi dimenticarne in buona parte il contenuto, delitto che tu non sembri commettere, quando rivivi i tuoi ricordi di mille poesie e romanzi assunti chissà quanti decenni prima. Ma come fai? A volte m’illudo che l’amnesia sia un fatto catartico o, se non vogliamo essere così misterici, una necessità operativa. La nonnina ora ti aiuterà, così ti auguri, a “trovare una risposta a questa domanda” – anzi, “costituisce lei stessa, con i suoi ottant’anni, una risposta.” Alla sua età, “il suo corpo è sodo e sicuro; per amare il suo mondo di ieri non ha bisogno di idealizzarlo e mi racconta minuziosamente…” – … talune nefandezze, le quali, più che le gioie, si amano trasmettere a chi allora non c’era. Occhio a non innamorarti di lei: a quanto dici la signora è stata per quattro volte un’adorabile mogliettina e un’affrancata vedova.

Uno dei suoi primi fidanzati, da lei dismesso (“non so perché, per un capriccio, così, non ricordo bene”), “… si è sparato”, e lei? Sul momento non ci pensò affatto, “ma da qualche anno mi è venuto in mente di andare a trovarlo, di andare a vedere la sua tomba…” – era stato un marito virtuale che non ce l’aveva fatta a convolare nella realtà. Capita alle particelle che formicolano nel vuoto.

“In Vojvodina non mancano gli zingari, i ‘Romi’, che non sono solo violinisti, ma anche filologi, come Trifun Dimić, autore di un vocabolario zingaro…” – e questo mi serve da lezione: a volte mi chiedevo ingenuamente se la lingua dei gitani fosse mai stata scritta.

“Kitanka, la nostra interprete…” – ora sei in Bulgaria – “… è una ragazza vivace e festaiola, che ama la rakia, l’ottima acquavite, e le ore piccole, e illustra la grandezza del suo paese…” – se è anche reale, ci faccio un pensierino.

“Nicopoli. Presso questa città…” – come presso tante altre accaddero numerose vicende. “Da queste rive, in cui non esiste nessuna presenza tedesca, è partito in certo modo il germanesimo: la sua marcia verso occidente, che tanti secoli più tardi si sarebbe nuovamente rivolta verso est, come un fiume che inverte il suo corso, per ritirarsi infine a ovest, incalzata da altre migrazioni epocali.” – tutto scorre, chissà se per caso o per necessita, ogni flutto a rincorrere i suoi guai…

Finisci la sezione dedicata alla Bulgaria parlando dell’indefinibile Elias Canetti, di cui visiti la casa dell’infanzia. Anch’io ho subito il fascino del suo Auto da fé. Ma amo di più il suo autobiografico La lingua salvata. Il mio non è, come ormai hai capito, un giudizio critico, e nemmeno un giudizio. È una reazione emozionale. Quanti luoghi e quante lingue ha vissuto e imparato quel genio! Lo ammiro, senza invidiarlo. Non vorrei essere lui. Il suo sguardo, in ogni foto, mi pare quello di un uomo rassegnato. E io non mi voglio rassegnare mai, accontentandomi di quel che sogno d’essere.

Il tuo è davvero un romanzo di fiction. Ma c’è poi stato davvero “l’incontro letterario italo-romeno”, e sul serio, oltre a te, c’erano “Bianca Valota, Umberto Eco, Lorenzo Renzi…”?

Claudio Magris - Photo by Francesco Bencivenga
Claudio Magris – Photo by Francesco Bencivenga

A pagina 448 raccolgo l’ennesimo “inalzato” con una enne sola, mentre io, che non bado a spese, ne metto in genere due. Ipotizzo di sbagliare, anche perché quell’edificio “Traiano l’aveva inalzato per ricordare il suo trionfo su Decebalo” – e durò dei secoli, anche se “l’edificio attuale, una ricostruzione del modello antico, risale al 1977…” – il che mi fa rimembrare che in arşân non esiste la mb o la mp. Per cui gli inbanbî scrivono imbambî (=rimbambiti), essendo andati a scuola in un’Italia dove il dialetto era bandito. Seguendo i loro ricordi scolastici anziché la loro pronuncia, chissà quante zampette di lettera vanno sacrificando per niente! Grazie a te mi sto ora inalzando!

A pagina 455 saluto, senza sapere chi sia, “lo zio di Gigi (ma chi è Gigi?). Dopo di cui giungo alla fine. Prima di salutarti, non so dove né come perché da un anno non guardo più la televisione, ti dico che la tua opera mi ha tanto stancato quanto istruito. Quando terminavano le lezioni del maestro Paoli anche lui era sfinito. Ma finché non suonava la campanella quel prode continuava a insegnare. Eravamo sempre gli ultimi a uscire. Un giorno il vigile si lamentò per questo e lui gli spiegò con la sua triestina autorità di essere l’unico a rispettare l’orario. Chissà a chi stai insegnando, oggi, maestro mio?

Claudio, se avessi commentato ogni tua asserzione per quel che meritava, avrei scritto una reazione di 614 pagine, contando i riporti. Mi sono assai limitato. Non so se essere fiero di me oppure se devo vergognarmi. Ho dato un’occhiata a zio Google per studiare il tragitto di quel benedetto fiume. Ah, qui sono stato con Claudio?, mi sono chiesto. Eppure mi è sembrato di averti accompagnato lungo il Rodano che, come sai, è uno dei due maggiori torrenti che attraversano la mia Reggio (l’altro è il Crostolo). Un giorno ti ci porto a cammionare. Vicino al ponte sul Rodano c’è il Mauriziano, dove nacque il reggianissimo (si fa per dire) Ludovico Ariosto.

Per cui, alla prossima, caro.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Claudio Magris, Danubio, Garzanti, 2014

 

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