“Vivere e morire a Los Angeles” di William Friedkin: un’esistenza allevata con la grammatica della violenza

“Hai mai provato il bungee jumping? È fantastico. È la sensazione più forte che ci sia. Quando voli giù ti senti le palle che ti arrivano in gola”.

Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin
Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin

Parole e musica dell’agente dei servizi segreti Richard Chance, una testa calda con un chiodo fisso: incastrare Rick Masters, il falsario che ha ucciso il suo partner Jimmy Hart, a tre giorni dalla pensione.

Già: il bungee jumping. Quando salti nel vuoto lanciandoti imbracato con una corda elastica, con un’estremità fissata alla caviglia e l’altra al punto da cui avviene il lancio, di solito un ponte.

Il bungee jumping: perfetta mise en abyme della pellicola.

L’eterna aspirazione dell’essere umano a volare, a superare i propri limiti. Ad andare oltre. Perché vanno oltre, Chance e Masters. Personaggi ossessionati, nevrotici, paranoici, disposti a tradire. Che si rincorrono per tutti i 116 minuti della pellicola.

Ma andiamo con ordine. Gerry Patievich è stato per diciannove anni un agente dei servizi segreti assegnato alla lotta contro i falsari specializzati in banconote e carte di credito. A fine carriera ha romanzato le sue esperienze in un libro intitolato To live and die in L.A,.

Dopo averlo letto, il regista William Friedkin (Oscar nel 1971 per “Il braccio violento della legge” e Leone d’Oro alla carriera nel 2013, morto il 7 agosto 2023 a Los Angeles all’età di 87 anni) lo opziona e scrive in tre settimane una sceneggiatura in cui ripropone, con qualche modifica, il plot del romanzo, trasponendo su grande schermo la lotta senza quartiere tra l’ambiguo trafficante di denaro falso e amante della pittura d’avanguardia pop, e gli agenti dei servizi segreti.

Per dargli volto e corpo sul set, sceglie Willem Dafoe, che il regista aveva visto e apprezzato in Streets of fire ‒ un tipo con la faccia giusta, come lo era stata quella di Roy Scheider quindici anni prima ‒ e William Petersen, attore che calcava la scena dell’avanguardia teatrale di Chicago. Ai due si aggiunge un bravo caratterista di Saint Louis, John Pankov. Attorno a loro, sotto di loro, sopra di loro, la vera protagonista della pellicola: Los Angeles.

Una Los Angeles dolente e devastata, lontana dall’iconografia rutilante dello skyline e dei quartieri celebri. Sono piuttosto le periferie (come il capannone abbandonato nel deserto dove si fabbricano le banconote false) e le marginalità di Nickerson Garden, Watts, Temple Street e della Diciottesima Strada, non a casa i territori delle gang dei Crips e dei Bloods, a disegnare i contorni in cui si muovono tutta una serie di personaggi che sembrano camminare sull’orlo di un abisso, un passo prima di sprofondare, un passo prima di salvarsi.

Per rendere con la massima efficacia gli ambienti e l’umanità che circondano il pittore falsario, Friedkin sembra prendere le distanze dal climax macho e documentaristico che lo ha reso famoso ne “Il braccio violento della legge”, e anticipa la lotta al Gender gap con vent’anni di anticipo, cercando di ricreare lo stile unisex losangelino di quegli anni.

William Friedkin - Photo by Gamesurf
William Friedkin – Photo by Gamesurf

Una scelta di rapture, quella del regista di Chicago, come lo erano state su grande schermo “Festa per il compleanno del caro amico Harold” (1970) e “Cruising (1980), capaci di strappare il velo di omertà che circondava il mondo gay, e come lo sarà nel fashion-style losangelino quella dello stilista Tom Ford, influenzato da Ray Halston Frowick, il guru della moda degli anni Ottanta.

Friedkin affida la scenografia a Lily Kilvert, i costumi a Linda Blass, gli arredi a Cricket Rewland, e il piccolo inner circle al femminile permette al film di diventare cool prima che questo termine entri nell’immaginario lessicale. La sensibilità tracima allora nell’ambiguità, che diventa uno dei tratti distintivi della pellicola; sia quella di natura sessuale, messa in scena dall’amante bisex di Masters, sia, soprattutto, quella che vuol rappresentare la contiguità tra la legge e il crimine. Perché i duellanti Chance e Masters sono pesci che nuotano nello stesso brodo di coltura, doppi che si confondono e si attraggono nutrendosi dello stesso odio e della stessa paranoia.

Il ritorno ciclico è l’altro solco che, come un fiume carsico, attraversa la pellicola, caratterizzando la geografia interiore dei personaggi.

“A me risulta che siamo gemelli”, dice Chance a Jimmy Hart all’inizio della pellicola. Si chiamano coscienziosamente “gemelli”, le coppie di agenti federali, e non lo fanno a caso. Indistinguibili, sovrapponibili, sono pedine intrappolate in un ciclo di eterno ritorno. Scomparsi loro, sembra suggerirci il regista, altri li sostituiranno, in una successione senza soluzione di continuità. John Vukovich, l’agente che sostituisce Jimmy Hart e affianca Chance alla fine della pellicola, prende il posto del collega ucciso abbeverandosi dello stesso cinismo.

Sono anime intrappolate in un karma punitivo quelle descritte da Friedkin. Qualcosa di ineluttabile non permette al loro stato generale delle cose di evolversi e di superare l’orizzonte di un’esistenza allevata con la grammatica della violenza.

Se il celebratissimo inseguimento tra auto e treno sulla sopraelevata ‒ forma quintessenziale del cinema d’azione ‒ de Il braccio violento della legge è la sintesi filmografica degli anni Settanta, quello in contromano su un’autostrada, a tutta velocità, che vediamo in Vivere e morire a Los Angeles, lo supera e pare quasi la summa concettuale degli anni Ottanta, sineddoche del cinismo e della spietatezza dei protagonisti. Anche la scena del terrorista islamico che vuole farsi saltare in aria e che sentenzia “sono pronto a morire, morte all’America e a tutti i nemici dell’Islam, Allah akbar…”, sembra vivere e morire di vita propria all’interno del film, in una sorta di tempo proattivo.

Sì, vivono e muoiono, Masters e Chance: identità che si sovrappongono in un rapporto obliquo, mai interamente in squadra, in attesa dell’appuntamento ineludibile col proprio destino. Simula stabunt simula cadent. E mentre Chance, pedina fungibile senza identità, agli antipodi del supereroe invulnerabile, è ucciso simbolicamente con un colpo sparatogli al volto, Masters invece brucia la sua ossessione per la purezza nel fuoco purgatoriale da cui non ha saputo o potuto evadere.

E insieme a loro, sul contrappunto musicale new wave di Jack Hues e Nick Fieldman (componenti del gruppo inglese Wang Chung), vive e muore Los Angeles. Friedkin la espone alla freccia del tempo dell’alba che sorge nella scena iniziale del film, e del tramonto in quella finale. Una sorta di tirannia dello sguardo corto, uno sguardo che fa finire tutto troppo in fretta: giusto il tempo di una sparatoria.

È un noir metropolitano iperrealista, Vivere e morire a Los Angeles.

Vivere e morire a Los Angeles film di William Friedkin
Vivere e morire a Los Angeles film di William Friedkin

Se ne il “Il braccio violento della legge” rivoluziona il poliziesco e con “L’esorcista” (1973) rivaluta l’horror, fino a quel momento relegato a genere minore, con “Vivere e morire a Los Angeles” Friedkin crea un noir metropolitano iperrealista, a cui attingeranno innumerevoli spin-off successivi.

“Una volta ho letto una cosa sulle stelle, diceva che le stelle sono gli occhi di Dio. Io ci credo. Tu, no?” dice a un certo punto Ruth, l’informatrice che Chance si scopa minacciandola di rispedirla dietro le sbarre.

No, non ci sono stelle nel cielo di Los Angeles. Solo oscurità.

 

Written by Maurizio Fierro

 

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