“Caos calmo” di Sandro Veronesi: un Calore che scorre verso il fondo
Sono reduce da un breve viaggetto, nulla di importante, ma piacevole, fatto insieme a un amico, per cui ti ho un po’ trascurato, amato “Caos Calmo” ma, ora che sono tornato, ti sto finendo di divorare. Oggi sarà l’ultimo giorno che faremo da separati, poi ci ricongiungeremo, anzi, quel fenomeno sta già accadendo. Sono stato spesso sul punto di troncare la lettura per iniziare la consanguinea scrittura, ma sempre mi sono trattenuto. Ho ogni volta rimandato, non chissà perché, in quanto lo so bene: mi faceva paura l’idea di salvare delle cose, gettandone delle altre, come ogni volta accade. Tutto non si può riportare, anche se tutto è riportabile, anche le sconcezze che narri intorno a pagina 360, mo’ vediamo, dai.

Sei uno degli amici più ameni e più stancanti che abbia mai letto, un po’ come se fossi un’amante simpaticissima, coniugata e fedifraga, che vuol compiere l’adulterio più volte di quanto il suo pur ardente innamorato desideri compiere.
Chi ha curato il testo della fascetta ha definito “avvolgente” la scrittura di Sandro Veronesi. Lo è, anche se a volte ricopre il lettore con quel che gli capita, tipo un cuscino, che finisce quasi per soffocarti, e poi, eroicamente, ti salva con un’improvvisa e salvifica piccineria. Sandro Veronesi è un uomo, ancor prima che uno scrittore, per tutte le stagioni (inverno, autunno, estate, primavera; ma anche infanzia, giovinezza, maturità, di nuovo infanzia, adolescenza, lieve senescenza, leggerissima, quasi impalpabile, andropausa, nonché svezzamento e conseguente, rinnovata adolescenza).
Cominciamo? Forza, dai! Dai che ce la facciamo!
Dimenticavo: mentre leggo, e ora, mentre scrivo, sono calmo, essendo immerso nella kàuma, al calduccio, in un ambiente un po’ tiepido, scottante, bollente, a volte quasi ardente, però mi rendo perfettamente conto che la scrittura che tu contieni è un khàos, un vuoto e pleonastico abisso in cui tutto sta precipitando, sempre più verso l’infuocata singolarità da cui nulla più riesce a fuggire, se non qualche (necessariamente duplice) radiazione-scoreggina ogni tanto, così, per fa’ ‘a parata, come dicono ad Amalfi.
Al momento siamo nei pressi del periglioso orizzonte degli eventi. A pagina 16 ti accade una storia strana. Pietro e Carlo, di punto in bianco, compiono, senza sprecare tempo nel decidere, ognuno per conto suo, un’azione eroica. Descrivo quella dell’io narrante, Pietro, che, contemporaneamente al fratello, ripeto: ognuno per conto suo, salva una donna che sta annegando in mare aperto e nel farlo rischia di farsi trascinarsi in un khaos, fatto di acqua, fondo, pesci, mancanza d’ossigeno libero, etc. Per cavarsi d’impaccio egli usa una certa durezza a fin di bene, compreso un’imperiosa erezione che, nella fattispecie, ben si adegua al soggetto salvato, che manco se ne accorge però.
I due valorosi consanguinei finiscono per salvare “due stronze”, forse pure consanguinee. Ripenso al coso di Pietro che non la voleva smettere di “continuare a gonfiarsi e a indurirsi sotto il costume quasi fosse un’entità autonoma – anarchica: Eros senza Tanathos. E io mi chiedo ora com’è che a Reggio, quando un ingrediente arricchisce in modo sublime una pietanza si dice: l ē la só môrt, per indicare che un particolare sa rendere sacro, sacrifica, uccidendolo, un insieme. Il colpo finale: da cui anche il detto l ē l ûltem bicêr ca dà la bâla. Da cui si potrebbe dedurre che l’agonia è l’ultimo, eroticissimo, élan vital. Nel caso di morte apparente, il tunnel luminoso però si spegne nella più illusoria delle entropie.
Nella fattispecie, “il cuore mi scoppia dentro al petto, e l’erezione è scomparsa…”: miracolo!
Nel frattempo getto tantissimi riporti nell’immondizia, in dâl rósch, termine sempre delle mie parti, che è una deformazione di ruscus, in italiano pungitopo, arbusto a forma di cespuglio.
Non posso tralasciare questo: “Che le stia arrivando adesso? È il momento di separarci, stellina, di darci un bacetto…” – giova qui rivelare due particolari (il primo non da poco, il secondo è conseguente al primo).
La moglie di Pietro, mentre lo stesso stava affrontando le ire del mare, nonché le violenti reazioni della non troppo remissiva donna salvata, che tutto faceva per trascinare sul fondo il suo aspirante salvatore, la moglie di quest’ultimo, dicevo, per un improvviso colpo di macabra sfortuna aveva iniziato a percorrere quel suddetto tunnel, che mai per lei si richiuse, purtroppo. Stellina è Claudia, la decenne figlia di Pietro, che pare manifestare una sorta di atarassia riguardo alla tragedia che è successa. La cosa più inquietante, per Pietro, ma lo sarebbe anche per me, è che, quando quella disgrazia stava accadendo, il suo cellulare stava suonando a vuoto, per via dell’azione eroica ch’egli stava compiendo. Perciò ora Pietro teme che il fuoco che arde sotto le ceneri di quella morte possa esplodere tutto a un tratto, sia per lui che per il suo amato astro del ciel.
“Dire a Claudia che sarei rimasto tutto il giorno qui è stato carino, ma farlo davvero è tutta un’altra cosa.” – e perciò lo farà a tempo indeterminato, pensando, non so se quotidianamente, una volta tanto, oppure sempre, nella sua memoria ROM, che viene definita talvolta eterna, quasi fosse di natura divina, che è un acrostico di Read Only Memory: come se un Nume fosse in qualche modo intellegibile, mentre è solo utilizzabile, se va da dio; lo svolgerà, quell’assurdo compito, pensando di stare facendo “la cosa giusta, sì. Il cielo è pulito, azzurro, scintillante…” – meglio in certi casi esternare se stessi, stando fuori cioè.
In fine di pagina 38 e in inizio della successiva (39), l’io scrive “che un bambino ragiona in modo molto diverso dagli adulti”, e “non è detto venga necessariamente turbato dalle cose che…” – e qui tronco il riporto, sintetizzando il ragionamento di Sandro Veronesi: finché c’è infanzia c’è speranza. Talvolta sorge il bisogno di comportarsi in modo not politically mature, in quanto finché c’è acerbità c’è augurio di crescita.
Il bello di un bimbo è che ama farsi degli elenchi, del tipo: le volte che ho visto l’ortolano Ohhhh, così lo chiamavano tutti, perché così urlava, ed è da lui che noi accattavamo meloni, angurie, insalata, mele, pere etc. Tutto ciò non è citato nelle tue pagine, caro Caos Calmo, ma era solo per dare l’idea. Pietro enumera le compagnie aeree che ha utilizzato nella sua frenetica vita (per lo più, ma non solo, da un punto di vista professionale). Non le cito perché non ne sento il bisogno. L’io dice: “Aggiungo questi nomi alla lista, che sta diventando davvero rispettabile.” – come no… Il rispetto non va negato a nulla.
Che bello e fresco, come il cocco, “… il bordello” dei bimbi, cioè: “Il caos. Però un caos gioioso, privo di drammaticità, perché i bambini, anche se non sono ancora usciti, hanno già cominciato a spargere qua fuori la sostanza che permette a loro di vivere tra gli adulti.” – ‘sta terribile tribù di antropofagi. Ognuno è cannibale all’Altro, in verità. Gli adulti, è spiegato a pagina 47, morto che parla, quando vanno a prendere i bambini si comportano come delle task force belliche (la similitudine è mia, il senso è dell’autore) capaci di tutto, anche “di rigare la macchina nel tentativo di infilarla in un buco troppo piccolo…”.
“È un caos calmo, sì, quello che ho dentro. Un caos calmo.” – e, per citare un ragazzino di nome Enrico Ruggeri, questo calmo e caotico vento agita anche me.
“Caos calmo, penso…” – e poi: “È un caos calmo, sì, quello che ho dentro. Un caos calmo.” – e poc’altro. Forse quasi nulla.
Non riporto ma cito appena l’“Elenco delle ragazze che ho baciato…” – anzi, ne voglio riportare una a caso: the winner is “Betta”.
Pietro parla dei manager, quale è in teoria e ora assai poco in pratica lui: “Nessuno di quei manager è amico di quello che ha seduto di fronte.” – manager manageris lupus – essendo “una macchina”, più che altro, che deve percorrere della strada, non altro.
La sua azienda era dotata di “un’anima”, che era “la nostra anima, che certo non poteva fondersi con qualcosa.” – e invece no, ora si sta fondendo con un’analoga tribù yankee, e questo sta fondendo il motore, e i suoi pistoni, l’albero di trasmissione, la coppia conica al ponte, nonché gli operai, e i manager, e pure il lettore reagente, ma non lui, il Pietro: che pare quasi un Mosè apparentemente salvato dalle acque.
“… in questo mondo: si lotta, si vince o si perde, ma non ci si sente mai nel giusto, nel senso che il giusto non c’è quasi mai, c’è solo ciò che prevale e ciò che soccombe.” – salvo eccezioni (“io e Thierri”).
“Il mio modo di lavorare, d’ora in poi, sarà non lavorare…” – ci avevo pensato anch’io, all’età di diciassette anni, e lo dissi una domenica a pranzo, ma qualcosa andò poi storto (per quarant’anni).
“Non so quanto durerà, ma per adesso è così: non soffro e non mi sento in colpa.” – io un po’, pensa, per le volte che, pur remunerato a ore, talvolta osavo un po’ cazzeggiare.
“… arenato davanti alla scuola di mia figlia come un barbone…” – e quello che al momento è una fantasia, diverrà una sempiterna (si fa per dire) realtà (sempre si fa per dire).
Quel che salva Piquet, collega di Pietro, è il confidare di non essere il pazzo più grave della combriccola (vedi quel che non gli combina Tardioli, è scritto a pagina 88, non facendosi trovare, essendo trasvolato a Parigi per una fusione di società).
“A mia figlia, invece, da quando le è stato diagnosticato il talento per la ginnastica artistica…” – mi dispiace, mi auguro sia curabile – “… le soffiano sul collo con questa storia della perfezione, e io non ho idea di cosa significhi.” – è sicuramente un’idea come un’altra.
Il capitolo 10 consta di circa 9 pagine di flusso di coscienza con talune virgole e pochissimi punti. L’11 è una smilza paginetta che contiene una sola mail. Il 12 contiene una mail di una dozzina di pagine, allucinante, forse scritta dopo un’abbondante libagione di funghi allucinogeni, di cui colgo, per l’affetto che mi lega all’attore salentino, unicamente la similitudine “come il Lorenzaccio di Carmelo Bene”, nonché l’augurale prece: “Chissà se ce passa pe’ internet ‘sto messaggio così lungo. Io ce provo. Un bacio, Gianni.”
Oh! di botto sta spirando la Prima Parte!
Pietro è in cardacia (ansia in pixuntiano), tanto che, a pagina 146, conto 5 “devo” e 1 “bisogna che io mi…”. A pagina 155 quel brav’uomo di Enoch tira una Madonna, la Quale forse lo perdona, buona com’è. E poi quell’ingiurioso si chiede: “Dov’era quella bestemmia, prima?” La risposta di Pietro è intrigante: “… forse te l’ha messo dentro qualcuno proprio ieri”.
La prosa di Sandro mi disturba, mi fa venire l’acido lattico al cervello, ma ce la posso fare! Forza! Avvertenza per il tuo prossimo lettore: prima di prenderti in mano occorre fare una mezz’oretta di stretching mentale.
Un aneddoto su Vittorio Mezzogiono è così duro da digerire che secondo me è vero, ma a chi posso chiedere? A parte che non vedo l’ora di leggere Gioco all’alba di Arthur Schnitzler, al cui protagonista capita una fregatura simile a quella occorsa alla vecchietta ne Il giocatore di Fëdor Dostoevskij, Pietro ripete un paio di volte, anzi tre, una anche nella pagina seguente: “È ovvio che rifiuterò” – perché qualsiasi proposta sarà per lui indecente.
A pagina 170 è indicata una mezza verità (l’altra metà è di là da venire): quando un quid cambia di livello, nasce o muore qualcosa (un fotone per esempio): l’energia dice alla materia, quel che u becchiu dice a u uagliù, il vecchio pixuntiano al giovane suo erede: quannu su muortu tinni fai nu tianu, quando sono Colà di me te ne fai un tegame, e poi borbotta, fra sé e sé, crisci figli, crisci puorci. Lo stesso comunica quantisticamente il fotone all’elettrone mentre quello sta scalando un livello orbitale più esterno. Il bello è che, prima o poi, ogni cosa ritorna alla base.
Creo ogni tanto dei mezzi anacoluti, per una sorta di necessaria disperazione.
L’anti-fratello di Pietro, il già citato Carlo (chiedo scusa per l’anacoluto), il mondo, “era per attaccarlo dal di fuori, dunque per la ribellione”, mentre, dice Pietro, che lui era “per scardinarlo dal di dentro, dunque per la sovversione”: cambia solo la qualità dell’egoismo e dell’eroismo.
Per quanto riguarda l’elenco di comete viste, segnalo a Pietro, che non se lo ricorda, il nome di quella del 1973: Kohoutek, dal nome dell’astronomo che la scorse per primo. La vidi rappresentata nel presepio dei Frati Cappuccini nell’ex via Tiratora, ora via Ferrari Bonini.
La mamma di una bimbetta è “Barbara o Beatrice?” – solo mentre la si avvista e la si determina (si fa sempre per dire) essa acquisisce un nome, poi ogni cosa pare svanire.
Questo è un giochetto ripetuto (perciò sicuramente importante): un discorso di un personaggio finisce spesso a metà, con un “ ‒ ”, del tipo: “Ma c’è una bella diff ‒”. questo accade quando egli viene interrotto dal suo interlocutore, o anche da un altro proprio pensiero.
Inoltre vi sono numerosi molti punti di sospensione, silenti e significativi: “…” “…”
I quali attestano in modo quasi scientifico le pause nei discorsi, quando uno dei due interlocutori, o entrambi, non sanno al momento che dire. È la prima volta che attesto questi meccanismi e mi domando perché non siano mai o quasi mai contemplati nella prosa degli altri scrittori.
Non importante ma assai cogente è “… tornare a casa sereno, col cuore pieno di caos e di tranquillità…” – i puntini sono qui di Sandro Veronesi.
Ora c’è la scena dell’oppio fra i due consanguinei. È a suo modo interessante e non eccessivamente scandaloso. Lo è di più la guerra. La cosa che imparo (e che non vorrei però sperimentare) è che “l’oppio ha effetto retroattivo, cambia il passato…” – e quanto ne dovrei impipare per raddrizzare tutti i torti che ho patito o che ho donato al genere umano? Il quale è un quesito inconcludente. Immagino che vada a graziose anche il bene che ho ricevuto e che ho rigirato alle persone amate.
Nota di colore: l’io ha studiato Dylan Thomas per l’esame di stato e il suo cane si chiama Dylan.
Alcuni quesiti raccolti: “La normalità che perdura nella mia vita sottosopra? Il calore domestico che sopravvive nel gelo del cambiamento? Il caos calmo che ho dentro?” Chi vuole può rispondere, non tutti insieme, però, una alla volta.
Un vino “che non si capisce se siano venuti così di proposito o per caso.” – c’è una signora, ad Amalfi, che lo direbbe vino d’uva. E gli altri che sono? Cartine?
Stando seduto su quella panchina, Pietro è raggiunto, quasi fosse in un’orbita spaziale che gira intorno alla Terra, da tutta una serie di abitanti di quel lunatico pianeta. Ormai è diventato un personaggio, tutti lo cercano e nessuno lo vuole veramente, come la figlia della signora Camilla. La sua funzione è quella di funzionare da uomo seduto sulla panchina in attesa della figlia che termina le lezioni quotidiane.
Una persona che gli dà assai da fare è Marta, la splendida e nevrotica sorella della sua donna scomparsa, che un po’ lo attacca e un po’ lo giustifica… un’anima persa, che però ancora non si decide a sedersi su una panchina, anzi… ne saltella varie… Una che gli va a dire: “Ma come fai a non sentirti in colpa?”
Meno doloroso è enumerare i “traslochi che ho fatto”: 8.
Dice l’ormai follemente libero Enoch: “Nonostante ci si metta laboriosamente d’accordo per evitarlo, l’idea del Noi e del Loro sopravvive, non verrà mai completamente eliminata”: tipo I sommersi e i salvati, quali li indicò Primo Levi. Con tutti quanti che freneticamente annaspano come anatre in cerca di sopravvivenza.
Enoch ha deciso di scappare nello Zimbabwe: buon salvifico viaggio, compare! E chiede a Pietro, a mo’ di commiato, l’indirizzo per potergli inviare una cartolina. Non ha la necessità di scriverlo, tanto se lo ricorda, dice, avendo “liberato un sacco di spazio nel disco rigido.” – che prima o poi andrà a graziose pure lui, in un non più informatizzabile rigor mortis.
C’è anche la RAM che, essendo volatile, va a ramengo ogni volta che si spegne il dispositivo. Tutto è caduco, tót à fîn! E a ognûn a vîn la só ōra! Allegria!, come diceva Mike Bongiorno.
La figlia di Pietro ama lo zio e suo papà non può che pensare: “Sono geloso di lui, maledizione.”
La solita, pedante e sanscrita kam’a: passione, a volte condita dalla gelosia. E in tal caso appiccia il fuoco, e brucia!
“… c’è gente che emigra per sempre e gente che va e poi ritorna, e io sono così, io sono uno che va e poi ritorna.” – Enoch forse resterà in quell’assolato colà, e io? In ‘sto gelido costì!, dovunque sia piantato quel luogo ameno!
“Ho Claudia, sì, e il mio futuro se lo porta addosso lei.” – e dei miei genitori che cosa è rimasto? Delle foto, dei ricordi, dei rimpianti. Una casa o due. Anche il mio amore! Spero, almeno!
Gesto notevole: un gentile vicino di casa della panchina sta tornando a Roma e, nel salutare il nostro quasi intrepido eroe, chiede anche lui dove potrà spedirgli una cartolina: dopo di cui, con “un pennarello”, “si scrive il mio indirizzo sul dorso della mano, come una ragazzina. Poi mi guarda, sorridendo.”
Marta compie 3 azioni “senza accorgersene”. Ma sono soltanto quelle attestate dall’io.
Pietro dice alcune (2) volte: “Devo smettere…” – di essere per esempio un vedovo fedifrago, per esempio.
La prosa dell’autore che, se uno se ne fosse scordato, non è soltanto un io narrante ma è un tale di nome Sandro Veronesi, tracima di battute: “Eleonora Simoncini”, che è la donna che quasi mille anni prima lui aveva salvato dall’annegamento, “è senza dubbio così che la conosce la gente: fredda, autoritaria, controllata…” – una donna inclita – “dotata di una certa personalità, ma resta comunque prodigiosa la rapidità con cui è stata capace di recuperarla: roba da Superman nella cabina telefonica.”
In seguito all’agnizione (essendo ormai accertato che fu Pietro a evitarle di essere ridotta a una scarna manciata di cenere in scatola), inizia a confrontare l’infame marito (che si era reso colpevole di un ignobile gesto di cui non ho affatto voglia di parlare) al suo eroico salvatore e, svariate decine di pagine dopo, concede un po’ di tutto a Pietro, che ancora ricorda il suo membro marinescamente eretto, per cui, pensa, “stanotte è diverso e ormai desidero infrangerla.” – adottando una soluzione squisitamente borghese.
Ora l’io parla di un atto erotico assai comune, quasi banale, che in genere, dice sempre l’io, non si concede al primo appuntamento. Perché? Perché “siamo pazzi, tutti.” Ma, attenzione, perché “il sesso è manipolazione”. Già. Si casca sempre lì, con la mano che apre, a mo’ di machete, il varco che conduce nella selva oscura.
“Ci siamo, Eleonora Simonini. È chiaro che ora non è più il dito a premere contro il tuo…” – ma purtroppo, poche righe sotto, termina una leggermente infame Seconda Parte.
All’inizio della Terza, che non si preannuncia migliore, colgo “una certa successione di passaggi apparentemente casuali” che pare però “strutturata in modo ferreo, tanto da poter essere espressa in termini matematici”: azioni umane precedute dal segno + e –: vale sempre la lezione di Totò che sancì, per l’eternità, che è la somma che fa il totale.
Il capitolo 35 è composto da varie telefonate che l’io riceve da persone che fanno parte della sua vita, in misura diversa, ovviamente. Gli umani tendono a differenziare la grandezza dei corpi dei propri simili a seconda dell’affetto che provano verso di loro.
Un unico commento: il telefono, fisso o mobile, con tutti gli annessi optional (messaggerie varie) porta a sottolineare quando non anche a esacerbare le reciproche differenze. Si pensi che recentemente ho rotto ogni rapporto sociale con un mio conoscente (in realtà abbiamo rotto a vicenda) per talune incomprensioni connesse a una guerra che, pur essendo distante, a lui (e forse anche a me) pare combattuta a poche decine di chilometri. E, forse solo a lui, pare destinata a essere eterna. Mi ha fatto pena, quel tipo, e anche io me ne faccio abbastanza.
Jolanda “avrà un ventisette anni, è bella, palesemente ricca…” – in questo romanzo i personaggi difficilmente possono compilare il 730 on line come fanno i comuni subordinati.
Un avviso per i naviganti: il romanzo di Sandro Veronesi è importante, va letto, ma si sappia che feta di quello che volgarmente è definito lo sterco di Satana.
Il più ricco dei suoi personaggi, un plutocrate ebreo, “si scaccola”, poiché quello sterco gli esce pure dal naso, e lo fa con indifferenza, ma poi, quando si accorge di essere osservato, per deviare l’attenzione, “camuffa il gesto strofinandosi il mento con il dorso della mano, e fa il vago, ma tra il pollice e l’indice tiene qualcosa. Sono curioso di vedere dove l’attacca…” – qui i puntini sono dell’autore; depositandolo nel primo posto libero che trova, che è magari occupato da uno dei suoi subordinati.
Poi, parlando di una sua missione (la fusione di due società che pare dettata da un’esigenza di giustizia, ma è tutt’altro: tanto che mi sento come fuso a pensarci), dice: “Era l’unica possibilità rimasta di raddrizzare il mondo…” – anche qui i punti di sospensione sono nel tuo testo, Caos Calmo.
Il capitolo 37 è uno studio notevole della diffusione nel web non solo dell’espressione “caos calmo”, ma anche dei nomi dei vari soggetti, più o meno incliti, con cui l’io ha a che fare. Se io cerco Stefano Pioli, ne trovo una marea, ma si riferiscono più che altro a un pramşân che ha avuto una serie di venture calcistiche, alcune anche con la s davanti. Qualcosa afferente me si trova pure, ma occorre aggiungervi la parola Oubliette.
Già si è capito (purtroppo non mi va di rintracciare la sottolineatura dove lo indicavo per la prima volta) la panchina dell’io è un luogo che “attrae il dolore”, il quale, non so se ci si pensa sempre, è un sintomo, un segnale che c’è del male, non è il male stesso. In quel luogo i due contendenti (l’ebreo yankee e l’ambizioso francofono) vanno a trovare l’io come se questi fosse la conditio sine qua non è possibile condurre il gioco. Si tratta di una tappa necessaria al tour che conduce chissà dove, forse a un inevitabile sfacelo (è la franca opinione dell’io).
Il francofono, che parla un fluentissimo italiano (anche se, a un certo punto, gli scappa un Infatto), è un essere orrendo, fors’anche più dello yankee, essendo “uno di quegli individui che hanno la pretesa d’esser riguardati da tutto ciò che succede – come Piquet…” – dice l’io, ma quest’ultimo è ancora una larva in crescita (metafora mia, non di Sandro Veronesi) al confronto del più potente connazionale.
L’io si difende assai bene, essendo bravo a schivare i colpi che riceve da quel Boss, per lo più subdoli, arrivando a pensare che “gira gira è venuto anche lui qui a soffrire: benvenuto, Boesson, nella terra del dolore.” – e quando il pianeta detto Terra ospita quel sintomo, in quel luogo, come in un sacrario, la gente è più disposta a pensare di cercare una soluzione e quando essa non ce la fa ad arrivare, ecco che la tragedia pare giunta all’ultima stazione, e ognuno rischia di divenire “in mezzo a questo caos calmo, un omino vestito di nero incapace di farsi dire una cosa che non significa niente.” – condoglianze!
Poi l’omino nero chiede all’io tre volte, forse pensando a quel tale che altrettante volte tradì il suo Maestro prima del canto del gallo: “Posso fidarmi di te? Posso fidarmi di te? Posso fidarmi di te?”
Citando Bob Dylan, la traduzione italiana di alcuni versi della sua più celebre canzone: Risposta non c’è/o forse chi lo sa/caduta nel vento sarà.
Alla fine di pagina 439, colgo un paio di frasette che m’inquietano: “sta dentro una bolla, questa bambina, e tutto ciò che io posso fare per lei è evitare di rompergliela” – che mestiere assurdo, quello del genitore. Mi disse un’amica che non ebbe figli (cioè, solo un aborto spontaneo): i figli vanno curati come i fiori, li si deve annaffiare ma non stargli troppo addosso. Boh!
Ho poco da aggiungere: a parte che questo non è un romanzo pedagogico: a pagina 444 l’io passa col rosso, pare a fin di bene, normalmente nella mia kafkiana Reggio Emilia un vigile a forma di telecamera avrebbe creato dal nulla una contravvenzione, con relativo addebito e decurtazione di punti.

Caos calmo non è semplicemente un romanzo dove un disgraziato sta seduto su una panchina in attesa della figlia che esce da scuola. Anche se egli è davvero un tapino, ma come lo siamo tutti noi, che viviamo in un caos la cui calma non ci permetterà mai di uscirne interi e possibilmente sereni.
A pagina 447, anche perché ammonito dolcissimamente da quella formidabile creatura, l’io scopre che il suo “era un caos reversibile”, e se non avesse perso il posto dopo l’infausto incontro con quel francese, era ora di “tornare in ufficio”.
A pagina 451, per fortuna è l’ultima!, conto 6 “devi” e 1 “non devi”.
La precedente pagina, stavo per scordarmi, mi è stata donata dal signor Veronesi Sandro una mezza grande verità, cioè quasi normale: “Ho appena avuto la prova che le mie convinzioni possono portarmi molto lontano dalla verità.” – secondo me la pensa così anche Jiddu Krishnamurti.
In finire del romanzo, l’io svela un arcano… ma non voglio più spoiler nelle mie reazioni (ah ah ah). E poi dice… Non lo dico… anche questo ha diritto di saperlo solo chi è arrivato fin qui.
Ultimissima piolata: nei Ringraziamenti, Sandro Veronesi (che poi uno quasi intuisce essere un horcrux di quell’io narrante, oppure è il contrario, chissà!) scrive, a mo’ di commiato (esiste un diverso contrario di esergo?) le magiche ma erronee parole: “E poi dicono che quando si scrive si è soli”, poiché in tanti (anche la deliziosa Violante Placido, mannaggia!, come lo invidio!) l’hanno aiutato in un modo o nell’altro.
Leggendo te, libro mio, e gli altri 1998 tuoi consanguinei, una cosa ho imparato: a volte può succedere, a volte no. Ma di certo chi legge solo non lo è mai. Ergo, anche chi scrive, perché qualcuno, poche settimane o qualche millennio dopo, a lui si ricongiungerà. E come lui, così chi l’ha preceduto. Pensa che lo stesso Dante era come minimo sesto tra cotanto senno!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Sandro Veronesi, Caos calmo, Bompiani, 2007