“Non sono morti gli dèi” di Costantino Kavafis: sincretismo ed ellenismo
“Per aver noi spezzato i simulacri
loro, per averli scacciati dai loro templi,
non morirono affatto, per ciò, gli dèi” ‒ Kavafis
Ho sempre amato la Grecità per la chiarezza dei principi di Bellezza, Bontà e Verità di cui è stata portatrice: Ellade è sinonimo di sfumature, di sfaccettature, di policromie, di differenze e di rimandi; di epoche, di fasi, di momenti mutevoli nel corso del tempo. La Grecità è un valore inserito nella Storia e per questo è cangiante.
Eppure, esiste a mio avviso un orizzonte da tutti abbracciabile rispetto al mondo ellenico: Franco Battiato meglio di tutti impiega la perifrasi Terra degli dèi per nominarlo.
La Grecia è la terra della luce divina, con la sua solarità e anche, per contrasto, del buio, dell’ombra, dell’oscurità necessaria per proteggersi dal sole, o che compare quando il sole declina.
Ma la luce torna sempre nella sua casa: Non sono morti gli dèi, almeno nella penisola greca, perché essa ne è la dimora.
Occorre tuttavia una voce, nel tempo, nei secoli, che ci desti dal possibile oblio del passato.
Konstantinos Kavafis, poeta nato ad Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863 e morto sempre ad Alessandria d’Egitto, sempre il 29 aprile 1933, respirò l’aria dell’Ellenismo innanzitutto per nascita, in quanto era figlio di genitori greci; successivamente per luogo in quanto nacque nella πόλις alessandrina per antonomasia; ma fu greco anche per scelta, ovvero per libera consapevolezza.
Nonostante i suoi viaggi, fu di fatto stanziale e rimase sempre immerso in quel “porto sepolto” di antiche civiltà.
Il catalogo di Kavafis è composto da centocinquantaquattro testi che furono editi postumi nel 1935 prima in neogreco poi anche in traduzione italiana.
Non sono certo mancate le antologie: la più recente, per quanto concerne l’ambito italiano, è quella a cura di Aldo Setaioli, professore emerito di Lingua e Letteratura Latina dell’Università di Perugia, appassionato di mondo greco in tutte le sue sfaccettature.
Il docente spiega benissimo il senso della silloge a Livio Partiti, nell’ambito del podcast Il posto delle parole. La puntata, meravigliosa, può essere riascoltata QUI.
L’antologia consta di un’introduzione, di una selezione di componimenti con originale a fronte e di alcune note finali.
Nell’introduzione il curatore spiega i criteri della sua edizione: il titolo, preso dall’ultima lirica inclusa nel volume, indica che essa «si propone di mettere in luce il quadro complessivo del suo (sott. di Kavafis) rapporto con l’eredità storica e culturale della grecità antica che emerge dalla sua poesia. A questo scopo sono state scelte sessantanove poesie tra le centocinquantaquattro del “canone” vale a dire quasi tutte quelle che hanno rapporto diretto con la letteratura o la storia greca, dal mito e dai poemi omerici fino alla fine dell’antichità […] Queste sessantanove poesie sono state disposte in ordine cronologico sulla base non dell’epoca di composizione, ma del momento storico cui fanno riferimento. È possibile, in questo modo comprendere immediatamente a quali aspetti e a quali periodi è maggiormente rivolto l’interesse del poeta e in quale maniera egli si rapporti con essi».
Kavafis infatti, si sentiva sì greco, ma soprattutto ellenistico, alessandrino: ed è in effetti la fase di espansione della grecità in Egitto, in Siria, in Oriente quella maggiormente ripresa nei testi. Sullo sfondo c’è l’incombere dei Romani che presto occuperanno i territori ellenici ed ellenizzati. Quello ellenistico è un mondo di apertura, mentre l’arrivo dei Romani rappresenta la perdita della libertà greca.
Eppure, fino a quando in Oriente vi è Antonio, il sincretismo è salvo, almeno in apparenza: “Gli Alessandrini sapevano chiaramente/ che tutto ciò erano parole e scene di teatro// Ma la giornata era calda e poetica,/ il cielo un azzurro aperto/ […] Cesarione tutto grazia e bellezza/ (figlio di Cleopatra, sangue dei Lagidi),/ e gli Alessandrini corsero dunque alla festa, si entusiasmarono, ed acclamarono,/ in greco, in egizio, e alcuni in ebraico,/ incantati dal meraviglioso spettacolo/ per quanto sapessero bene che valore dargli/ e che vane parole erano quei regni” ( I re alessandrini).
Cesarione in effetti è un personaggio chiave, potenzialmente di cerniera tra Occidente e Oriente, in quanto è il figlio di Cesare e Cleopatra.
Aggiungo che dopo la morte di Cesare chi ne è il vero erede: Antonio o Ottaviano? Ottaviano ha tradito l’apertura di Cesare verso il mondo orientale? Se Ottaviano avesse perso, come sarebbe andata la Storia? Sarebbe stato scritto il Nunc est bibendum oraziano? Forse non ha senso questa domanda, in quanto, come ricorda lo stesso Setaioli proprio nel corso dell’intervista sopra richiamata, è proprio Orazio ad affermare che la Grecia, conquistata dai Romani, conquistò a sua volta il popolo invasore, civilizzandolo. Eppure le vittime sono sempre i più deboli, come Cesarione: “Nella storia solo poche/ righe si trovano su di te; perciò con più libertà ti ho foggiato/ nella mia mente. Ti ho plasmato bello e sensibile/ […] ho creduto che entrassi nella mia camera, mi parve che mi stessi davanti, come dovevi essere nell’Alessandria conquistata,/ pallido e stanco, immagine ideale del tuo dolore,/ sperando ancora che di te avessero pietà/ i vili che mormoravano come una formula, «Troppi Cesari!»” (Cesarione).
Il florilegio può essere letto come un libro di storia di tutta la Grecia, particolarmente focalizzato sull’età ellenistica.
Portavoce della poetica kavafisiana, fortemente alessandrina, è la lirica Il primo gradino in cui l’autore immagina un dialogo tra Teocrito di Siracusa e il giovanissimo poeta Eumene che si lamenta di aver scritto un solo idillio. Eppure il Siracusano esalta così il neofita: “Sei arrivato a un punto non banale; quello che hai fatto è gloria non da poco./ Ed anche questo tuo primo gradino/ dalla massa ordinaria molto dista.”
Per gli alessandrini, infatti, non conta la quantità, ma la qualità dei versi.
Anche nella qualità Kavafis è alessandrino, in grado di ricorrere alla ποικιλíα, ma una varietà che è in realtà un amalgama, una sintesi ben armonizzata di elementi quasi invisibili eppure emergenti alla lettura: così l’autore scrive in un greco moderno ora più popolare, ora più puro, ora invece inserisce frasi in greco antico, o riprese dalla letteratura o da lui stesso elaborate.
Nelle note tali elementi sono ribaditi insieme ad altre indicazioni storiche e stilistiche che guidano il lettore, da quello più a quello meno preparato, nella comprensione di liriche che, nonostante siano di argomento storico, sono in grado di parlare all’immaginario di tutti: così, ad esempio, Itaca diventa l’emblema dell’eterno viaggio, oppure i Barbari diventano il simbolo delle eterne paure dell’uomo di fronte ai cambiamenti.
Davanti all’inquietudine dei tempi, l’umanità deve accettare con eroismo il mutamento e non rinunciare mai alla ricerca della Bellezza o addirittura all’Illusione: quest’ultima, infatti, ci rende vivi, vitali e speranzosi nel Bene, per quanto possibile.
Ringrazio molto la casa editrice Graphe.it per avermi permesso di leggere questo volume.
Buona lettura, ad maiora!
Written by Filomena Gagliardi
Bibliografia
Kostantinos Kavafis, Non sono morti gli dèi. Antologia poetica con testo greco a fronte,Traduzione, introduzione e note di Aldo Setaioli, Graphe.it, aprile 2023, Perugia 221 pagine, 15 euro