“Nuovo Dizionario delle cose perdute” di Francesco Guccini: conato di salvataggio (due di due)
Ho la sensazione di un qualcosa di nuovo, come suggerisce il titolo Nuovo Dizionario delle cose perdute, rispetto al primo dizionario che ho letto, e di diverso, ma non del tutto, né del tutto nuovo, né affatto diverso. Chissà che è?
Leggo delle Pezze al culo, che, caro Francesco Guccini, ti davano dei complessi. A me no, perché non ne ebbi mai, anche se mia mamma era sarta. Tu le contrapponi ai jeans sfilacciati odierni, che io giudico bene solo se apprezzo la coscia da essi internata.
Dei Vespasiani ho poco da dire. Noto che stai trasmettendo al lettore più informazioni storiche ed etimologiche rispetto al tuo precedente lavoro. L’etimo di etimo è etymon: ricerca (della verità, quest’infingarda zietta).
Per mia fortuna non so nulla del Traforo, né del Fungo cinese, mentre de La merenda so tanto ma dopo che ho letto Banchetti letterari a cura di Gian Mario Anselmi e di Gino Ruozzi, so fin troppo e nulla ho ormai da dire. Le cartoline, voglio che lo si sappia, ovunque io vada, io le vado cercando, non per me, ma per una mia consanguinea che le colleziona. A giugno andrò in missione a Santa Anastasia (NA) col mio amico Silverio e so già che le cercherà ovunque, chiedendo un po’ a tutti, cioè a quasi tutti.
I buoni vecchi fiumi una volta, come dici tu, inondavano, straripando, poi, dopo anni e anni di scuola, alcuni anche ripetuti più volte, hanno cominciato, come sempre dici tu, a tracimare, mentre ora “esondano” in modo leggermente vigliacco. Come se fosse colpa loro. Però, troppo studio a volte fa male. Pensa che da ragazzo vidi andare di sopra il Crostolo, che allagò via Zanichelli e via Ferrari, mentre non credo che oggi si attenti nemmeno a ipotizzare di dire la sua in proposito. Non si sa mai però. Queste nuove leve sono imprevedibili.
In Le osterie parli delle “piole”, le stamberghe di una volta destinate a trattoria, povere ma belle. Considerato che piolo in dialetto si dice, mi pare, s-ciavarōl, oppure anche piról, e che a Piolo di Ligonchio si mangia bene, penso che il mio cognome venga da lì. O da lì o dalla Garfagnana, dove non si mangia peggio. Il 99% dei Pioli sudamericani vengono dalle zone toscane, per quanto ne so.
In cla còpia lé a gh ē la vîda ca màsa l’ōlem: in quella coppia lì c’è la vite che ammazza l’olmo, recita il detto. Quando è lei che decide, mentre lui si limita a comandare a vuoto, tanto per citare un po’ Woody Allen. Lo dico a mo’ di commento della non barbara ma assai sandrona usanza di non fare bere all’osteria uno degli amici, che faceva la parte dell’olmo, anzi, “dell’ormo“, che è “un legno asciutto che non dà frutti commmestibili…” – chissà! A proposito, lo sai che voi medenesi vi siete appropriati del personaggio di Sandròun, che inveci l ē un arşân tésta quêdra, ma se volete perché ogni tanto può servire anche lui, ve lo imprestiamo, da veri cuginastri. Ma bada che si chiama Pietro (e lo vogliamo indietro).
Il fatto de I deflettori l’ho già letto da qualche parte, ma non ricordo bene dove. Lo sai che anche a me capita di ripetermi talvolta? Con questo non dico che…
Su I rimedi casalinghi, ti consiglio di leggere La strega buona: donne che segnano la malattia di Antonella Bartolucci. Facendo il postino mi slogai una volta la caviglia sinistra. L’intervento provvidenziale della medgòuna di turno non risolse granché, ma nemmeno mi sospese il certificato dell’INAIL.
Parli con la tua solita nostalgia, con cui ormai convivo da giorni, dell’“autoradio estraibile”, che io non ricordo se non allorché vidi un giovane correre con gli occhi spiritati con in mano un’autoradio che penso fosse di altri: la teneva nascosta, ma ben visibile, sotto un braccio. Mi fece tanta pena, davvero.
Io non rammento I calendarietti dei barbieri, ma i porno, che più espliciti non poteva essere, che allietavano le mie attese nella saletta del mio assai ben voluto artigiano di via Adua.
In Coppi, Bartali e la maglia nera mi fai venire in mente che papà teneva per il primo e, negli anni precedenti, per l’immenso Binda (a cui un anno fu chiesto di non partecipare a un Giro per la sua manifesta superiorità) rivale del pur eccelso Girardengo.
Papà assomigliava un po’ a Gino, piccoletto e col naso schiacciato, perché a tre anni si era beccato un mattone in faccia. Non fu mai operato perché la mamma, non afflitta da complessi modernisti, diceva che un òm l ē sèinper bél! Purtroppo una stenosi nasale lo fece surnacêr, smocciare, per tutta la sua lunga vita.
La bici della donna è “senza canna”, che potrebbe essere interpretata quasi come una frase sessista. Ma è vero. Però, negli ultimi decenni, ho visto varie ragazze giovani andare coi pantaloni, su delle bici con canna legale annessa. Interessante è anche la tua rievocazione della maglia nera (l’ultimo in classifica al giro) e la spiegazione connessa per quanto riguarda quel casalese non colore.
Le granite, è inutile nasconderlo, pure “io le chiamavo ‘granatine’”. Ricordo che c’era davanti al bocciodromo una vecchietta che aveva la voce tipica di chi non ha più le corde vocali, awawawa, che incuteva per questo un po’ di soggezione, non di paura però, ché pareva così inoffensiva. Anche lei “con un arnese di alluminio raschiava la stecca di ghiaccio e il ghiaccio così tritato veniva inserito in un bicchiere, poi riempito di sciroppo”: e questa era una “granatina”, mica una “granita”.
Mi fai ridere quando parli dei “più di quaranta vocaboli per definire le varie sfumature del verde”, nessuna delle quali è, secondo te, utilizzabile per identificare il verde delle granatine alla “menta”.
Allora purtroppo non c’erano Jivaros e Campas nel territorio italico, mentre oggi, anche grazie ai generosi sforzi (antifrasi parassostica) del vigente governo, si spera che le cose cambino (è anche una piolata, ma potrebbe pure essere una guccinata). Ho il sospetto che i diversi tipi di colore nelle popolazioni cosiddette selvagge siano solo diversi vocaboli per intendere diversi soggetti/oggetti: rosso cocomero, rosso mela, rosso ciliegia eccetera eccetera. Un po’ come quando si parla dei diversi modi di intendere il grigio nebbia a Guastalla: scuròun, nèbia, fumâna, galavêrna e galabróşna, anche se questi ultimi due dovrebbero essere gemelli omozigoti, come uccello e volatile, aspetta però, la gallina cos’è?
Come adombri tu, facendo una bella ombra a dir la verità, ora non ci sono più le venditrici di granatine, e devi recarti in gelateria se le vuoi, ma mica sempre ce l’hanno.
E che dire dei bif? Erano per noi baby-bommers reggiani i ghiaccioli. B.I.F. erano le iniziali dei cognomi dei proprietari della fabbrica che a Reggio produceva i ghiaccioli, la “B.I.F.” di Cavriago, fondata nel 1960. in pratica erano le iniziali dei cognomi dei soci (Biada-Iori-Fornaciari); l’acronimo è poi diventato il nome dialettale del ghiacciolo. A Bologna, ma me lo devi confermare, per lo stesso motivo, il ghiacciolo era chiamato cof, dal nome della ditta Cavazzoni Orlando e Fratelli, che aveva sede nella città felsinea. I miei figli dicono ghiaccioli, se gli parlo di bif non capiscono al volo. Ma dopo che ho simulato di strappare una plastichina e di azzannare un qualcosa e di fingere di gelare, dicono, ah, intendi i…
Ne I carri gommati parli dei gerani nei balconi. Anche lì c’era i dualismi tipo guelfi-ghibellini. Nel mio condominio c’era l’eterna sfida tra mamma Rosalinda e una certa Anna F. Secondo te per chi tifavo io?
Parli de La carta carbone, e ti dico subito che l’ho odiata fin dalla nascita. Forse non ci crederai, ma mi macchiavo sempre. E a volte anch’io, come dici tu, la infilavo a rovescio, per cui dovevo riscrivere tutto. Il computer mi ha salvato la vita e già col mio piccolo, adorabile, Apple II C, e il suo magico Tre per te, mi sentii come protetto da un insegnante di sostegno.
Ottimi gli etimi di “bucato”. Anche da te c’era Radio Bugadêra, con cui s’intendeva il pettegolezzo raccolto in lavanderia da quelle brave massaie? Il mio amico Algo detto Roy, che lavorava alle Omi Reggiane, l’immane industria meccanica di Reggio Emilia, parlava di Radio Fundèria. Questo per non fare ogni volta il sessista.
L’autostop non era il mio modo normale di viaggiare, ma col mio amico Alberto lo feci da Paris a Chartres. Fummo presi su da una coppietta di giovani (noi eravamo ancora minorenni). Mi ricordo che quella bella bionda si voltò durante la corsa e ci sorrise, dicendoci qualcosa che non capimmo. Poi un pomeriggio venne a trovarci a casa una parente suora. Mi eclissai in tempo, andando e tornando in autostop a Modena. Quando feci ritorno c’era ancora. E cominciò a interrogarmi. Poi dovemmo pure accompagnarla alla fermata del bus (a Reggio era detto tram, anche se non c’erano rotaie), solo che mia sorella dovette cambiare la gonna, ritenuta troppo corta da quella capa ‘e pezza. Che p…e!
In Le scarpe dici che, quand’eri piccolo, ormai “non c’erano più i cuoi di prima della guerra”. Ricordo che ogni tanto mamma faceva risuolare le scarpe da un certo Bulgarelli, che non giocava a pallone. Ora non usa più tanto. Si preferisce camminare male o accattare nuovi calzari.
Una volta, quando era al governo la sinistra (cioè mai, mi verrebbe da dire, ma la mia è la consueta piolata), “nei mesi invernali, le galline misteriosamente smettevano di fare le uova”. Ora non più. Una volta “le uova si mettevano sotto calce”, in attesa di tempi migliori. E scrivi: “… come facessero a capire che l’uovo non era fecondato resta per me un mistero. Lo chiedevano alla gallina?”
Mia madre era un bipede implume che potrebbe, se fosse in diretta da Chissà Dove, risponderti. Un certo Angelo (condomino privo di ali) allevava canarini e spesso veniva su da noi per chiedere l’oracolo a mamma. La quale accendeva la lucina della sua Singer e dopo aver esaminate un ovetto alla volta, diceva: questa no, questa no, questa sì. E dato che Angelo tornava ogni volta mi sa che mamma ci prendeva.
Tu dici dei vari modi di identificare il cesso. Mamma, che era potenzialmente una latinista, lo chiamava al lîcit, dove tutto è lecito; oppure l ofèsi, ufficio, senza apostrofo, che non usa da noi, mancando l’articolo lo, ed essendoci al, per il maschile e la, per il femminile, che invece lo ammette, anzi, lo esige. Così insegna il buon Denis Ferretti, esimio grammatico dialettale.
Ti consiglio il capitolo Del leggere al cesso, di Henry Miller, tratto da I libri della mia vita.
Ora vai rimembrando che ai tuoi tempi (anche ai miei) in bagno ci si nettava con i quotidiani dei giorni passati.
Una domanda un po’ impegnativa: quale utilizzeresti oggi? Alcuni, pochi, mi sono simpatici. E non vorrei umiliarli. Degli altri poco mi fido.
Parli infine del cesso esterno delle case poverette, per lo più di campagna, se ben ricordo. Emanavano un gran bell’odore, assai aulente, direbbe l’Immaginifico Poeta, anche perché spesso, come nella casa degli zii di Gavâsa, erano siti a ridosso della mâsa, cioè della concimaia.
In Le drogherie parli del VOV. Come dico sempre, se non mi fossi fatto ogni mattina, d’inverno soprattutto, un bel bicchierino di VOV al caffè, col cavolo che ce l’avrei fatta ad andare a piedi a scuola! Mia mamma era una chioccia che conosceva i suoi pulcini.
Oh, lo sai che non conosco il termine “palozzina” che tu usi un paio di volte a pagina 126: è dialettale?
E lo sai che, fino ai suoi ultimi giorni, papà diceva che doveva controllare la schedina della “Sisal”? Anche se il “Totocalcio” era in auge da anni…
Dopo aver letto Le letterine di Natale, per restare in tema, ti confesso che anch’io ho fatto la gara “a chi pisciava più lontano”. Per quanto so il migliore era il fratello di un certo Roberto Moscardin, così almeno leggo in C’era una volta un bel Paese e i loro Paesani. Tieni presente che in un paese ci sono tanti viottoli quanti paesani, se non di più. Sono tanti paesini affossati in uno, in una specie di spirale logaritmica. E tu questo lo sai quasi meglio di Roberto.
Ora ti racconto una storia che ho saputo dal mio amico Cuntabâli. Il record mondiale della minzione più lunga appartiene a una signora non più giovane, che minse per un tragitto che andava ben oltre i 2000 metri, 2121, per essere precisi. Si narra che nell’impresa fu tenuta per mano dall’anziano e fedele marito, sullo strapiombo del Monte Cusna. Dopo tale impresa la vecchietta dapprima scomparve, ma fu poi ritrovata a valle. Il primo a essere indagato fu il disperato maritino.
Da parte di un oriundo reggiano/nepalese, andato a svernare (assurdamente) presso l’Himalaya, ci fu un tentativo di superare quel record, tuttora imbattuto, ma la sua orina, appena liberata, finì per congelarsi all’istante. Il suo record fu annullato da una commissione pseudo-olimpica. Così narrano le cronache sportive. Un giorno, credo e spero che Cuntabâli si decida a scrivere un libro delle sue storielle, che non dispiacerebbero a un barone di mia conoscenza. Se passi in zona te lo presento.
Su L’idrolitina ho dei frizzanti ricordi. Su Le cabine telefoniche pure. Le utilizzavo per chiamare la l’innamurata mia, che stava ad Amalfi. A gratis. Dopo i gettoni cominciai avevo iniziato a collezionare le schede telefoniche e papà, che mi adorava, andava a raccoglierle nelle cabine stesse. Una volta fu preceduto da un coetaneo rivale che, uscendo, gli gettò in faccia un’amara verità: Stavolta ti ho fregato!
Tu non ci crederai ma non sempre l’utente aspettava che la scheda appena infilata nella fessura uscisse dalla stessa, e certune che papà aveva trovato valevano ancora svariate migliaia di lire. Le consideravo una specie di regalo di nozze anticipato.
Sulla questione annosa che poni: su come e dove sistemava i suoi abiti il buon Superman, non so che dirti. Né se era super in tutto, “anche in quelle cose lì”. Di certo era fatto d’acciaio, ergo… Così ha sancito la sua Storia. la quale, pure essa, ricordiamolo sempre, è come il mio amico: cunta dal bâli… a vôlti grôsi, a vôlti ‘d spéss.
De La catena di Sant’Antonio non voglio parlare, tanto mi inorridisce. Non per il Santo, è ovvio, ma per chi organizza tali trappole finanziarie, per nulla religiose, credo.
Ho finito, caro. E ho un solo desiderio: di averti restituito, seppure in piccola parte, tutto il bene che m’hai fatto, con la tua cultura.
Mentre ti leggevo, mi chiedevo perché stavo preferendo te a Hegel, Goethe, Heidegger, Sanguineti e Caproni, che comunque stanno là, appollaiati, sul medesimo scaffale, a fissarmi con diffidenza.
Per quanto ne so, ci sono i libri interessanti, e tutti lo sono, in un qualche modo, anche se non ho mai letto, lo confesso, nulla di Bruno Vespa; poi ci sono gli intriganti, i necessari, gli urgenti e i cogenti. Infine ci sono gli essenziali, che sono quelli che stai leggendo.
E pensare che ti tenevo a padîr in cantèina, a fermentare in cantina.
Lessi poi, nell’ordine, Cavazzoni, Benni e Celati. E a chi altri poteva toccare, se non a te?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Francesco Guccini, Nuovo Dizionario delle cose perdute, Mondadori, 2014