“8 secondi” di Lisa Iotti: perché abbiamo bisogno di distrarci con il digitale?

8 secondi” di Lisa Iotti è un saggio autobiografico (o saggia autobiografia?) che ho letto a meno di un mese dalla presentazione che l’autrice ne ha fatto nella mia città (che è anche la sua), fortemente voluta (la lettura, non la presentazione) soprattutto perché cercavo di capire come un’evidente arşâna com’è questa Lisa, non solo nell’accento, possa parlare, anche solo per fare una battuta, di tortellini anziché di cappelletti.

8 secondi di Lisa Iotti
8 secondi di Lisa Iotti

Disse più o meno, e forse mi sto allungando un po’, come del resto ha fatto lei con la presentazione: ma che avete da fare a casa, dovete mangiare i tortellini? Per i non arşân, una minoranza in via di estinzione dell’umanità, sono tutti tortellini, anche i cappelletti. Per gli arşân tésta quêdra no, gnân per ‘na pêgra… neanche in cambio di una pecora un reggiano l’ammetterebbe. Non vorrei che questa arguta biondina fosse vittima di qualche modificazione genetica, diversamente non saprei spiegare l’accaduto.

Una diatriba del genere, ricordo, l’ebbi con un emerito professore in parte felsineo e in parte forse siculo, il mai abbastanza lodato Gian Mario Anselmi, mentre stavamo bivaccando in un locale di Bologna. A mio parere stavo mangiando degli ottimi cappelletti, mentre per lui erano tortellini. Sto in questo preciso momento lottando contro la tentazione di guardare su zio Google quale sia la principale differenza fra queste due pietanze. E sto perdendo alla grande. I cappelletti mantovani sono più grossi di quelli reggiani. Ma non più buoni! I tortellini bolognesi fanno pari e patta.

Non so se Lisa se ne sia accorta, ma il suo testo abbonda di termini che un lettore di media cultura ignora o non è certo di conoscere a fondo, o magari un po’ alla lontana: tipo “dopamina”, “miniper”, “scroll”, che l’autrice ha riversato nel primo capitolo (Post-Covid), datato 2020. la stampa del libro è del 2021 ed è presentato dall’autrice nella sua città d’origine nel 2023. O tempora o mores! Anche se, prima piolata, Lisa Iotti notoriamente è flava, bionda. E tutto pepe, dotata di una verve che più spigliata di lei è difficile essere, neanche col candeggine. Una prima, eccellente, notizia: lo è anche la sua scrittura.

Lisa si fece ricoverare (seconda piolata) in una specie di ashram appenninico e il primo e fisso pensiero “era il mio telefonino spento, a meno di due metri da me. Un concentratissimo stato di distrazione, come avevo letto da qualche parte”. L’opera che sto febbrilmente scorrendo, leccando, assaggiando, divorando, e poi, ma non ancora, e non so se lo farò, sputando (le mie reazioni letterarie in fondo non sono che rigurgiti), riguarda la dipendenza all’on line in generale e al telefonino in particolare.

Dopo essere colà caduta in tentazione, il livido che ne derivò fu la considerazione: “mi sentivo come chi vince la sfida sapendo di aver barato pesantemente…” – ma sappi, cara, che l’importante non è vincere più o meno correttamente, quanto uscire vivi dalla tenzone. In fondo, chi più chi meno, si è tutti gladiatori.

Amaro come il fiele è il ragionamento successivo: “Ero una tossica digitale, e dovevo farci i conti. Avevo deluso tutti, a partire da me.” – mah, io sono messo forse peggio. Grazie a te, però, sto guarendo! Ho esagerato: sto lentamente migliorando.

Lisa, ti chiedi perché hai continuamente bisogno di distrarti. Poi accenni a qualche spiegazione, soprattutto quando dici che cazzeggiare, anche per una donna (terza piolata) è un atto balsamico. E poi c’è quel fatto che narri, di noi nella foresta, quando eravamo più pelosi e nemmeno s’ipotizzava il radipil (questa allegoria è forse una iottata), non eravamo del tutto concentrati su qualcosa mentre i nostri sensi erano tutti quanti all’erta, pronti a cogliere qualche fruscio o odore sospetto galleggiare nell’aere. Ma pare che tutto questo stesse accadendo: “anche quando non avevo nessuna intenzione o bisogno di essere distratta…”.

Mi preoccupo della verità che vai spiattellando: noi dimentichiamo gran parte di quello che leggiamo (forse per questo scrivo queste reazioni, per fare sopravvivere l’anima altrui, che poi sarà per sempre correlata alla mia: così quel che scorda una si ricorda l’altro, e viceversa).

Riporto solo un termine che (per fortuna) fino a tre giorni fa ignoravo: “zettabay”, e mi pare giusto consigliare i deboli di cuore di non cercare il significato ‘n coppa a zio Google (come puoi notare, anch’io, come te, me so’ amalgamato con altri popoli, sostituendoli in parte nella razza). Al che decido di fare finta che sia una sorta di zia Betta Bay.

Un esempio della tua curvacea scrittura: “D’ora in poi, ogni volta che mi verrà da piegarmi a mo’ di punto di interrogativo su uno schermo, penserò alla mia missione riparatrice nel mondo. Tikkun Olam, a monito.” – che è un gran groviglio di battute spiritose amalgamate con concetti esoterici, nel senso di non facile comprensione.

Amo la tua scrittura quando dici: “Parlo del peccato da peccatrice…” – e tu sai bene che la maggior parte dei lettori, io per primo, siamo come dei penitenti in fila davanti al confessionale, augurandoci di fare due risate con Uccio De Santis. Già accettare il dato e fare la fila è un atto meritevole. E se poi, mentre stiamo aspettando il nostro turno, ci scappa di buttare l’occhio sul cell (a proposito hai letto Cell di Stephen King?), beh, è umanamente comprensibile, dai, è l’unica compagnia a cui in quel momento possiamo aspirare.

A pagina 40 spieghi l’origine dei termini “pizzled” e “phubbing”, graziandomi nel senso che così evito di guardare su zio Google. L’eventuale lettore del tuo lettore vedrà poi lui che fare.

Il cell domina i nostri percorsi (ognuno ha il suo, come scrisse mi pare Rajneesh): “Prima o poi mi finirà in un tombino, lo so. O io mi schianterò contro un palo, più probabilmente.” – già m’immagino che sarà la seconda scena a precedere la prima, con te che, ruzzolando (prima di battere la testa), vai allungando il braccio destro perché hai intuito che c’è da quel lato un tombino e non hai il tempo di accorgerti che, ecchimosi a parte, le fessure dello stesso sono troppo strette per permettere la sua estrema capitolazione.

“… sulla terra oggi ci sono più schede attive che persone…” – e io ora andrei a dirlo allo spettro di H. G. Wells! E pure a quello di George Orwell!

Pare che peggio di noi ci siano solo due popoli, di cui uno ha meno abitanti di noi, e l’altro è quasi microscopico. Entrambi hanno gli occhi mandorlati.

Parlando di quando incontrasti il tuo primo “smartphone appoggiato al centro di un tavolo”, paragoni Lui a un oggetto sacro, e te coma una delle “scimmie di Kubrick davanti al monolite.” – ci sta, sì…

Tralascio le cifre e le percentuali che indichi perché ho rispetto per la salute psichica del mio eventuale lettore. Già il tuo sta patendo di una vaga ansia. Quel che dici a quel che americani e francesi rinuncerebbero pur di non perdere il cell, mi fa pensare all’istinto di sopravvivenza. Per questo, demenzialmente, salvo su due o tre computer le foto scattate o ricevute. Non ne va della mia vita, ma della mia biografia. Che diamine!

Mi fai ridere con la tua prosa, quando dici che l’evento con cui “Deep Blu di IBM” (il II perché il I lo sai che aveva perso sia pure di misura) sconfisse Kasparov, “sembrava poco più di un compitino di ingegneria informatica per sgranchirsi i microchip” – e qui alludi a una partitina di “Go” vinta da “AlphaGol sul sudcoreano Lee Sedol”.

Da fonti brindisine so che a Burraco on line in genere ti fanno vincere una partita, per poi frantumare la tua vanagloria dalla seconda in poi. Alcuni decenni fa sfidai a scacchi Chessmaster 5000, ai livelli più bassi, strabattendolo. Lo affrontai poi al livello più alto, facendomi ridicolizzare varie volte, finché… quel mostriciattolo scelse una tattica psicologica, mi viene da dire puttanesca, non volendo forse perdere il cliente, di farsi sconfiggere, dopo essere andato in vantaggio, perdendo qualche pezzo importante per alcune sue distrazioni. Sì, figuriamoci…

Considerazione mistica: “Sospiro. Ci restano così poche riserve di trascendenza e internet è una di queste, ma mi sentirei più tranquilla se i giganti del web si limitassero a manipolare la mia mente per avidità di soldi e per sete di potere, piuttosto che ambizione di essere Dio”: una follia tira l’altra.

Spiegazione del titolo: quando “ci fermiamo davanti alle opere d’arte nei musei”, capita che “il tempo di permanenza è impressionante: 8 secondi.” – e il timer indica che si sta peggiorando anno dopo anno, mese dopo mese. Questo non accade quando entri nella Cappella di San Severo a vedere il Cristo Velato di San Severo e l’amico Silverio, sempre più preciso di te, ha nelle orecchie l’audioguida e tu sei costretto a circumnavigare quel capolavoro almeno dodici-quindici volte.

Silverio, che è una delle persone più adorabili, ma anche più distratte che conosco, mi dice che sono ipercinetico e multitasking. Poi tu mi riveli, a pagina 75, che ognuno ha un “task” alla volta: pare che il cervello segua un impulso alla volta. Attendo lumi sul cervelletto.

Leggo, da quando ho preso in mano il tuo tomo, col cell distante, e mi sono imposto di non ascoltare le notifiche se non ogni due ore, a meno che non siano dei miei figli (anche loro gemelli, come i tuoi, ma diversi, con nove anni di differenza), avendole personalizzate: un avviso nervosetto (e un po’ autoritario) quello di Michelangelo, uno più tenero (e un po’ infido) quello di Anna. Mentre sono, come dire, concentrato nella lettura, mi sorprendo a nettarmi talvolta la cacchina nelle unghie, a sfregarmi un tot di cerume dalle orecchie, a grattarmi, a guardare il vetro della finestra qualora oda uno sfrigolare di gomme. Etc etc. Tutta colpa dei pelosi avi, I guess.

“Il multitasking crea un circolo vizioso di dipendenza da dopamina.” – e a dirlo è ora uno dei tanti guru che vai rintracciando, un po’ nei libri, come in questo caso, un po’ de visu, soprattutto, ma non solo, nel mondo anglosassone, per lo più in Yankeeland.

Mi piace il modo con cui ti auto-sberleffi, a volte forse usando la fiction, allorché scrivi: “Quanto a fantasia non vado fortissimo, ammetto.” – eppure sai bene che ciò non è vero.

Sei quasi fenomenale quando ti vengono certe battute: “Una meta-ansia al cui confronto il concetto di circolo vizioso è una linea retta.” – una geodetica, direbbe il buon Albert (Einstein). E stai alludendo a quel che succede quando crescono “i livelli di cortisolo nel sangue”, a causa dei continui bip bip.

Raggiungi un campus di San Diego, e dici: “ho l’impressione di muovermi in una foto sovraesposta, quando ancora c’erano i rullini (sembra una vita fa)” – il tuo mi pare una specie di fantasmagorico Diario di Bridget Jones. L’hai letto?

Altra perla (non so se e quanto tua, comunque luccicante): “tenere sotto controllo la distrazione distrae quanto la distrazione stessa”.

Una ricercatrice ti dice che il tenere d’occhio il cellulare è paragonabile all’ansia della neo-mamma che controlla ogni pochi secondi il suo bebè. Solo che l’età del cellulare pare sempre quella. In realtà cresce, almeno fino a quando non gli viene l’Alzheimer, al che lo sostituiremo senza alcuna pietà filiale con un suo simile più pargoletto e funzionale.

“Da un certo punto in poi l’informazione non è più comunicativa ma meramente cumulativa…” – e deformativa, I fear.

Tutti noi, democraticamente scrivi a pagina 95:si genuflettono al banco della nuova religione…” – che non abbiamo scelto, ma che ora ci lega in un drammatico credo, sempre in evoluzione, in espansione, in bieca conquista della nostra piccola e (si fa per dire) innocente animella.

“La centralina del mio sistema razionale d’allarme aveva iniziato a uggiolare.” – perché in tutti noi alla fine si cela un paffuto cagnolino.

“… togliere i tasti dal telefono; sembrava un’idiozia, però alla fine avevano ragione loro…” – e questo, che lo dice un tuo amico, è la spudorata verità.

“La conversazione avrebbe potuto benissimo essere il soggetto di un episodio di Black Mirror.” – lo riporto per salutare ancora il caro Gian Mario Anselmi, autore di White Mirror.

Sai essere arguta e penetrante:Siamo macchine complesse e misteriose, non è sufficiente sapere che un’azione è sbagliata per non ripeterla più. figuriamoci eliminare un’ossessione.” – che mi ricorda di striscio il detto campano che recita: i soldi non danno la felicità, figuriamoci la miseria!

A pagina 111 citi “Telmo Pievani, uno degli evoluzionisti più famosi in Italia…” – autore che seguo e ammiro. Ma la cosa che nella pagina più mi fa strabuzzare gli occhi è una frase relativa all’“Ipone XS Max” di una tua amica, “che ha le dimensioni di una padella per pancake”: mi piacerebbe che tu un giorno facessi una sfida all’ultima similitudine & allegoria con la scrittrice Mavie Da Ponte, a cui un po’ assomigli nella figura snella e nello sguardo vivace.

Uffa, dopo enne tentativi di resistenza, sono soccombuto e ho preso il cell in mano per cercare su zio Google “il quadro di Carracci del Mangiafagioli”, che talvolta citi, il giorno dopo, dopo aver resistito per quasi 24 ore. Mi fa pensare a quello di Teomondo Scrofalo, che tanto era in voga ai tempi di Drive in. Tu dici “googlando”, un termine che a m fa gnîr al blèdegh, mi fa venire il solletico. Te lo ricordi, vero, il nostro idioma latino-celtico-goto, cara la mia lupacchiotta? Quando torni a Roma devi dire a quei metropolitani che hanno fregato a noi poveri reggioemiliani (come ci chiama mio cognato Andy, che non so se vorrò presentarti) lo scudo crociato con la scritta SPQR (ultima, ma temo di no, piolatona).

Finalmente, nella quindicesima riga di pagina 116, trovo il primo, assurdo, refuso, dai, va’ a controllare! Ci tenevo, sai, a beccarti in castagna!

“Siamo plastici, ma non elastici” – e, tanto per darti una non magra soddisfazione, al momento non riesco a leggere la mia nota scritta col lapis (come odio la mia calligrafia): boh!

Tristezza:Ogni volta che assegniamo a una macchina esterna una funzione umana, stiamo rimuovendo una capacità dalla nostra vita e del nostro cervello.” – è come se utilizzassimo il sempre idoneo Rocco Siffredi per mostrare alla nostra donna come si compie un vero atto sessuale.

Parli dei “tassisti più famosi al mondoche sono quelli londinesi. E io che credevo fossero i napoletani. Ancora ricordo quell’abusivo, senza tassametro per intenderci, che dal Museo di Capodimonte ci recò tutto allegro in città, passando per mille e tre vicoletti e che poi si accontentò dell’esatta metà della cifra iperbolica che ci aveva chiesto: virtuosus vir magnae virtutis, magnando cottidie.

Appare ora una mia, assai misterica, nota: scarica massa idee, ah, ora ricordo cosa intendevo. In whatsapp, creato da figliama, ho un autorefenziale gruppo dove sono solo io, che lei ha chiamato Io, e che ho poi corretto in Zio. Lì, come se fosse un notes, e lo è infatti, ci deposito gli appunti di idee che poi utilizzerò nella scrittura, quando mi vengono per strada o ‘n coppa a ‘o divano (una delle mie diciannove ex consorti è della costiera amalfitana; e questa forse è la mia piolata più mesta). E mi domando se è giusto farlo, anche se così non alleno la mia memoria. Avendo una bella età, ho deciso che è meglio comportarmi in simil guisa, piuttosto che affannarmi a rinvenire le tracce di un qualcosa che mai più si affaccerà: c’era qualcosa che dovevo scrivere, e chi si ricorda più…

A parte un “tuk-tuk” che costringe me e il mio lettore a gettarmi nelle braccia accoglienti (non so quanto disinteressate) di zio Google, il capitolo che dedichi alla perdita della memoria mi fa molto male. Grazie lo stesso, lo so che l’hai fatto apposta, non perché sei sadica, ma perché sei esaustiva: e infatti mi sto quasi esaurendo a leggerti…

Ti do una bella notizia: ho molto amato I fiori blu di Raymond Queneau, ci ho pure scritto un bell’articolo, ma ricordo poco, dovrei rileggere me oltre che lui. Perciò scrivo le reazioni, per farmi contro-reagire poscia, dopo un anno o due. Se ci pensi, questo è il dramma di ogni lettore.

Parli del “numero di collegamenti che siamo in grado di stabilire tra le cose che sembrano delle intuizioni utili.” – grazie, cara, e il bello è che non so perché ti sto ringraziando.

Scrivi a pagina 177 che “la lettura assidua di libri”,nel tardo Antrapocene, in piena esplosione di internet e social, è diventata quasi un atto di dissidenza.” – occhio che, lo so per esperienza, leggere (e scrivere) può diventare un atto compulsivo.

Ti viene in mente una frase detta da un celebre matematico, e scrivi: “che ho letto non so dove”: ma finché c’è scorderella c’è speranza. Il senso di questa mia battuta è che se un essere dimentica qualcosa vuol dire che ha in mente qualcos’altro. Dimenticare può diventare un atto catartico.

“C’è qualcosa che non va in me? Perché non riesco a fissare ciò che leggo su uno schermo della mia memoria?”e io ti chiedo: perché siamo umani? Una volta faticavo a dormire se non mi veniva in mente un dato che rivestiva una scarsa importanza per la mia sopravvivenza, tipo il cognome di un mio compagno di scuola, oppure di un mio ex collega (che sono i primi che se ne vanno, quei nomi intendo). Giunsi alla conclusione che, se questo era accaduto, due erano i possibili motivi: o avevo una forma precoce di Alzheimer (ma subito negai l’ipotesi con irosa energia), oppure che era giusto così: quei dati non erano importanti dal mio punto di vista esistenziale.

Solo “quattro persone su dieci hanno letto almeno un libro per motivi non professionali nel 2017.” – interessante la parolina che hai messo in corsivo. Ti ricordo due detti arşân (il primo è anche lombardo-veneto, come so dall’amico Roberto Moscardin): piutôst che gnînt l ē mej piutôst, meglio pochi che nessuno; e anche: piànşer fa trî e réder fa trî, che tu pianga o ridere il risultato non cambia. Quello che dicevano i nostri avi non era sempre dettato dalla verità, che forse non esiste nemmeno, ma almeno non era deformato dalle macchine.

“… dentro ognuno di noi c’è un cucchiaino di stelle…” – ed è la polvere che si deposita nei nostri ambiti e che ci accaniamo a riciclare nel secco, chissà perché.

“Abbiamo scambiato la sensazione di sapere con il sapere.” – e abbiamo cessato di porre in dubbio ciò che crediamo inattaccabile, scordando la lezione di Popper, secondo cui quel che è scientificamente provato è di per sé falsificabile: Isaac (Newton) fu falsificato da Albert.

La religione è certa, ma solo per chi confida in un Dio: ciascuno di noi, almeno mezza volta in una giornata. Io sono un ignorante di quel Signore ma ogni volta che mi reco a vedere il Cristo di Maratea, alto una dozzina di volte più di me, riesco ancora ad avere qualche insano dubbio sulla mia incredulità.

Un esperto ti propone una similitudine:È come se raccogliessimo le frasi con la scopa”: che è un fatto buono e giusto, dipende poi da come gestiamo il raccolto, dove lo cerchiamo e dove poi lo differenziamo. E, soprattutto, da come lo ingurgitiamo.

Anch’io, come la tua prof e come te, amo l’etimologia, perché toglie il velo che avvolge le parole: quel che è banale, come insegna Salvatore Patriarca in Elogio della banalità, è tale perché è stato ban-dito da un ban-do, cioè pubblicato. Col tempo ha assunto il significato di solito, ma è nato con il senso di messaggio destinato al popolo. Saperlo mi rende più ricco di consapevolezza. Anche Whatsapp è un creatore di ban-di, quindi sia pure benedetto, ma non troppo.

“… the Scroll infatti è proprio il rotolo…” – per cui si dice scrollare le spalle, e crollare è rotolare verso il basso, nell’angoscioso Khaos. Non ci avevo mai pensato, ti devo un caffè (banalmente americano se ti va). Senza lo scroll, “… la pagina sui device si sarebbe girata come in un libro.” – come sicuramente sai c’è un’app sul cell che permette di leggere i pdf in orizzontale; chissà se sarà presto utilizzato nei social. Tutto si evolve, anche lo scroll potrebbe essere un giorno abbandonato o rimanere come semplice opzione.

“Sulla carta non ci sono parassiti…” – dice l’esperto: nego, perché chi scrive cerca sempre di nutrirsi di te, non meno vigliaccamente di chi ti dona i coockie. La verità forse non esiste, ma se esistesse sarebbe tanto in Te quanto nell’Altro, ognuno dei due termini devono iniziare con la maiuscola, in segno di rispetto. Il dialogo giusto sarebbe quello basato su un’onesta e reciproca sincerità. Anche quando dialoghi fra te e te: Je est un autre, cantava il mio Arthur (Rimbaud).

Chi dice che “non ha più senso leggere un libro” quando ci sono “tante serie interessanti in streaming”rende ancora più complicato un discorso già arduo da comprendere. Io conosco un grande uomo di cultura (non dico chi: ancora Gian Mario Anselmi, opps…) che una volta mi disse che a me mancava la conoscenza dei serial, che invece ha lui, che è, soprattutto, uno storico della letteratura e un italianista; e che ha mia figlia, studentessa di Lettere Antiche all’Alma Mater di Bologna. Quando ci incontrammo tutti e tre a pranzo, feci spesso e (poco) volentieri la figura dell’ignorante sulle creazioni di Netflix e affini. Tra l’altro manco vado al cinema. E, non t’offendere però, manco guardo la tivù, leggo e scrivo soltanto, e incontro amici, contando sul detto delle nostre parti: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun. E mi sentirei un bèl nèsi (dal latino nesciēns) a tradurre. Il senso è: non si può amare e seguire tutto. Mica sei un motore di ricerca.

Scrivi:Uno dovrebbe fare figli a ciclo continuo solo per avere la scusa di passeggiare in posti come questo senza sensi di colpa.” – e questa frase indica come il tuo stile sia sempre ex-agerato, tendente a uscire dagli argini, al fine di inondare la mente del lettore, come gli Egizi che aspettavano ogni anno, con ansia, la piena del Nilo per innaffiare i campi. A me la tua scrittura piace, anche se poi mi è venuto il raffreddore.

“… io non sono ambasciatrice di nulla se non di me stessa…” – e di chi ami, e del pubblico a cui ti rivolgi, di un sacco di gente, se ci pensi. Qui ti riferisci a certi aspetti politici e governativi, per cui la tua frase è, specie nel presente momento storico, assai consacrabile.

“… con i suoi scivoli di legno e altalene i bambini li hanno presi d’assalto come formiche i resti di un picnic.” – l’ennesima similitudine.

Stavo pensando che se una volta andassimo a mangiare del pesce in un ristorantino della riviera, tu, Mavie Da Ponte e il sottoscritto, sarei senz’altro invidiato dagli altri clienti e pure dai camerieri: e così voi due potreste conoscervi. Per me leggere un libro è provare per l’autore amore/amicizia: parole entrambe derivate dal sanscrito kam’a, da cui deriva viene anche Kāma sūtra: stai tra, Lisa, che io quello lo frequento solo etimologicamente (salvo improvvisi casi disperati). E io gioisco nel presentare amici e amiche che non si conoscono e che poi si possono frequentare fra di loro, senza di me; per cui in quel locale ci potete andare anche da sole.

“… quelli nati col tablet già nella placenta hanno delle competenze in più.” – e forse hai ex-agerato pure qua, pur dando l’idea: io mi sento leggermente handicappato rispetto a mio figlio (nato più o meno con Internet) e a mia figlia, nata più o meno con Whatsapp).

“… Da quando ho scoperto che lasciar andare i pensieri, fare vuoto in testa, non essere focalizzati su niente in particolare è fondamentale per creare nuove connessioni nel cervello, mi sento più autorizzata a indulgere all’ozio.” e qui potrei parlarti della lezione di Cesare Boni, ma diventerebbe una borsa un po’ lunga. Magari ci provo dopo quel pranzetto, passeggiando, prima della meritata pennichella.

Da quello che descrivi nel penultimo capitolo, anche la redenzione è inserita nel gioco della speculazione commerciale, che ti può (fingere di) donare l’allucinata proposta: “Diventa dipendente per liberarti dalla dipendenza” – che pena! E che costi!

Non sapevo dove infilare Jiddu (Krishnamurti), ma ho capito che lui direbbe che il problema non sussiste che nella mia testa. La mia gavassese madre direbbe: mettilo dove non c’è neve.

Quel saggio uomo, la cui vita fu in parte un mezzo inferno, in parte un mezzo purgatorio e in parte un mezzo paradiso (come capita a gran parte dei viventi) propugnava (senza pugnare, ma scrivendo e parlando) la Libertà dal conosciuto, titolo di un suo saggio. Il che non significa che non bisogna leggere, studiare, imparare (il primo libro che lessi di lui è Cominciare a imparare), ma questo: non permettere che la tua conoscenza t’impedisca di vedere la realtà così com’è. La devi affrontare come si dovrebbe fare con un cobra: senza pregiudizi, con semplicità e purezza. Ennesimo detto arşân: a sûn brót ma s-cètt, brutto ma schietto, deciso, senza vani infingimenti. Amen. E così sia.

Verità da meditare è pure:Niente è più difficile che non fare niente.” – e qui viene fuori la lezione del suddetto Cesare e anche una locuzione cinese, che non ricordo bene, forse tratta da un romanzo di Han Suyin, che esalta il dolce far nulla, a cui ogni tanto dovremmo volgere la mente.

Lisa Iotti
Lisa Iotti

A pagina 239 parli di “catessi”. Dopo aver letto, millenni fa, nella prefazione a Eros e civiltà di Marcuse, l’espressione catessi della libido, non essendovi all’epoca zio Google, mi risolsi a chiedere al mio prof di filosofia, che era un tipo alla mano, Beggi si chiamava. Mi corresse: Pioli! Catarsi, non catessi! Insomma, anche lui la ignorava. Che bello quel mondo così ingenuamente ignorante! Ma non lo cambierei con l’attuale. Bisogna sempre vivere il presente, I hope.

“Un autolesionismo con qualche punta di edonismo, la mia specialità” – forse, ma il tuo difetto è anche la tua più singolare dote: parli male di te al fine di migliorare te e gli altri. Poi getti in faccia al lettore prima una “brutta notizia” e poi una “buona”, ma non intendo spoilerizzarle.

Grazie al tuo romanzo-saggio ho imparato principalmente tre cose: come già scrissi, non scatto più come una molla se odo una notifica, avendo imparato a gestirle con una certa misura; non voglio più guardare le notizie Google che trattano di (spesso finti) drammi umani, che inquietano sempre. Pensa che un paio di volte, unico essere umano sul pianeta, immagino, ho trovato un paio dei miei articoli pubblicati su Oubliette E che da qualche giorno non faccio che imbattermi in articoli su Guerra di Celine pubblicato in Italia, probabilmente perché mi ero detto interessato all’opera n‘coppa a un social. La terza cosa, importantissima per me, è che… No, non te la dico per un’assurda verecondia.

Di certo non ignori quanto ogni scrittura celi un tot di fiction e di links, anche la tua, anche la mia.

Nei Ringraziamenti ti sei scordati i miei, tutti quelli che vorrei fare a te, ai tuoi collaboratori e soprattutto al tuo quasi beato editor: non ho infatti trovato altri refusi oltre a quello indicato. Ciao.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Lisa Iotti, 8 secondi, Il Saggiatore, 2020

 

2 pensieri su ““8 secondi” di Lisa Iotti: perché abbiamo bisogno di distrarci con il digitale?

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