Contest di poesia e racconto breve “L’inquilino dalla modica follia” – partecipazione gratuita
“Nel tempo, alla luce dei numerosi casi di disturbi psichici da noi, mi sono sempre chiesto se è il contesto di vita ad alimentare il disagio mentale o se è la follia individuale a nutrire il contesto!” ‒ tratto da “L’inquilino dalla modica follia” di Antonietta Fragnito

Regolamento:
1.Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “L’inquilino dalla modica follia” è promosso da Oubliette Magazine, dall’autrice Antonietta Fragnito, e dalla casa editrice Tomarchio Editore. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.
La partecipazione al Contest è gratuita.
Tema libero.
2. Articolato in due sezioni:
A. Poesia (limite 100 versi)
B. Racconto breve (limite 1000 parole)
3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.
4. Premio:
N° 1 copia del romanzo psicologico “L’inquilino dalla modica follia” di Antonietta Fragnito.
Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.
5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 16 luglio 2023 a mezzanotte.
6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:
Alessia Mocci (Editor in chief)
Antonietta Fragnito (Poetessa e scrittrice)
Daniela Balestra (Scrittrice)
Carolina Colombi (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)
Stefano Pioli (Collaboratore Oubliette)
Manuela Orrù (Poetessa e scrittrice)
Filomena Gagliardi (Poetessa e collaboratrice Oubliette)
7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.

8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.
9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook:
https://www.facebook.com/OublietteMagazin
10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.
11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.
Buona partecipazione!
sezione b, accetto il regolamento
NEL MONDO DELLE FIABE
Ci fu un lungo silenzio, rotto solo da quel picchiettare della bacchetta magica sulla sua testa, segno evidente che la Fata stava pensando…
Poi, finalmente, la bacchetta le planò sul grembo e lei fissò un attimo i miei occhi, per poi chinare il capo, arrossendo.
“E’ tutta colpa mia, Messer Principe”, farfugliò.
“Colpa mia? Che significa, colpa mia? Che c’entri tu con il fatto che Cenerentola continua a spazzare la reggia peggio di quando era succube della matrigna e delle sorellastre? Ti ho chiesto un incantesimo che la rinsavisse e mi esci con questa cosa? Fammi capire…”
Passò un lungo istante, in cui la bacchetta si sollevò di nuovo sprizzando fugaci stelle, poi la Fata riprese a parlare.
“E’ cominciato tutto quando Grimilde andò a trovare sua cugina, la matrigna. Che brutta parola, matrigna, fa pensare a una persona malvagia; invece fino a quel momento lei, a Cenerentola, le voleva bene…dove ero arrivata?”
“Stavi raccontandomi che tutto era iniziato quando…”
“Ah, sì. Le due (sai com’è, sono donne), decisero di andare a fare un po’ di shopping; così lasciarono sole Cenerentola e le due sorelle a giocare; e successe, letteralmente, il patatrac”
Cominciavo davvero a incuriosirmi…
“Cioè?”
“Hai presente lo Specchio, vero? Quello della più bella del reame?”
“Certo…e quindi?”
“Grimilde aveva portato lo Specchio con sé; probabilmente, anche, per far morire d’invidia la cugina che, ehm, non è quel che si dice…ma non divaghiamo: lo aveva lasciato in un angolo della sala e cosa fanno Cenerentola e le due sorelle? Si mettono, lì, a giocare a moscacieca!”
Un urlo strozzato mi uscì dalla gola.
“Oh per mille draghi, mi stai dicendo che…”
“Proprio così, Messer Principe. Nella foga del gioco Cenerentola urtò lo specchio e lo fece cadere. Credo sia facile, intuire le conseguenze…”
“Ma, ma – replicai balbettando – lo specchio era ben integro, quando, non molto tempo fa, decretò che era Biancaneve la più bella!”
La Fata mi guardò in modo strano…
“Già, Biancaneve. Perché, a te ti attizza?”
Ci pensai su.
Solo un attimo, a dire il vero: perché se confrontavo la povera Bianca con Pocahontas…e soprattutto con Jessica Rabbit (deglutii a vuoto, a quel pensiero… ) “Beh, ecco…”
“Eh no che non ti attizza, e come potrebbe? Con quei capelli pitch perfect acconciati in quella maniera, quel visino da bambina paffutina…”
Fui io, a quel punto, a interromperla.
“Sta di fatto che il Principe Azzurro…”
Lei mi guardò, e una lacrima luminosa le scese dagli occhi…
“Oh, ad alcuni uomini le bambine piacciono. E piacciono molto”
Mi alzai come una furia…
“Per gli spinaci di Popeye!, non mi dirai che Azzurro…”
“Già, e non solo: ricordi come si sono incontrati? Lui da solo nel bosco e ti vede sta bimba, dove? In una bara di cristallo, circondata da sette nani. Bella, come tomba, ma sempre tomba, era: e lui che fa? Si china, e bacia il cadavere!”
Ululai
“Per la scarpetta! Non solo pedofilo, Azzurro. Anche necrofilo! Ma guarda cosa, ma guarda cosa…”
Non so per quante volte ripetei come un idiota ma guarda cosa, so che a poco a poco mi calmai, ripresi lucidità…
“Però, …continuo a non capire. Lo specchio era integro, quando disse che era Biancaneve, la più bella. O no?”
La fata sospirò, divenne rossa come la mela avvelenata, di nuovo chinò il capo…
“Chiamarono me, Cenerentola e le sorelle, quando avvenne il patatrac. Io cercai di rimediare, feci davvero il possibile. Chiesi alle tre di passare con la scopa la sala, di raccogliere ogni più piccolo frammento di vetro e di consegnarmelo, perché solo ricomponendo lo specchio nella sua interezza si poteva sperare che… Insomma, lo fecero e io pronunciai l’incantesimo, sperando che fosse quello giusto…mi illusi di sì, quando vidi lo specchio magicamente ricomporsi. Capii di no, quando cominciò a sparare sentenze strampalate come quella della bellezza di Biancaneve…”
“Grande Puffo”, farfugliai, mentre iniziavo a capire.
“…le due sorelle cominciarono a ricattare Cenerentola, minacciandola di dire tutto alla mamma e a
Grimilde, accusandola per di più di ogni sorta di nefandezza…fino a che anche la matrigna si persuase della sua malvagità e cominciò a trattarla come sai. E Cenerentola si convinse che lo specchio funzionasse male non per un mio errore, ma perché non aveva raccolto tutti i pezzi di vetro. E’ per questo che spazzava, per questo lo fa ancora…”
FINE
Anna Maria Dall’Olio
Sezione A, accetto il regolamento
“Spazza i passi dei pazzi dagli spazi della follia”
La corda si spezzi
strizzi strazi strozzi i tuttavvezzi
nel vuoto della stanza
nulla prende più della distruzione
non aghi in sozza danza
per la luce ai vortici, passione
per la morte, costanza.
Sandro cade in pezzi, cade in pezzi.
Pezzo pazzo zeppo di zeta che come una zanzara svolazza e zac! Punge.
Sezione A- Accetto il Regolamento
Quel grammo di gaudio
E tu avevi sempre inseguito il senso
della vita. Avevi sviscerato ogni
fibra dello spirito per capire.
In realtà non c’era da capire.
Quel grammo di felicità sarebbe
bastato. È nelle semplici cose
dei dì: un libro, un amico, un sorriso
un abbraccio, un bacio ed un gentile
gesto. Quello è il grammo che basta
per esser libero dall’interiore
affanno. Grammo di felicità.
Sezione B- Accetto il Regolamento
I SUOI CIUFFETTI ROSA
Mi ricordo i tuoi ciuffetti rosa e quel viso di bambina.
Oramai sei signorina, così distanti i nostri mondi. Tu non riesci a parlare ed io che mi nascondo dietro il tuo silenzio.
Non incolpo il tuo dolore, ma la causa è il mio errore.
Ti ho dato tanto amore, ed ancora lo conservo nel mio cuore per te; ho la speranza che un giorno tu, riuscirai ad esprimerti con il cuore. Quando eri piccola, avevi solo due anni e mezzo, cominciai il secondo lavoro per esigenze economiche familiari che ho smesso solo oggi dopo dieci lunghi anni…cosa ho guadagnato? Che il nostro rapporto ho smarrito.
Forse sarebbe accaduto ugualmente, perché i tredici anni sono anni particolari; sono gli anni di passaggio da bambina a donna.
Ricordo i ciuffetti e i capelli un po’ mossi. Ricordo i vestiti da bambina, sembri una bambolina. Soprattutto ricordo il tuo amore…quando si giocava o ti cambiavo il pannolino.
Le insonni notti con le colichette o il dolore gengivale…quanti ricordi si intrecciano nel mio cuore.
Ripenso a quest’oggi quando in automobile ti accompagnavo, quanto silenzio fra noi due.
Tu seduta sul seggiolino posteriore con il cellulare a spippolare, ed io alla guida cercando di domandare…ma il tuo silenzio era il più roboante del rumore.
Vorrei domandarti mille cose: della scuola delle amiche e se ti piace un ragazzetto, ma rimango avviluppato in questo silenzio e proseguo con la guida.
Vorrei dirti che pure io con mio padre non ho avuto un rapporto ma di lui non ricordo l’amore, solo il rumore delle botte nel mio cuore…
Qualche rimprovero e sculacciata non lo nego te l’ho data, ma era per amore non per causarti il dolore interiore.
Ma non è quello che ha provocato il tuo silenzio; chi sa cos’è quel malumore che affligge la tua anima.
Vorrei tanto che tu parlassi…sono qui “tutto orecchi” come in gergo si usa dire. Sono pronto ad ascoltare come un amico, anche se sono solo tuo padre.
Quel tuo silenzio il cuor mi ha straziato; forse anche il tuo cuore lo è. Il tuo cuore è giovane ed ancor più dolente del mio; sai ci son passato anche io da quel dolore che ti brucia dentro il cuore. “Ti amo!” vorrei dire, ma il tuo seno non è pronto a capire. Continuo a guidare pensando a quel l’unico silenzio che sento. Tu cammini a testa un po’ bassa ed il mio guardo hai quasi paura ad incontrare: non mi guardi!
Sbaglio forse io a lasciarti andare, ma ho paura che se ti fermo potrei causare ancora più dolore. Anch’io ero fragile e sensibile, quindi capisco il tuo penare…Lascio in fondo al mio cuore una lucina di speranza che prima o poi forse riuscirai ad amare questo padre introverso che sapeva poetare.
Vorrei gridarti: “figlia, amore mio, io lo so bene che la vita non è solo qualche verso; nel cuore si deposita tanto dolore che per tutta la vita sarà zavorra. Figlia non temere, un dì sarai donna e madre e saprai quanto la vita sa far male ma nel tuo cuore coltiva sempre quella luce che si chiama: amore.”
AROMA GUERRIERO
Tutto dipende da cosa scriviamo
sui fogli bianchi che ci sono dati.
Con te la Bellezza
ha saputo di chiamarsi Bellezza;
la Donna di chiamarsi Donna.
Non c’è nulla che abbia più di te;
di tutto hai tutto,
e Tutto si compiace in te.
Generi e regali frumento
del quale tu stessa ti nutri;
le tue mani preparano
pane e regni,
offerti per cene che durano una vita.
Il vino speziato dei tuoi occhi
riempie il vaso d’argilla
così come la coppa dorata.
Passano i venti e le tempeste
e nulla di te portano via,
né l’acqua che ti scorre nel sorriso,
né la spuma dall’aroma guerriero
che feconda la tua vita.
Accetto il regolamento, sez. A.
Angelo Napolitano
CANTO NOTTURNO DI UNA VAMPIRA ERRANTE NELL’ASIA
Che fai, pallida luna in ciel,
mentr’io affamata, assetata,
per la notte vago?
Sai tu, che sorgi la sera e vai,
contemplando i deserti,
quanto sappia d’anime amare
il sangue notturno?
Sangue furente, fuggiasco, furtivo.
Sangue prostituito.
Sangue bavoso e sbavante.
Sangue lacrimante.
Sangue alcoolico, sangue drogato, sangue morente.
Sangue assassino.
Se ancor non sei paga
di riandare per sempiterni calli,
ebbene io lo sono, casta sorella.
E quindi, qui e ora,
nella Kandahar assolata e silente,
dove solo risuona del Qu’ran il canto,
nascosta nell’ombra calda del burqa,
mia privata notte,
un breve turbine di vento che la stoffa mi prema sul petto
e del mio corpo sveli l’incanto,
attendo.
Poco più di nulla, ma basterà
perché lui, taliban, dimentichi:
La sua brama di martirio.
Il giuramento davanti al Libro.
La cintura esplosiva.
Quella sposa bambina che ogni sera bastona e possiede
E allora mi seguirà, docile agnello
nella rosea distesa dei papaveri,
conficcati nel campo
come denti nel collo.
Poi arriverà il buio e tu lo veglierai,
lattescente luna
che del tuo mistero, quella notte,
l’errante pastore hai assetato.
FINE
Sezione a, accetto il regolamento
Sezione A- Accetto il Regolamento
Mani
Per scrivere poesie
devi sporcarti le mani
devi sanguinare
rimuovere i guanti
ed esporre il tocco
senti ogni ciottolo
senti ogni tocco
come motivo per esplorare
apri le vele della nave e parti.
Andare via
partire per chiudere
partire dal futuro
partire dal passato
per arrivare al presente.
Ti senti come spina della rosa
che provoca un sanguinamento sulle dita?
Senti l’inchiostro atterrare sul taccuino
che crea distrugge trasforma?
La pagina è argilla
l’unica cosa che vuole
è toccare, manipolare.
© Franco Carta
Sezione B – Accetto il Regolamento
Sogno
«Ma il sogno è più completo della realtà, mi annega nell’incoscienza.
Ahimè, quei sogni che non finiscono mai, portandomi sempre chi in realtà non può stare con me»,
pensava Maria, ancora sdraiata tra le lenzuola, pulite e profumate come le lavande della Provenza.
Allungò i piedi, si stiracchiò e rimase immobile ancora un po’, desiderando le sensazioni che provenivano dal sogno nel sonno più profondo.
«Si sono incontrati nel cuore della notte, quello era il momento», pensò tra sé, «ma non si lasciò sfuggire l’occasione sacra di amarlo».
Arrivava quasi sempre trafelata, con nella mano destra una cartella dei progetti… Nell’altra la sacca di nylon.
Era iperattiva senza tempo per niente, amante delle arti visive, taccuino appresso.
Una notte, Maria si trovava nella stessa città, fisicamente vicina a Gianni, e gli apparve con indosso solo le mutande.
«Che sorpresa!»
Maria si asciugò gli occhi, sentì il cuore che le batteva forte tra i seni…
Lui la spinse dolcemente affettuosamente più vicino al muro su un materasso singolo posto accanto al letto del nipote che gli aveva generosamente prestato la stanza, e senza che lei toccasse nemmeno o quasi il suo corpo denso e caldo…
Gianni scomparve all’improvviso nei secondi che seguirono.
Maria era sorpresa e stupita. Lo notò ansioso in questo aspetto. Non sarei venuta a trovarlo così in mutande, se non fosse stato per il desiderio che provavamo entrambi, pensò tra sé.
Il giorno dopo, al risveglio, pensò a tutte le nitide sensazioni che aveva avuto durante quel incontro, anche perché non c’era intimità per loro nelle difficoltà della vita quotidiana.
Lo sentiva lì ed era quello che contava e si riaddormentò. Indiscutibilmente desiderandolo.
Di tanto in tanto si vedevano in sogno, lui com’era: corpo alto e snello con muscoli sodi, ampio sorriso, movimenti rapidi e affettuosi, capelli non rasati sulla fronte, carnagione chiara.
«Vieni, sdraiati accanto a me», chiamandola a un’altra notte d’amore, rilassata su un’amaca.
Maria si sdraiò dolcemente, poteva sentire la spezia, l’odore, qualcosa di caldo prendere il sopravvento su quel momento quasi virtuale.
Sapevano che sarebbe stato veloce e intenso.
È un poeta, un poeta iconico.
Maria appoggiò la testa sulla sua ampia spalla, e tanto bastava, lui ancora in giacca e cravatta, non nudo come le era apparso nei sogni precedenti.
Non si vedevano molto quotidianamente, ma sentivano di essere nel piano etereo, contavano l’uno sull’altra e si rivelavano ogni notte. Più si vedevano, più si dichiaravano.
«Ti amo», e si baciarono come esseri sicuri che l’uno fosse per l’altro, perfetti amanti.
«Ti voglio sposare», e continuarono a baciarsi, appoggiati a quel sedile su un volo che transitava tra le nuvole bianche di un’isola della Grecia meridionale, ben nota a entrambi…
«Guarda Gianni, guarda attraverso la finestra… lì, proprio lì… puoi vedere tra quel campo di calcio e l’uliveto, era casa mia, la casa dove ho vissuto per dieci anni.»
Maria indicò il posto a Gianni, come se volesse prendere spazio aereo…
Gianni la riprese tra le sue braccia, baciandola appassionatamente.
Lo spazio tempo di questa storia era lo stesso, incostante, eppure Maria andava in camera sua tutte le sere con sempre la stessa domanda…
Era con il suo amore onirico o no?
Non lo sapeva.
Nulla era prevedibile in senso cronologico, l’ultimo era avvenuto in un isolato di una sconosciuta città, con case basse e colorate, lui viaggiava come al solito… i passi davanti a sé.
Sapevano di essere lì, si sono visti e si sono avvicinati… Gianni l’ha presa tra le braccia, lei voleva resistere lui ha insistito.
Avvicinandola a sé mentre a poco a poco cedeva…
Nostalgia, era nostalgia…
Non aveva dubbi e non sapeva neanche spiegare cosa pulsava nei suoi pensieri.
FINE
© Franco Carta
Sez. A
Accetto il regolamento
VERSO L’IGNOTO
Un solo, grande bivio
senza segnalazioni,
una sola speranza
di scegliere la via.
Laggiù, verso la spiaggia,
s’allungano le ombre
e battono le onde
sull’umida battigia.
Là salpano i battelli
verso la meta ignota
e trasportano un popolo
sulle onde tempestose.
Non ci sarà perdono,
non ci sarà ritorno.
Rimane la speranza
nel mondo dell’ignoto.
Alban Alessandro
Accetto il regolamento
Sezione A poesia:
Anelito negato
Come il fantasma
Delle onde che
S’odono in una conchiglia
Come l’essenza
Dell’erba che
Martire cade sotto la falce
Come il sospiro
Della brezza che
Languisce il corpo distante
Stilisticamente non banale, con quei “come” senza un termine di paragone esplicito. Avrei scritto lambisce al posto di languisce.
Roberto Marzano
Accetto il regolamento
Sezione A poesia:
CAMERE OSCURE
In preda al disordine, alla costernazione
spiegavo la nebbia ai privi di vista
ai tavoli inclinati dei bar di terza fila
dai flipper assordanti di luci fioche.
Bambole d’organza tribolano immobili
su copriletto ocra in finta seta
piccole camere oscure appese a un filo
su nuove strade sei piani più in basso.
Bicchierini d’anice disincrostano accidia
ferraglia rugginosa china al tormento
calendari ingialliti da fiati grevi
gemme d’ambra corrose dal lamento
di vecchie credenze impiallacciate
infestate da fantasmi in carta crespa
con le puntine agli occhi, allo sprofondo
in cassetti pregni di pece greca…
Ehm… si parla di case chiuse, giusto? (se non è così mi perdoni!) Seconda domanda: dai flipper o ai flipper?
Vito Bologna
Accetto il regolamento
poesia
SE IO FOSSI POETA
Se io fossi poeta
stanotte non dormirei
la luna ammirerei
le stelle conterei.
Se io fossi poeta
coglierei un fiore
in un attimo d`amore
ti donerei il cuore.
Se io fossi poeta
sarei piu vivace
con il mitra che tace
parlerei di pace.
Se io fossi poeta
scriverei che la vita
si gioca su tre dita
e nessuno l’ha capita.
Se io fossi poeta
scriverei un sonetto
senza alcun difetto
per un mondo non perfetto.
Se io fossi poeta
scriverei come Ungaretti
Cesare Pavese
Vito l`Alcamese.
Se io fossi poeta
cosa che non sono
con un grande suono
vi chiederei perdono.
lascerei questo pianeta
di illustri analfabeta
di gente sempre inquieta
Se io fossi poeta.
@Vito Bologna
Accetto il regolamento
Sezione A poesia:
Follia
Vive in me
La follia
Follia d’amare
senza remore
senza confini
Intessuta da fili di seta
Ordita da mille colori
Disegnata ai confini delle stelle
Sotto una luna guardinga
e sorridente
Ogni parte cerca un ruolo
Le mani lavorano i fili
I piedi scambiano i licci
Intrecci di una vita vissuta
O un futuro da scrivere
I colori infestano
Vivaci e brillanti
Follia di un cuore
Si nutre di luce
Tra disegni da realizzare
O nuovi modi
di intessere passioni
Ilse Atzori
Ines Zanotti
18/6/2023
DEDICA A UN MAESTRO
DI GINNASTICA DOLCE
“S’appresta a dirigere
con i gesti del silenzio,
l’aria che disegna e anima
i suoi volteggi.
Le mani creano dai respiri
dolci ghirigori a:
raccogliere,
sbocciare,
accarezzare,
elevare,
offrire…
Il suo corpo sa emanare
una leggerezza sublime
e lo sguardo s’affaccia
ora alla terra
ora al cielo.
Ondula con l’esempio
un’armonia che travolge
di pace e soavità.
Elargiscono gaudi
gli animi a lui affidati,
gentile gratitudine!”
Sezione A – Poesia Accetto il regolamento
Accetto il regolamento, sez. A
Sveglie come grilli
All’albeggiar del tramonto dell’impero(1)
vecchi cinesi tenevano dei grilli
in scatoline (2)
Io giro e rigiro la mia Prim
Batte? non batte? il cuoricino (3)
Il povero rame lo ospita
tra schegge verdi e azzurre.
E che dire di questa Ritz? … la piccola
quanta fatica, animula
nel muovere i primi passi.
1)”La leggiadra mestizia che informa la poesia dell’età augustea richiama quella dei poeti dell’epoca Tang…Perchè questo? Forse perchè le nazioni che per un lungo periodo di tempo sono o credono di essere tutto il mondo…mancano di termini di paragone…sembrano destinate fatalmente a ricadere su se stesse.”(Alberto Moravia)
2)Terzani in “La fine è il mio inizio” scrive: “si voi eravate bambini. Era bellissimo! Tu pensa, un popolo che dedica il suo tempo – Mao avrebbe detto che «spreca» il suo tempo, e in parte non aveva torto – ad allevare i grilli fuori stagione per poter sentire d’inverno, quando fuori nevica, la voce della primavera. Perché il grillo dove sta? Sta al caldo, in una piccola zucca vuota, che è la sua casa, nella tasca interna della tua giacca. Il tappo è d’avorio intarsiato o a volte anche di giada, bellissimo.Tutti questi erano i divertimenti dei manciù…”
3)Virola? pitone? l’inizio e la fine della spirale(il cuoricino).Il bilanciere e lo scappamento…che trasmette energia in cambio di regolarità, continuità in cambio di discontinuità.Roberto Calasso ne “L’innominabile attuale” cita Simone Weil:”a partire dalla Grecia, la scienza è una sorta di dialogo fra il continuo e il discontinuo”
Prim è un marchio appartenente al conglomerato ceco Elton Hodinarska,nato nel 1949 e dedicato alla produzione di orologi inizialmente riservata all’esercito .Tra il 1955 e il 1956 la produzione fu estesa anche in ambito civile.
Ritz è il nome di un’azienda italiana…difficile saperne di più.
Sezione A – Accetto il regolamento
In Utero
I
Volevo vederti sgusciare
dal lento disfarsi della carne
ma ti sei ripiegato come feto
dentro il peso dei tuoi anni.
Sei un granello fuori dal
filo di sabbia che
scorre in questa folle clessidra.
Percorresti tutta la
linea sulla mano
dove ti sei accorto che
il tempo non era più tuo.
Fosti il nido
che mi ha reso volo
lo scheletro su cui
nasce la mia terra
quella sposa folle dentro l’anima.
II
(Conservo ancora il sapore amaro
del tuo volto liberato).
L’arco dell’alba puntò al paradiso e
il sole si sfranse sulle foglie appena nate
soltanto parole interrotte intorno a te.
(E non ho capito
cosa mi ha dilaniato di più
l’averti perso
o vederti perso nei tuoi
ultimi respiri).
Ma nessuno
se ne va davvero.
III
Vorrei ingoiare i tuoi occhi
questa vernice scrostata
dalle mie scarpe da viaggio.
Ti accolgo come primogenito nella
vetta che non compare ancora
mentre mi inerpico nel mondo.
Sono il tuo seme fermentato
il sottile aroma del turibolo
l’alito emesso nel ventre di mia madre.
Mi hai circondato come placenta
idratato la pelle
protetto il cordone ombelicale.
Eri il mio liquido amniotico
il sorriso che merlettava l’anima
adesso
un sentiero che vaga e
non si perde mai
mio tempo
mio colostro di terra.
A Barbara
Cercotrovo
Non di torba pozza, ma di foglia motile
in teca curva d’extra sistole
è il carme, sí che sgomina al rondone
affestato a cipria pomice
Dal pié del coro sbalugina carrube,
grodaglia di rigerbera
come fune dell’enigma
e sugli sguanci d’impelaghi strinati
da sbaciucchi boccaccesi
la corefora aggronda sentivento
e di pistillo m’attufo
in cercotrovo
Accetto il regolamento e quant’altro vi è da accettare, sez. A
Solo a me ricorda nello stile le poesie di Thea Matera?
Sezione A, accetto il regolamento
MORIRE PER IL BENE DEL POPOLO SOVRANO
(Poesia dedicata alla guerra di difesa dell’innocente Ucraina)
La chioma fluente,
i folti capelli biondi
erano come il sole
e lui era ritto sul monte
con la spada tratta,
aspettando la gloria
e l’ora della battaglia,
con dietro la sua schiera
di barbuti e capelluti
soldati volontari ed eroi,
per ricacciare il nemico
oltre il sacro confine
della Patria da esso violata
con codardia e ingiustizie.
La vittoria sarà nostra,
disse l’alto cavaliere
scesa dal bianco cavallo
mentre pensava ai figli,
che se non fosse tornato,
un padre eroe avrebbero
avuto, come tanti eroi
che innocenti difendono
la loro gente dai barbari
e dai loro crimini di guerra.
Montecosaro, 23 giugno 2023
Vincenzo Giusepponi.
Sezione B. Accetto il regolamento.
IL GIOVANE PERSEGUITATO
Conobbi una storia triste, ma interessantissima.
Viveva in un Paesino sperduto tra i monti un giovanotto un po’ matto che veniva da una famiglia proletaria in cui c’erano stati altri casi di mezza pazzia.
Questa famiglia era rispettata come onesta da tante altre famiglie e persone, ma alcune famiglie e persone invece odiavano tutti i componenti di quella famiglia perché dicevano che erano pazzi criminali, stupidi, trasandati e gente da carcere, o da ricovero.
Questo giovane era sempre deriso e insultato dagli alcuni giovani del Paesetto e aveva preso anche il complesso di inferiorità, l’incertezza psicologica e la fobia di passare davanti al bar di piazza quando c’erano i giovani più scalmanati e viveva della bassa pensione di invalidità che aveva, nonostante alcune famiglie che odiavano la sua lo avessero ostacolato quando fece la domanda di pensione all’INPS, perché non volevano che si sapesse che era insultato e ricattato da diverse persone cattive in Paese, che erano i soliti prepotenti che comandano in ogni quartiere, o Paesetto ed erano uomini adulti e anche giovanotti, oltre ad alcune delle loro mogli che non erano migliori di loro.
Il ragazzo a 18 anni prese la patente di guida dell’auto e la famiglia glie ne comprò un’utilitaria di seconda mano. Quando in Paese si seppe della patente i soliti malvagi maldicenti si scatenarono contro il povero giovanotto e lo insultavano di più dicendogli che era un criminale a guidare l’auto con la pazzia che aveva e invece aveva il certificato medico psichiatrico e il permesso della scuola guida.
Ne lui, né la sua famiglia avevano mai avuto guai con la legge e quindi poteva avere la patente di guida.
Dopo avuta la patente questo giovane portava con sé i suoi in auto per andare nei Paesi vicini a fare la spesa, per una gita di un giorno un po’ più lontano e qualche volta per andare a passeggio nella città vicina.
I malvagi caporali che lo odiavano avevano fatto tanta maldicenza cattiva contro di lui che le ragazze avevano paura di accettare la sua corte e così non aveva mai filato con nessuna, né in Paese, né nei comuni vicini.
Quando passava con la sua piccola utilitaria per il Paese spesso qualcuno dei cattivi prepotenti lo perseguitava insultandolo frequentemente e per questo preferiva guidare verso i Comuni vicini, dove conosceva poca gente e i prepotenti che lo odiavano erano pochi.
Però questi continui insulti avevano fatto peggiorare molto la sua stabilità mentale, già compromessa fin dalla nascita per ereditarietà e lo psichiatra gli aumentò le medicine per stare tranquillo.
Un brutto giorno guidava molto agitato dopo essere stato insultato per l’ennesima volta dai caporali locali e per malaugurato errore travolse e uccise una donna del Paese.
Il verbale dei Carabinieri fu preciso e gli tolsero la patente per due anni, ma era stato un delitto colposo.
I soliti maldicenti del Paese dicevano sempre in giro che era stato invece un criminale e non era solo un errore, perché i mezzi matti non devono guidare, ma tacevano sempre che erano stati loro a farlo sbagliare alla guida quel maledetto giorno di primavera.
Quindi il giovane andò in depressione e le cure psichiatriche furono più frequenti, ma sempre con la mutua. La sua famiglia già soffriva per gli insulti che i maldicenti del Paese facevano sempre contro il giovane e anche contro di loro, suoi parenti stretti, quasi come fossero gli scemi del villaggio.
Quando la cura antidepressiva dette i sui frutti ed era passato qualche mese dal funerale della povera donna travolta il giovane non si ricordò di non passare a piedi davanti il solito bar centrale di piazza del Paesetto antico e ovviamente i giovanotti lo insultarono come sempre con mezze parole e anche con parolacce intere.
Stavolta però, dopo tanto tempo che era chiuso in casa, speravano di averlo allontanato dalla vita civile del Paese e si arrabbiarono molto vedendolo passare per piazza come fosse un ergastolano pericoloso e mezzo matto evaso dal carcere di massima sicurezza.
Così due o tre giovinastri lo avvicinarono e a spintoni lo minacciarono di rinchiudersi in quella fogna che era la sua tana-casa, insieme con i suoi familiari brutti, cattivi e mezzi matti.
Allora il giovane perse le staffe e dette uno schiaffo a uno dei giovani prepotenti che lo spintonavano. Non lo avesse mai fatto. I giovani teppisti cominciarono a picchiarlo selvaggiamente e senza pietà e la vittima cadde a terra cercando di ripararsi dalle percosse. Uno dei picchiatori gli diede un calcio sulla testa mentre era a terra dolorante e lo uccise sul colpo.
I giovani picchiatori scapparono e qualcuno chiamò un Medico e i Carabinieri, ma il giovane perseguitato era già morto.
La famiglia della vittima pianse molto e fu aiutata un po’ di più da alcune famiglie buone del Paese.
Al processo i giovani furono quasi tutti condannati a pochi mesi ed essendo incensurati con la condizionale uscirono subito di prigione, meno che il ragazzotto che aveva sferrato il calcio mortale che fu condannato per omicidio preterintenzionale e con le attenuanti andò per quindici anni in prigione, ma per buona condotta uscì dopo solo 10 anni e si diceva in Paese che era stato raccomandato da persone ricche e potenti, come anche gli altri picchiatori scarcerati subito, anche se erano tutti e quattro solo operai e di famiglie proletarie come quella del semi pazzo perseguitato e poi ucciso in atto di rabbia in una colluttazione.
MORALE DEL RACCONTINO:
Ora io direi che questi malvagi persecutori dovrebbero essere controllati meglio, possibilmente prima che commettano danni irreparabili, o comunque gravi, ma so che non è affatto facile lottare per un mondo migliore.
Montecosaro, 07 maggio 2023
Vincenzo Giusepponi.
ACCETTO IL REGOLAMENTO
Sezione A
La Vestale degli Inferi
Appena sotto il collo l’orrido tatuaggio
un caprone satanico sulla pelle diafana
e lei vibra del più feroce heavy metal condito di alcol
niente cuoio e pelle, maquillage essenziale
Ha retto a lungo prima di divorziare
il volto sconfitto dagli ematomi sulla cute alabastrina
il fondotinta umiliato
le povere maniche a coprire braccia fiorite di ecchimosi
Arriva ai concerti più violenti
è fiera dell’elegante chioma azzurra
l’anima gronda birra e furenti bestemmie
s’inebria di accordi brutali e saluta chiunque
Sfiora con garbo i miei boccoli argentati, sorride
la sua gentilezza sfiorisce presto
nel turbine di turpiloquio al doppio malto
e sigarette frettolose e disperata blasfemia
Rimane ancora, qualcuno l’ascolta
freme di confusi monologhi e rabbia sacrilega
tabacco illimitato e la voce tremante
scossa dalla devastante ebbrezza.
La Vestale degli Inferi percorrere l’orlo del dirupo
fino alla collina di erba verde pallido ed inquietanti fiori dorati,
sotto il cielo ambrato con squarci di azzurro scuro
che occhieggiano dietro le nuvole fuligginose.
Organizziamo un incontro tra la tua vestale e la mia vampira?
L’ho vista in azione più volte, altamente sconsigliato se ci tieni all’integrità della tua vampira, credimi sulla parola
Enrico Ravasio
sezione B
Accetto il regolamento
Il ciottolo
Eravamo sul greto del fiume, oltre la macchia di bambù, sotto il sole e con un caldo asfissiante.
“Perché guarda per terra, Mr. Hiouj?”
“Cerco un ciottolo perfetto”.
“Non esiste un sasso perfetto perché non esiste la perfezione”.
“Forse lei ha ragione, ma proseguirò per un po’di tempo”.
Sbuffai; il mio contratto di assistenza personale richiedeva estrema pazienza.
“Lei non è tenuto a stare qui, dietro gli alberi c’è un piccolo chiosco e può aspettarmi là bevendo un caffè, una bibita o guardando il telefono, abbiamo tutti una parte di dipendenza. Una mezz’ora, non deve diventare un’ossessione”.
”Intanto lei cercherà il ciottolo perfetto. Per mezz’ora”.
“Esattamente. Le sembra stupido?”
“Francamente si, Mr. Hiouj”.
“Forse ha ragione anche questa volta”.
Sorrisi.
“Tre quarti d’ora Mr. Hiouj, poi me ne vado”.
“Più che ragionevole. A dopo”.
luciano tarasco
sezione A
accetto il regolamento
AZZURRO CIELO
Del semplice filo
da torcere, non
uno spago, una gomena
raggomitolati
nei boccaporti,
del semplice filo
dentro la cruna
delicata d’Arianna
per ricucire i lembi
tirare le reti
gettare i remi
a lustri alterni
la scialuppa
sul grande cargo
imbarca acqua
io sono la sentinella
tu la mia stella
e teniamo teso
e terso
il nostro ultimo
azzurro cielo.
Avviso ai naviganti: la poesia di A. Arecci del 26 è stata inserita prima di quella di A. Alban del 16 (perlomeno per me è così)
Mario Borghi
Sezione B
Accetto il regolamento
Eptacaidecafobia condominiale
Egregio signor amministratore,
questa mattina, a causa del forte vento, un vasetto di fiori dell’inquilino dell’interno 8, il solito che lascia oggetti incustoditi sul terrazzo, sempre lui, ha mandato in frantumi il vetro della finestra del bagno nell’appartamento in cui abito, in affitto, situato al terzo piano, interno 9.
Per farla riparare, ho chiamato immediatamente un falegname-vetraio mio amico il quale, però, non riusciva a smontarla perché c’era il lavandino di mezzo – lei sa quant’è piccolo il mio bagno – allora ho dovuto chiamare un idraulico – mio fidato conoscente – affinché rimuovesse anche il lavandino. Visto che non era stato preventivamente chiuso il rubinetto principale dell’acqua, a un certo punto il bagno ha iniziato ad allagarsi. L’idraulico così è scivolato e ha sbattuto la testa sul pavimento, dov’è rimasto privo di sensi, abbracciato al lavandino che stava smontando. Io allora sono corso subito giù nell’atrio a chiudere quel rubinetto, ma ho dimenticato le chiavi di casa e un’improvvida corrente d’aria ha fatto sbattere la porta d’ingresso, chiudendomi fuori; dopo avere suonato per mezz’ora il campanello, visto che nessuno mi apriva, senza pensarci due, volte ho chiesto al vicino dell’interno 8 un’ascia e sono finalmente rientrato nell’appartamento. Comunque, poiché l’idraulico continuava a giacere immobile, però respirava e gli batteva il cuore, sempre abbracciato al lavandino, sul pavimento del bagno, bloccando il falegname-vetraio, che stava iniziando a dare segni d’impazienza perché non riusciva più a muoversi e aveva un sacco di cose da fare, ho chiamato un’ambulanza. L’unico modo per tirare fuori entrambi, e soprattutto per caricare quanto prima l’idraulico sull’ambulanza prontamente arrivata (e sulla quale è stato infilato ancora abbracciato al lavandino), è stato quello di abbattere la sottile parete che separa il bagno dalla cucina e passare da lì. Siccome sono muratore, non ho avuto problemi. Avrei, sì, potuto far uscire tutti dalla porta del bagno, però lei sa quant’è stretto il mio corridoio, oltretutto è a “L”, quindi avremmo avuto difficoltà nello svoltare con l’idraulico abbracciato al lavandino, sicuramente ci saremmo incastrati, così abbiamo preferito non rischiare. Tenga quindi presente che le sbeccature, e i segnacci, presenti lungo le pareti del vano scala sono dovuti al passaggio delle persone di cui sopra, che sono dovute scendere a piedi – lei sa quant’è piccolo l’ascensore.
Le scrivo dunque questa mail, gentilissimo geometra, anzitutto affinché voglia provvedere con cortese sollecitudine – preferibilmente entro oggi venerdì 17, ma non per superstizione – a informare il padrone di casa di quanto le ho appena scritto, non lo faccio io in quanto abbiamo litigato per via di una vecchia storia di tapparelle. Poi le sarei grato se vorrà procurarmi un lavandino provvisorio per il bagno e alcune tavole per chiudere l‘apertura lasciata dalla finestra. Le assicuro che provvederò a sistemare tutto nel minor tempo possibile, compresa la parete sottile che separa(va) il bagno dalla cucina.
Infine, consiglierei di far controllare i tubi condominiali del gas, perché sento un fastidioso odore provenire dalla parete che ho abbattuto e vorrei che venissero scongiurate eventuali espl
BELLISSIMA! L’HO LETTA IN AUTO MENTRE IL SEMAFORO ERA ROSSO ADESSO È VERDE RIP
Monia Minnucci
(Dichiaro di accettare il regolamento)
Strade altrove
Silenzio,
Di atroce sguardo espelle
La corvina pelle,
Un livido,
Una carezza,
Di esatta intolleranza
Mi hai lastricata,
Come strada d’altrove,
Di indirizzo perso,
Sotto un lume fioco
Di un universo terso.
Acqua pallida,
Acqua esordiente,
Ventaglio di luce
Che il sole arrende
E ritornano i sassi dei ricordi,
Le mani gelide,
Dentro tiepidi ieri,
Vuote oggi.
E piovono tarantole,
Su quest’uomo isola
E qualcun altro Atlantide.
Beatrice Di Paola
Avvicinati
Avvicinati.
Non avere paura.
Voglio abbracciarti così forte da toglierti il respiro.
Il mio corpo sta cercando il tuo.
Spogliati e distenditi accanto a me, abbandonati alla passione.
Le mie dita ti accarezzano dolcemente, ridisegnando il tuo corpo sinuoso.
Il desiderio aumenta lentamente e si fa strada tra di noi.
Anche tu mi vuoi.
Un’attrazione senza fine, una danza sensuale di due corpi nudi che si parlano.
Voglio sentirti fino in fondo, voglio abbracciare la tua anima ed essere parte di te.
E all’improvviso un’esplosione di intenso piacere.
Il cuore esplode di una gioia incontenibile.
E cado abbandonata, consumata dal peccato.
Un pianto di felicità si impossessa di me.
Accetto il regolamento.
Sezione A
Patrizia Amalfi – Sez. A
Accetto il regolamento
Sono di Pietra
Riconosco i suoni della quiete
e le voci argentine che bucano il tempo
non chiedo e sbaglio direzione.
Come vortice s’avvitano i miei anni
legati ai bottoni
ai lacci delle scarpe
allo scialle fatto a mano
per i giorni di primavera
quando si usciva in fretta
e si tornava tardi
ubriachi di vita.
Cerco e scavo a mani nude,
assetata di benevolenza
lascio che le dita interrate
sfiniscano l’eco
di un rintocco di vita
depositato nel labirinto del cuore.
Eppure
da lontano
un vento insolente
solleva il velo dal petto
a mostrare i miei occhi di pietra
impigliati ai rovi del passato.
Del senso e del nonsenso
raccatto gli estremi tentativi
di una ragione che non ha più ragione.
Ed è silenzio.
Però… molto intensa ed evocativa. Solo un appunto: perché “… solleva il velo dal petto” e non “… solleva il velo dal volto/viso”? (visto che prosegui con “… a mostrare i miei occhi di pietra”?)
Sezione A Accetto il regolamento
Ed allora guardati dentro e ascolta
Guardati dentro e ascolta
cosa borbotta il tuo cuore,
apprezza ciò che ti racconta
ad un battito e poi ad un altro.
Guardati dentro e ascolta
così vedrai e sentirai
il tuo mondo che conoscevi
ma non volevi vedere e sentire.
Guardati dentro e ascolta
cosa scorre fragoroso
tra le viscere del tuo pensiero
tra le pieghe del tuo essere.
Guardati dentro e ascolta,
al di fuori vi è il caos destruente
al di fuori vi è lo sconcerto
vi è il tutto indecifrabile.
Ed allora guardati dentro e ascolta
non attendere oltre,
dopo l’oltre chissà…….
Risvegli assopiti .
Si struggono le emozioni
su un corpo fragile hanno sorrisi irrisi ;
hanno briciole di vento
e spasmi d’ogni tipo .
Hanno risvegli assopiti
e dall’anima si ribellano …
Vogliono provare ancora
quello che una volta fu amore .
Ma oltre le alte sfere ,
tra la giungla del mare …
fra le celesti forme e irti colli ;
un vento gelido scuote il tuo amore .
È il tuo risveglio donna !
Colori fiori tenui per amori mai vissuti …
desiderati , elusi da una rosa pallida ;
sacrificati per colpe d’altri intrusi .
Pochi i sorrisi ,i languidi baci
sensazioni assopite da echi attoniti e dardi esplosi ,
dai giorni che ti hanno lapidato ;
nei ricordi tanto appassionati .
Fanno breccia nel cuore tuo
le melodie angeliche nei sogni un sentimento sale,
s’increspa nell’alveolo del sole ….
ove tu raggi le sorgive primavere .
Ed è brivido ! È rivalsa …
risveglio di palpiti innocenti ,
in attimi che esplodono nell’io ;
nessuno può fermare !
Nessuno …
L’amore è vita !
Giovanni Maffeo – Poetanarratore .
sez. A, accetto il regolamento
Non m’importa niente
Vorrei leggera librarmi
come stormo di gabbiani
e sorvolare senza pensare
la vastità del mare.
Non poggi, non vette,
non catene, solo il salmastro vento
che porti in alto le mie ali.
E dal cielo azzurrino
vorrei poter mirare
il turchino fondale.
Udrei allora, novello Ulisse,
delle sirene il fascinoso canto,
la musica del mare,
il suo dolce sussurrare.
Vedrei i rossi tramonti
ed il tenue albeggiare
e la notte incontrerei la luna d’incanto
e le stelle di giada, preziose gemme.
Incontrerei poi nuove terre
dall’onda baciate, e verdi macchie
ed arbusti vigorosi, piantate le radici in terra ferme e poi ancora nuova gente.
Ma amo te e di volare
non m’importa niente.
Serena Pusceddu
Copyright – giugno 2023
Dichiaro di accettare il regolamento.
Serena Pusceddu
L’ ascensore
18 aprile 1955.
“Buongiorno e ben arrivato!” disse il vecchio signore dai capelli bianchi.
“Ciao!” rispose il piccolo bimbo sorridente. Il vecchio signore dai baffi bianchi aveva un’aria scanzonata, ironica, saggia. Al bimbo pareva un nonno divertente, colto, sereno. Il bambino era nudo, indifeso, curioso. Il dialogo sgorgò spontaneo.
“Il mio nome è Alberto” disse il vecchio “Ed il tuo?”
“Io sono Kim, so quasi solo questo. Ignoro molte cose”
“Anch’io. Sei coreano?”
“Centro!” rispose felice il bimbo “Sei bravo, sai?”
“Oh… non molto. Dimmi: cosa vorresti fare da grande? Il calciatore? L’attore?”
“ No, vorrei diventare il Presidente delle due Coree unificate”
“Accipicchia!” si lasciò scappare l’anziano signore “Complimenti! Perché questa aspirazione?”
“Mi hanno detto che le due nazioni sono in guerra e quindi il mio popolo soffre indicibili pene”
“Sei proprio un bimbo estremamente assennato, ne nascessero tanti così!”
“Che problemi avete?”
“Molti popoli soffrono a causa di guerre o calamità naturali, ma se queste ultime sono inevitabili, le prime invece sono un monumento all’imbecillità umana. Schiere di uomini, donne e bambini soffrono e muoiono per consentire ad alcuni fortunati potenti di arricchirsi ulteriormente o di riportare effimere vittorie sui campi di battaglia. Se tu potessi stare qui, da lontano, a guardare per un molti anni due grandi nazioni europee , cosa vedresti?
Dapprima la Plancia invade e conquista una striscia della Spigna, la quale nella seconda guerra punica se la riprende aggiungendovi anche una zona del territorio dalla Plancia, la quale poi nella guerra dei cento mesi se la riconquista e penetra per 80 chilometri nella terra della Spigna, che durante la prima guerra mondiale se lo riprende. Risultato dopo mille anni? STESSI CONFINI, GLI STESSI ! Alcuni politici e generali passati alla storia, alcuni ricchi un po’ più ricchi ed un mucchio di giovani soldati morti. MORTI PER NIENTE !”
“Cosa sono i confini?”
“Sono una cosa che divide i popoli. Da quassù non si vedono, ma non si vedono neppure quando li attraversiamo. Esistono sono sulle cartine geopolitiche …e nelle zucche vuote. Triste, vero? Ma ora io devo andare, d’altronde non hai bisogno di molti consigli, sono stato fortunato”
“Perché?” “Perché hai già capito cosa significa vivere con saggezza. Molti bimbi la possiedono e poi, inspiegabilmente, perdono questo straordinario dono nell’adolescenza, per poi ridivenire saggi sul finire dell’esistenza. Se al mondo ci fossero solo vecchi e bambini vivremmo certo in modo meno doloroso: il carico di sofferenze subite ogni anno dall’Umanità è spaventoso ”
“Ma perché devi proprio andare?”
“Mi aspettano. Anche tu, d’altro canto, devi andare. Sai quale bottone premere?” “Sì! Quello con la lettera T che sta per TERRA”
“Dove ti aspettano?” “Lassù, lontanissimo, nel mondo dei più”
“Il mondo dei più? E’ pieno di addizioni?”
“No” sorrise il vecchio dai lunghi capelli bianchi pensando che però di croci era pieno “è un modo di dire. Sto per morire e per raggiungere coloro che mi hanno preceduto. Sono molti di più di quelli che si muovono freneticamente laggiù. Li vedi?” “No. Da qui non si possono scorgere”
“E’ vero. Penso che quando il mondo dei più diventerà quello dei meno, e prima o poi succederà senz’altro con l’esplosione demografica in atto, le cose andranno ancor peggio!” “Perché?” “ Mi piaci ” “Perché?” “Perché chiedi spesso “perché” ”
“Sono molto piccolo”
“Certo! Comunque le cose laggiù andranno peggio, perché già ora molti bimbi che nascono trovano, alla sosta intermedia dei cento chilometri, vuoto l’ascensore che sale e non possono ottenere le informazioni, i consigli e le raccomandazioni indispensabili per condurre una vita orientata al bene.
In un lontano futuro sarà sempre peggio, gli appuntamenti tra chi va e chi viene saranno sempre più rari. Mancherà il travaso di conoscenza ed esperienza, purtroppo!”
“Funziona così? Tu sei quello che deve accogliermi? Una vita va ed una viene?”
“Sì! C’è chi nasce e c’è chi muore, per dirla in altro modo”
“Tanto va la gatta al lardo…”
“No” sorrise il distinto signore “questa frase riguarda qualcos’altro. Comunque, non tutti i bambini nascono così maturi come te e devono avere un’accoglienza adeguata. Chissà! Forse le cose hanno incominciato ad andar storte quando le nascite hanno superato le morti, tanto tempo fa. Ma ora il tempo concessoci per conversare è terminato, addio dunque, e buona fortuna! ”
“Quale tasto devi schiacciare tu?”
“Il più alto, quello con il simbolo di un otto coricato. Siamo molto stanchi, noi anziani…e anche i nostri numeri lo sono” scherzò il vecchio.
“ L’otto è coricato perché è stanco?”
“Non proprio” sorrise il signore “non vado all’ottavo piano, ci sono tre bottoni soltanto, vedi? T , 100 e un otto coricato. Significano TERRA, 100 CHILOMETRI e INFINITO. L’ascensore che scende e quello che sale si incontrano a cento chilometri dalla superficie del pianeta, e l’otto coricato è il simbolo dell’infinito”
“Dov’è l’infinito?” “Un po’ più in là di laggiù laggiù”
“Allora ci impiegherai TANTO TEMPO!” “Arriveremo insieme”
“COOOME?” Domandò sbigottito il quasi-neonato.
“Perché e come: certo che tu fai sempre domande pertinenti. Comunque è vero. Arriveremo insieme, tu laggiù ed io lassù”
“Non ci credo”
“Potresti fare anche lo scienziato. Però di ascensori io me ne intendo. Credimi ” “ Ma non è possibile, cento chilometri in confronto al…..tutto”
“Tra la Terra e 100 chilometri ci sono esattamente tanti posti quanti tra 100 chilometri e l’infinito, quindi arriveremo insieme”
“Ancora non capisco”
“Quando tu sarai a 50 chilometri (la metà di 100) dal terreno, io sarò a 200 chilometri (il doppio di 100). I due punti 50 e 200 sono sposati tra loro o, se preferisci vista la tua giovane età, sono gemelli, collegati insomma. Come vedi ci sono tanti punti tra la Terra e la fine dell’atmosfera quanti tra questa e il paradiso”
“ BELLO!” disse Kim e, dopo aver salutato con la piccola manina il vecchio signore, schiacciò la grossa T.
Un attimo dopo a Seul nasceva un bellissimo bambino a cui fu dato il nome Kim Soo Kim, ed un attimo dopo Albert Einstein raggiungeva l’infinito.
Accetto il regolamento
Avevo intuito chi fosse Kim, ma che il vecchio fosse Einstein… Bella, si legge di un fiato, incuriositi da come vada a finire!
Amici
Due amanti passeggiano, lentamente, lungo un sentiero appartato ai margini di un bosco.
Si tengono per mano e camminano in silenzio, attenti solo al battito unisono dei loro cuori. Una foglia precocemente autunnale volteggia per un po’ nell’aria, staccata da un platano antico e si posa sul sentiero nel punto esatto dove, un momento prima, il piede di lei s’era poggiato. Tre uccellini in un nido sull’albero seguono nel canto i movimenti dei due amanti,. finché un canto più alto e solenne, un alto e solenne canto celestiale si alza da un punto celato e pervade lo spazio. Il tempo lo assorbe e lo porge ai due amanti che fermano il passo e si guardano. Ma gli occhi di lui non vedono che gli occhi di lei, già persa nei suoi, e la musica scema risucchiata da un tramonto mprovviso.
Il sentiero si chiude dentro una fratta di rovi, avvinghiati a due rocce appuntite che spuntano dal terreno indurito, come pietre miliari muschiate dall’umido.
Lui scosta, prudente, qualche ramo spinoso e riapre la strada. Dietro le rocce, strisciando per non essere punti o ghermiti, i due si avventurano per la via fatta più buia. Compaiono dal suolo ruderi di un’antica costruzione, sparsi intorno ad un pavimento sconnesso, e al centro, solitario spunta un altare (o almeno così pensa lei, sorpresa), porgendo alla vista dei due una parete di pietra istoriata. Un bassorilievo sbreccato racconta nel grigio granito una storia d’amore e di morte. Un uomo e una donna: lui dietro una porta, lei accovacciata vicino a un grande orcio panciuto; un alato cupido, scolpito nell’atto di leggere da un libro abbandonato accanto all’uscio serrato, getta uno sguardo obliquo alla donna a cui le intemperie e il tempo hanno regalato una levigata inespressività. Nell’angolo destro spunta, proprio sopra la testa di lei, una mano che tiene un coltello, ma né il braccio né il resto del corpo sono più visibili. I due amanti si accostano alla pietra e la fanciulla tocca, con dita leggere, il volto della più antica sorella e sorride. D’improvviso un uomo compare da dietro l’altare. Dormiva appoggiato alla terra e alla pietra e i due lo hanno richiamato al presente. E’ un vecchio dagli occhi spiritati e febbrili. Porta una maglia a larghe righe bianche e nere alternate e, sopra, due bretelle d’elastico consunto a sostenere un paio di brache di fustagno, piene di macchie e avanzi di ragnatele. Ha i piedi nudi e sporchi.Si erge davanti ai due subito spaventati dall’imprevista visione e comincia:
“ C’era un uomo. Sì, un uomo ispirato. Viveva nel bosco da tempi immemorabili, ma solo io l’ho potuto vedere. Un giorno io ero là e c’era anche lui, vicino a un albero tagliato e segato; fumava e guardava i pezzi di legno e ai suoi piedi c’era un’ascia lucente. In una mano teneva una bandiera piena dei colori dell’arcobaleno e la agitava nel vento, chiamando ad alta voce gli uccelli. Quell’uomo gridava nel vento le sue parole d’amore, ma non c’era nessuno lì intorno a sentirlo, né uomo né bestia, a parte me, naturalmente.
Io però mi ero nascosto dietro una quercia robusta. Non si sa mai, ho pensato. Che ne so di costui? Ma l’uomo cominciò a innalzare al cielo anche l’ascia dalla lama lucente; la bandiera e l’ascia brillavano al sole mentre lui chiedeva a gran voce accorata che qualcosa o qualcuno rispondesse al richiamo. Allora mi sono fatto avanti e gli ho detto: ehi! Ci sono io! Sono qua.
L’uomo mi ha visto ed ha abbassato le braccia; poi mi ha sorriso e una luce l’ha tutto illuminato nel volto e mentre si sedeva sul tronco dell’albero segato, delle lacrime hanno cominciato a solcargli le guance. Ha appoggiato l’ascia nel punto in cui stava prima e ha pronunciato queste parole: Finalmente quest’anima si è manifestata al mondo, e il mondo sei tu.
Nello stesso momento la bandiera variopinta, che aveva continuato a tenere nella mano, s’è come animata e con uno strattone s’è liberata ed è volata via. Ma non era più una bandiera, vedete. Era un’aquila che s’è librata nel cielo ed è scomparsa dentro un raggio di sole. L’ho seguita con gli occhi e quando non l’ho più vista sono ritornato all’uomo, ma neanche lui c’era più. Era sparito.
Era un uomo ispirato e poi sparito. O forse è spirato. Uno spirito ispirato sparito o spirato ….”
Il vecchio ha finito la sua storia e continua a ripetere le ultime parole come uno sciocco scioglilingua e ride e strabuzza gli occhi mentre lo fa.
I due innamorati lo hanno ascoltato in silenzio, un po’ spaventati e un po’ incuriositi. Si sono ripresi per mano e stanno immobili, vicini al punto che la testa di lei ogni tanto si appoggia alla spalla di lui, e una ciocca di capelli ogni volta si scompone e ricompone sulla sua fronte bianca e liscia, senza increspature.
Il vecchio pazzo solleva dalla base dell’altare di granito un sacco semivuoto, dove forse ha raccolto qualche indumento o del cibo, ma poca roba, perché è floscio e leggero. Infatti con un gesto veloce se lo mette a tracolla e si inoltra nel bosco, verso il punto più fitto.
“E se trovate l’ascia, ricordatevi che è mia. L’ho vista per primo…” E scompare tra gli alberi.
I due decidono di tornare indietro, sui loro passi, e se lo comunicano con uno sguardo. Da quando hanno imparato a parlarsi in questo modo il silenzio li accompagna e carezza i loro umori, costantemente. A loro piace e non infrangono il tacito accordo neanche per commentare la strana avventura.
Nella città ormai quasi sommersa dall’oscurità la bambina ha finito di mangiare le mele cotte che l’infermiera le ha portato alla fine della cena.
“Domani potrai vedere i giocattoli che le buone dame hanno recato per te. Sono tutti nella hall dell’ospedale, davanti alla porta dell’ascensore. Adesso è tardi e devi dormire, ma domani, appena sveglia, te li porterò su a vedere e potrai scegliere quelli che vuoi. Va bene? Adesso però dormi.”
L’infermiera rimette a posto le coperte e liscia con la mano il rovescio del bianco lenzuolo, bacia in fronte la bambina e se ne va, lasciando solo una piccola luce accesa perché non abbia paura del buio. Ma alla bimba il buio piace. Nel buio incontra i suoi amici e vede i luoghi che ama. Nel buio si accendono i suoi giorni e prendono vita le sue storie.
Stamattina molto presto, quando tutto l’ospedale s’è svegliato come ogni giorno, ha dovuto lasciare i due innamorati lungo il sentiero e non ha potuto occuparsi di dov’era finito il vecchio pazzo .Non è preoccupata; i suoi amici hanno gambe e braccia e una terra dove camminare e vivere. Ce la possono fare anche senza di lei.
Come gli immigranti in una terra nuova, la bambina si appresta ad esplorare la notte e quanto il sonno le riserva. Chiude gli occhi e dopo breve ecco che arriva la gente di qualche notte prima: quegli strani uomini che trasportano blocchi di ghiaccio. Ne faranno sculture gelate, hanno detto, e devono sbrigarsi a scaricarli e trasportarli nel luogo convenuto, altrimenti il ghiaccio si scioglie. Nella fretta camminano senza badare tanto a dove mettono i piedi e più di una volta hanno urtato i pellicani fermi lungo la banchina. La bambina ride perché gli uccelli hanno un’aria veramente seccata e fanno buffi movimenti di disappunto.
Il sonno la insidia da vicino e lei ci scivola dentro ripromettendosi di chiarire meglio la storia delle statue di ghiaccio. Quando gli occhi sono ben chiusi e il buio diventa più fitto, finalmente avviene l’incontro che sempre aspetta a quell’ora. Come sempre dall’ombra intravede lo scalpo che ballonzola appeso alla cintura, mentre l’uomo si avvicina di corsa col suo vestito di daino e i lunghi capelli neri come un’ala di corvo, intorno al viso da idolo indio.
E’ il suo amico: la prenderà sulle spalle e come ogni notte la porterà fra i fiori e le nevi, sulle onde increspate del mare e sulla cima di lontani grattacieli, solcando a ogni passo distanze strabilianti, e le racconterà ….
sez. B, accetto il regolamento
Formiche
La nera operosità delle formiche
richiama la fila ininterrotta dei giorni
che trascinano i gesti e le parole
verso un altrove misterioso e oscuro.
Portano – le formiche – un carico più grave
dei loro corpi miseramente esposti
alle barbare forze di natura.
Ma l’Ordine richiede il sacrificio
e l’armonia del cosmo poggia
su un dettato lontano, che vale
per gli insetti e per le stelle.
Così per noi, con qualche interferenza.
sez. a – accetto il regolamento
SEZIONE A POESIA, ACCETTO IL REGOLAMENTO
Siamo tutti chiusi nel Carcere dei pensieri altrui
che non vogliono saperne di entrarti dentro e vedere l’ umiltà, la pena, la tua fragilità,
perchè diveniamo carne e sangue ma puro spirito sacrale
e nessuno accetta l’eterna spoliazione dello stigma e del pregiudizio è più comodo farci
uomini di mondo che ascoltare
la silenziosa carità
perchè il silenzio è duro come un pugno in pieno viso, è assurdo, è folle andare dove ci
conduce, nessuno porta uno stiletto acuto piantato nel cuore
ma il figliol prodigo tornò al padre che semplicemente l’ abbracciò
eri perso nel Carcere dell’ odio altrui
e un gobbo indemoniato ti ha violato
per rapirti l’anima sfolgorante
ma lui non sapeva che quello non è oro
ne’ diamante solo un mazzo di gigli bianchi
fatti di lacrime e umidità , quando cadranno
usciremo da questa gabbia e non ci tradiremo più.
sezione B Narrativa, accetto il regolamento
Un immaginario Giudice Accusatore interiore prende voce: Primo, c’è il rifiuto della vita, del lavoro, del dialogo, della cultura, dei doveri civili e naturali, il Colpevole si è costruito una cappa d’ignavia, di apparentemente incomprensibile star solo in senso cosmico, di un sottile particolare stato di delirio, di una tutta sua particolare morte come negazione e rimpicciolimento, una cappa pesante… esterna ed interna. Si rifiutava perfidamente di stare assieme agli altri, il dare e avere, il dialogo, il vivere con, il partecipare assieme, il risolvere assieme, il soffrire anche, assieme… Rifiutava gli altri! Rinnegava capite? Alla fine ne è venuto fuori un circolo chiuso dove addirittura respingeva il non star male assieme agli altri! Da ciò il rifiuto dell’ esistenza, vitale superficialmente, senza lasciarsi ingannare… un vegetare era, un vegetare, egli rifiutava i fiori, l’acqua, un neonato che piange e per riuscire meglio nel suo immondo disegno, ha disintegrato l’ evidenza, ha combattuto il sapere, la scienza, la conoscenza, il chiedere, il costruire. Il rifiuto naturalmente di un’ occupazione sia pure come fatica, sia come crescita che come modifica della realtà, sia come atto di semplice stare al mondo, relegando tutto agli altri, alla Società… Rifiuto del lavoro, rifiuto dell’amore, rifiuto del rapporto creativo con gli altri, rifiuto della libertà, della speranza, rifiuto di Dio, della democrazia! Di ogni ordine etico e morale… di ogni rapporto dialettico con il respirare… Costui parla del destino, di integrazioni mancate, di comunità indifferenti, palliativi accidenti! Parla di tristezza, fortuna, sfortuna, colpa degli altri, anormalita’, normalità… dica lui ora! Quante falsità! Voi parlate di rifiuto, di mie penose giustificazioni… ma io non mi sono mai e dico mai giustificato cioè cristallizzato in una sola visione univoca! Malinconia! Società ingiusta, sfortuna-fortuna… Io invece ho sempre chiesto, mi sono sempre dato, non ho mai rifiutato in maniera infida e classista… disponibile verso chiunque, non certo fino al sacrificio estremo che non sarebbe etico e morale, se permette! È una Constatazione, sicuro, io ho constatato, non respinto! Avete uno strano modo di procedere, cambiando i concetti, il significato delle parole, sovrapponendo e tagliando ritagli di lettere, mettendo in luce soltanto ciò che vi fa’ comodo, certo. Voi dite, dite. Rifiuto del dialogo, degli altri, dell’ essere con…! Voi vedete in apparenza, controsole, non sapete proprio niente! Io, io andavo in cerca degli altri, io, volevo, sottolineo volevo, gli altri, li volevo nel senso più pieno, li accettavo. Io volevo!… dare, e chiedevo, chiedevo molto, in maniera impetuosa… Mi piaceva respirare, sentirmi, vedere, toccare, immergermi, entrare, anche soffrire, si’, fino alla pazzia! Io poi non ho rifiutato mai la cultura, avevo sete di sapere, di capire, di conoscere, di leggere anche se analfabeta, di rendermi conto, era pure un periodo inoltre che mi sforzavo di far politica, feci lega missionaria, mi iscrissi ad una associazione sportiva e fu un momento di incosciente entusiasmo, di bisogni miei e degli altri, di aiutare ed essere aiutato, altro che rifiuto del lavoro! Io intendevo il lavoro come fare, un realizzare e realizzarsi, una fatica nobile, una gioia, un’espressione pure intima ed intimista, umana, appetibile nel senso che dà pienezza non solo di stomaco. Un qualcosa che travalica il tempo ed il futuro, per questo e tanto altro io non ho rigettato un bel niente! Solo che ad un tratto, mi sono sentito putrefatto nella putrefazione, calpestato nel calpestabile, morto nella morte. Io non ho avallato coscientemente ciò che Voi chiamate cultura poiche ‘ in realtà diventa negazione, rassegnazione, giustificazione, presa d’atto di qualcosa d’inumano, di innaturale, di imposto dall’alto, di sporchi giochi di potere, di regime, il dialogo non esiste, non lo vuole nessuno, noi, quelli come me, siamo degli specchi opachi, delle lance aguzze, gente che non parla, vittime… Il giudice improvvisamente si alza: Questo è un vero e proprio tentativo di sviare, di commuovere facendosi passare per insano, infermo di mente, incomprensibile irresponsabile, violato dalla vita, sofferente e diverso. Mi dovete rispondere! È che tutti Voi che mi accusate e giudicate state recitando una falsa morale scritta apposta per chi sbaglia! Ho letteralmente sciupato me stesso nel credere e nel cercare, nel-far-si’-che ma non è successo niente! In nome di quale etica non comprendete che l’amore è un tuffo al cuore e che io quel tuffo al cuore l’ ho provato! Me lo hanno accartocciato! Continuate a chiamarlo bene, lealtà, ne avete fatto una confraternita per pochi intimi, per addetti ai lavori, una modalità maledettamente riduttiva di spiegare un vissuto personale! Sapete… mi piaceva giocare a pallone da ragazzo e avevo sensazioni… aspiravo… a una laurea in lettere o filosofia… a diventare scrittore, medico, giornalista… son diventato capo mandamento… anzi… aspiravo a qualcosa di più… molto di più… Ed io come Giudice vi dico che il guaio, il problema, il reato è il non saper scendere a compromessi con gli altri e con se’ stessi e vi condanno alla pena maggiore, all’eterna sofferenza… Bisogna proseguire in un buio che è penombra e farsi condurre dove quella minuscola luce conduce. A piccoli passi eppure continuamente e soltanto avanti. Tutto è perso ma la vita resta spesso come la maggior condanna. La realtà concreta non porterà mai a un ricongiungimento sociale, in un contesto che sempre più aborre i sentimenti, la vecchiaia, la malattia mentale, non arriverà a una restituzione, a un re-inserimento “fuori”, sociale appunto, se in esso stesso non sarà possibile una ennesima non condanna pur nell’ inferno della ferocia, solo, occorrerebbe una piccola goccia di minimale umanità in chi vi lavora sotto ogni ordine e grado per tentare di ripartire li’ da dove tutto si è disintegrato e una voce differente è uscita fuori.
UN’ORA UNA STORIA UNA VITA
È quasi ora, disse Alberto a sua moglie per ricordarle che, di lì a poco, sarebbe rientrato Renato, il loro unico, amato figlio.
Quel ragazzo taciturno e solitario che riversava nelle sue sculture, tutto ciò che non riusciva a dire.
Aveva solo 28 anni, ma le sue opere conoscevano già quella maturità spesso agognata da vecchi artisti consumati dalla ricerca di perfezione.
Quella mattina di festa era uscito presto per raggiungere i compagni di corso alla Accademia. Brera era il luogo nel quale Renato soffriva meno la pesantezza del suo animo. Là riusciva a eludere l’angoscia, quella che lo raggiungeva dappertutto, facendolo andare in affanno, anche da fermo. Questa sensazione oppressiva, Renato l’aveva raccontata una sola volta alla ragazza che, proprio quella sola e unica volta, aveva trovato la chiave per aprire la porta del suo animo, da sempre troppo serrata.
Alberto pensava spesso al suo ragazzo, agli sforzi di un giovane artista, al male interiore che lo consumava nella affannosa ricerca di affermazione, peraltro assai poco probabile, data la giovane età: “si sa”, Alberto pensava col buio nel cuore “un artista, pur bravo e completo che sia, diventa Maestro solo da vecchio… o da morto”. Già, lo sapeva bene lui, esperto fonditore, entrato alla Fonderia d’Arte milanese Battaglia all’età di dodici anni, dove aveva incontrato i nomi più importanti dell’arte contemporanea che arrivavano alla fonderia con bozzetti in cera pronti per la fusione ma che, di volta in volta, venivano “pizzicati” dagli stessi autori: nel naso, sull’orecchio o agli angoli della bocca, per creare di ogni bronzo, un’opera unica e pertanto appetibile a compratori e collezionisti.
Alla fine delle operazioni, gli scultori soddisfatti, lasciavano un po’ di soldi e uno o due bronzi a saldo del lavoro svolto, accettati molto volentieri dalla fonderia che avrebbe così arricchito la già preziosa collezione privata.
Accompagnato dagli altalenanti ricordi, Alberto uscì di casa e, per ingannare il tempo, andò in quella bella corte contadina, sopravvissuta nel centro della cittadina milanese, ove si trovava lo studio-rifugio del suo Renato.
Come era gonfia di sentimento quella stanza! Le innumerevoli opere, parevano quasi in movimento e in attesa d’essere mostrate a un pubblico che le apprezzasse.
Alberto riguardava con fierezza i bronzi che egli stesso aveva realizzato mediante la fusione a cera persa dei bozzetti del suo Renato, curandone anche la rifinitura e la lucidatura, con meticolosità e precisione guidate dall’amore.
In un angolo luminoso, spiccava un’opera in marmo bianco di Carrara, scolpito con raffinata e fluida maestria, a lato della stessa era stata posta una lastrina di gesso con il titolo: “Verso l’Infinito”. Alberto provò grande emozione immaginando la foga creativa del suo ragazzo mentre scolpiva l’opera. “Ah, quel ragazzo!” disse a bassa voce con fiera ammirazione.
Mentre si dirigeva verso la piazza cittadina, dove lo attendeva la solita panchina, dalla quale avrebbe visto da lontano arrivare suo figlio, la sua mente era pervasa da lieti e speranzosi pensieri…
Era quasi mezzogiorno e dai corridoi bui di Brera, spuntava il vociare di un gruppo di studenti, tra loro Renato, che camminava con le mani in tasca, lo sguardo basso e il passo distratto; sul viso non mancava mai uno sbiadito
sorriso di circostanza; dentro, un cuore squassato dall’angoscia che gli immobilizzava il pensiero.
Percorsero via Dei Fiori Oscuri, mentre una leggera coltre di neve ghiacciata faceva scricchiolare i loro passi, Renato salutò laconicamente mentre si dirigeva verso il treno delle ferrovie Nord che l’avrebbe portato dove suo padre lo stava aspettando.
Cosa è successo? Chiese Alberto, dalla sua postazione di attesa, a un uomo che si affrettava in bicicletta verso la vicina stazione. “Pare che qualcuno sia finito sotto il treno” rispose crudamente l’altro.
Alberto venne improvvisamente investito da un fortissimo calore e fu pervaso da un tremore bollente, ogni sua parte del corpo vibrava di terrore: si mise a correre in modo del tutto disarticolato, mentre in suoi denti sbattevano senza controllo. Quando arrivò alla stazione, il suo terribile presagio trovò conferma. Le Nord erano paralizzate e qualcuno tentò pietosamente di allontanalo dal luogo della tragedia, ma Alberto si arrestò solo quando arrivò nel punto ove, ormai, suo figlio non c’era più, aveva lasciato sulle rotaie tutto di sé, per intraprendere l’ultimo triste viaggio.
Da allora Alberto rivisse quotidianamente, e per molti molti anni, quell’ultima ora trascorsa in attesa del suo amato Renato, grande artista fuori tempo che aveva deciso di correre, finalmente libero, verso l’infinito…
sez. B accetto il regolamento
Prigionieri …
Siamo tutti prigionieri
nelle nostre torri d’avorio.
Edificate da mattoni di paura,
di dubbi che rodono
il nostro cervello pian piano
insinuandosi subdolamente …
Ad un certo punto pensi
che tutto si è capovolto.
Il bene e il male si mescolano
nel calderone della vita.
Il tempo passa tra inutili sogni
resi ancorar più crudeli
dalla consapevolezza
che resteranno tali.
Antonio Pittau, accetto il regolamento
sezione a, accetto il regolamento
UN BUCO
Ho trovato un buco
è quasi un metro cubo
Entro con i piedi
e resto in piedi
La testa è fuori
alla mercè dei tiratori
Allora esco dal buco
e mi ci tuffo con il muso
Se il mio sedere è al sicuro
resto qui nell’immediato futuro
ma poi la testa mi duole
e non sento più le mie suole
Fanculo buco
mollo e ricomincio con un rutto!
Laura Tramonto,
sezione a, accetto il regolamento
Francesca Santucci
BAMBOLA
Bambola,
occhi spalancati
contro un mondo
che non vede.
Testa senza sogni,
volto senza sguardo,
non un fremito, un sussulto,
non un sorriso, un pianto,
un gemito, un lamento.
Non un rossore
ne imporpora le gote,
non una lacrima
le sue ciglia imperla.
Non la sfiorano le stagioni,
delle dolcezze della primavera
non gioisce,
la chiassosa estate
non la sfianca,
non la emozionano
gli ori dell’autunno,
ai geli dell’inverno
non rabbrividisce.
Non la tocca il tempo,
il tempo non la intacca,
lei semplicemente sta,
fissa nella sua immobilità.
Sez. A Accetto il regolamento
CI SONO STANZE QUASI VUOTE
Ci sono stanze quasi vuote,
affollate dei tuoi ricordi alla rinfusa
in cui si consumano voragini d’affetto
e profondi abissi d’incomprensione.
Ci sono stanze troppo bianche
con letti di metallo e una sola sedia,
in cui avvolgersi in un finto abbraccio
a cui aggrapparsi per non cadere giù.
Ma la mente rotola e rotola senza freno
in sequenza di parole e parole, parole…
E quel ch’è ricevuto nell’infanzia
diventa un gigante che ti schiaccia,
un fantasma che nella fantasia s’affaccia
e ti sussurra che sei solo,
anche se nella testa sei in tanti.
Sei solo, ma ritrovi la compagnia di te bambino,
ti ritrovi in quelle mancanze che non capivi
e ora sono macigni a piombare sul tuo cuore.
E poi lo scacci quel fantasma,
frutto solo della tua disperazione,
si disperde tra le mura della bianca stanza,
anche se ancora dentro di te lo cerchi,
per la prima volta ti accorgi forse
di aver ricominciato a vivere.
Tania Scavolini sezione A accetto il regolamento
” Donne ”
sez A – Accetto il regolamento
Donne
mani inquiete
si muovono nell’ombra
ignare di sorprese
con la testa china su diari
sostengono l’arte come comari
L’imbarazzo della vita
le affascina con note d’amore
Indovinare la commedia
di queste donne diventa un avventura
Un sospiro di Madonne
Delirio e meraviglia
Susanna Mastino
Sezione A accetto il regolamento
Il viaggio
Sole imperioso, magico e incandescente,
racconti i miei giorni, il mio lungo viaggio in questa vita.
Mi sorprendi,
malizioso e magnetico.
Ho tanta stanchezza sulle ossa,
intorno una quiete irreale fa affiorare i ricordi, le incertezze di un tempo lontano.
Immagini sfumate e dimenticate appaiono e scompaiono.
Nel silenzio ovattato,
attimo dopo attimo sgorgano lacrime di gioia, la voce vibra
velata d’emozione al pensiero di te.
Sposto i miei lunghi capelli distesi al vento,
tu mi guardi e mi togli il fiato,
riemergono sentimenti assopiti,
sento in lontananza i cinguettii degli uccelli,
profumi e colori di primavera,
bagliori di luce rasserenano il cielo e sono felice.
CATERINA (SEZ. A – ACCETTO IL REGOLAMENTO)
Ti respiravo
a boccate
entravi tu entrava l’aria del mare
le mattinate con il sole sulle labbra
profumate di salsedine
le ore fresche sotto la pineta
a seguire il suono delle onde
sciabordare dolcemente
e momento dopo momento
indeterminati
sognavamo l’amore
stupefatti
come angeli in contemplazione
sulle soglie dell’eterno
e tu mi guardavi
e sorridevi appena quel poco
da farmi scoppiare il cuore
come una stella
da aprirmi l’azzurro
del cielo
nel silenzio insondabile
degli occhi
e quando ci univamo
in segreto
sull’altare del mare
distruggevamo il destino
qualsiasi cosa fosse
in realtà
ne udivamo l’ultimo eco
oramai lontano
disfarsi
e noi perduti
tra le linee che sfuggivano
a quelle della mano
ci fondevamo
dentro un unico etereo
infinito bisbiglio
io fatto cielo
e tu siderea creatura
L’ AMORE
Ecco e’ sera
e m’ assopisco sui tuoi seni
che danzano al respiro dell’ emozione.
Ecco e’ notte
e mi desto un po’
ma poi ritorno al dolce riposare
Le mie labbra affondano a meta’ nel tuo splendore:
il cerchio rosato
Di Rocco Michele
Sezione A
Accetto il regolamento
Sez. B accetto il regolamento
Brutta
Ale è quello giusto, mi aveva detto Paola, ricordi come l’hai conosciuto? E’ stato un segno del destino.
Macché destino! Avevo solo sbagliato il numero di telefono.
“Non c’è nessuna Paola, qui. Sono solo e incavolato nero”
“Mi scusi”
“Aspetta. Io sono Ale e tu?”
“Chiara”
“Chiara, hai una voce bellissima e sentirti m’ha fatto bene”
“Allora, quando sei arrabbiato chiamami”.
Non immaginavo che la sera dopo mi avrebbe richiamato. Il respiro nel telefono era un soffio di vento.
“Ale, chi ti fa tanto incazzare?”
“Quella stronza di Giusy. Un’amica ha bisogno di me, dice, si cambia e se ne va. Mica sono scemo”
“Se ci credessi staresti meglio”
“Bella scoperta”
“Allora, provaci” avevo sussurrato.
“Con una voce così potresti parlare alla radio ed io ogni sera starei qui ad ascoltarti”.
Lo squillo delle nove era puntuale.
Un’occhiata al display: c’era scritto Ale.
Sorridevo mentre mi salutava.
“Bene la giornata?”
“Dire bene è relativo, se cambiassi lavoro, forse”
“Non prendertela, non so immaginarti arrabbiata, anzi, non so immaginarti proprio”
“Nemmeno io so immaginarti”
“Sono magro, di statura media, occhi azzurri, capelli biondi lunghi”
Ero una caramella che si scioglieva in bocca.
“Anch’io sono di statura media, né grassa né magra, occhi verdi, capelli mossi”
“Wow! Cheffiga!”
“Ho un problema, però”
“Un problema?”
“Si, dei foruncoli su tutto il corpo”
La risata nel telefono.
“Per me quello non è un problema”.
Tutto taceva da giorni, poi la telefonata era arrivata come pioggia dopo la siccità.
“C’è una novità”
La voce di Ale era acqua limpida.
“Una novità?”
“Si, ho detto a Giusy che la mia casa non è un albergo, non può andare e venire quando vuole, quindi è meglio che stia dalla sua amica”
Cosa udivano le mie orecchie!?
“Oh, mi dispiace!”
Facevo salti di gioia e non vedevo l’ora di mettere giù il telefono per dare la notizia a Paola.
“Lei come l’ha presa?”
“Pensavo peggio. Piuttosto, tra due domeniche è il mio compleanno e il regalo più bello sarebbe conoscerti. Che ne dici di fare un salto qui a Milano? Sai, abito all’ultimo piano di una vecchia casa con vista sui tetti”…
Due settimane dopo.
“Non ce la faccio”.
Il corpo di Ale rotola sul mio, la faccia affondata nel cuscino. Il gelo, piano, si impossessa di me. Mi nascondo sotto il lenzuolo come un animale nella tana.
La sua voce la sento appena.
“Mi dispiace”
“Basta. Non dire altro”.
Le gambe giù dal letto. Una corsa. Un tonfo. La porta del bagno chiusa alle mie spalle. Il reggiseno di pizzo tra i denti. La mia immagine nello specchio. La pelle come quella di un rospo. Lo sputo sulla faccia che mi guarda. Le unghie nei foruncoli viola. Il grido di dolore. Il sangue.
“Chiara!”
Gli occhi di Ale sono fanali.
“Ti faccio schifo eh? Dillo che ti faccio schifo!”
Le sue mani sulle ferite.
“Calmati, ti voglio bene, sei una ragazza speciale, tu”
“La solita musica, la conosco a memoria. Basta!”.
Infilo jeans e maglietta, afferro la borsa al volo. In un attimo sono in fondo alle scale.
Marciapiedi. Semafori. Stazione. Il treno fermo che m’aspetta.
Lancio la borsa e salgo.
Nel finestrino scorrono alberi e case in una nebbia azzurrina. Un’occhiata all’orologio e mi vedo a tavola con lui.
Auguri, stronzo!
Apro gli occhi. Seduta di fronte una donna mi guarda. Scema, cosa credevi farti il figo con gli occhi azzurri e i capelli biondi? Sembra dirmi. Mi nascondo dietro un giornale.
Cerco di non pensare, ma la figura di Ale è come un’infezione.
“Per me quello non è un problema. Tutto qui? Pensavo ti mancasse un braccio o una gamba. Non ti preoccupare, l’aspetto fisico non conta”.
Ed io speravo, sognavo, progettavo. Poi, improvvisamente il castello di carte è crollato.
Voglio dimenticare gli occhi spalancati di Ale sul mio corpo nudo. Dimenticare la sua voce che diceva non prendertela, sei simpatica, ti voglio bene.
Una mano mi sfiora.
“Biglietti”.
Come un automa sfilo il biglietto dalla tasca dei jeans.
Fuori, la mia città mi corre incontro vestita di nero.
Sezione B – Accetto il regolamento
“Il salto”
Cosa ci faccio sul bordo di un ponte abbandonato alto un centinaio di metri, tutta imbragata?
Torniamo un po’ indietro nel tempo… in un’estate di tanti anni fa, avevo raggiunto alcuni miei compagni di scuola di Liceo che passavano parte delle vacanze a lavorare in un centro di Bungee Jumping.
La location era già di per sé molto affascinante: Triora, un paesino del primo entroterra ligure nella Riviera di Ponente, con una popolazione di circa duecento anime, ma ricco di storia e con un passato importante, in quanto conosciuto anche come il Paese delle Streghe, per via di alcune controverse e oscure vicende accadute nel 1500.
L’atmosfera antica e misteriosa che si percepiva tra i vicoli medievali, dove il tempo sembrava essersi fermato, faceva da contraltare a quella festosa, goliardica, fresca e indisciplinata che si respirava nell’appartamento che era stato affittato dai gestori del Bungee Jumping e dove alloggiava tutto il team.
I lanci venivano fatti da un ponte chiuso al traffico in ferro e cemento, il ponte di Loreto, alto un centinaio di metri posto a strapiombo su un sinuoso torrente.
Per gioco, per scommessa, per una sfida con se stessi o solo per moda o per noia, erano in tanti i clienti che si avvicendavano sul ponte.
Ma soprattutto loro, i ragazzi del team si dilettavano nel lanciarsi nel vuoto anche più volte al giorno.
E io? Io li accompagnavo e poi li guardavo prima lanciarsi chi più impavido chi un po’ meno, e poi li osservavo mentre rimbalzavano ripetutamente a testa in giù, a volte dall’alto, mentre me ne stavo anche io sul ponte, a volte dal basso, mentre mi rinfrescavo nel ruscello sottostante.
Tutte le volte cercavano di convincermi a lanciarmi, ma io… io no, non mi butto, sono una persona prudente e razionale… non amo rischiare… non mi butto dal ponte, ma non mi butto neppure nella mischia, non mi butto verso l’ignoto, non rischio, non oso…
Così dopo tanti anni ripenso a quei salti mancati, e penso che sì, mi sarei dovuta buttare, e scopro e realizzo così di non aver vissuto appieno…
E quindi eccomi di nuovo su questo ponte, guardo con un po’ di timore e vertigine lo strapiombo sotto i miei piedi, ma rivedo anche la me stessa di allora e penso che ora sì, sono pronta a rischiare, a mettermi nuovamente in gioco, ad osare…
Spicco il volo, lancio un urlo liberatorio e mi sento finalmente libera, felice e pronta a ricominciare una nuova vita e ad affrontare nuove sfide e nuove avventure.
Sez.A
Accetto Regolamento bando
Titolo Poesia: Per Me che sono stramba
Per me che sono stramba
una chitarra,ma anche una borsa
Per me che abito sulla Terra
niente ciambella
mi basta una risposta
Niente costumi o falsità
Per me che vivo sulla Luna
una vodka alla Fortuna
voglio ridere ,ballare
senza freni
Per me che vivo tra i pensieri
coltivo un giardino di fiori e sogni veri
il pigiama la notte ,le infradito d’estate
un cuore caldo che sa di brace
Per me che amo la vita e l’amore
un condizionatore gira
su quel letto a baldacchino
la passione unisce
Al tramonto sulla baia
I nostri sguardi incrociati
Si perdono sugli orizzonti
La Palafitta dell’amore
Ricorda la nostra Storia
ricoperta di Lotte e Cuori
Valerika
Argiolas Teresa
Sezione A Accetto il regolamento
False illusioni
Seduto in quel letto
con gli occhi
sognanti
mi guardi cercando
la luce del coraggio
non vedi il mio
sguardo ormai
spento,
non vedi la tristezza
che nascondo
sotto un velo
false speranze.
la luce che brilla
scivola celata
da ricci ribelli
che spuntano da
quella cuffia
un po’ buffa
nascondendo tutto
il dolore che provo
quando ti racconto
un mondo
che resta
solo un bel sogno
raccontando
solo false
illusioni
Massimo Apicella
Sezione A, accetto il regolamento.
Gira la giostra (e la scimmietta ha perso la sua coda)
———
Suona l’organetto
un vecchio rondò.
Gira la giostra
danzano i cavallucci
colorati
al ritmo del rondò
su e giù.
Gira la giostra
si battono le mani
nastri
e profumi
e zucchero filato
ci si afferra forte
si osserva
chi è sulla giostra
chi è accanto
chi è attorno.
Improvvisa
la vita appesa a un filo
cade dall’alto
una scimmietta
su e giù
solo stracci
con la giacchetta
rossa
e la coda lunga
su e giù.
Prendi la coda
prendi la coda.
Suona l’organetto
gira la giostra
danzano i cavallucci
di legno.
Immagini riflesse
nel mosaico di specchi
mille cavallucci
frammenti
mille se stessi.
Su e giù
la scimmietta
dal cuore di ovatta
e la coda lunga.
Prendi la coda
afferrala
strappala via
vinci un altro giro.
Si sta facendo tardi
l’imbrunire
bambino
s’affaccia
al piccolo mondo.
Gira la giostra
suona l’organetto
s’affanna il rondò
i cavallucci
potendo
galopperebbero
lontano.
La scimmietta
è triste senza la coda
eppure sa
che la riavrà
prima di tornare
lassù
a riposare
fra le aste colorate
che inchiodano i cavallucci
al loro rondò.
Forse sarebbe ora
di scendere.
La musica non è
ancora finita.
Altro giro
altra corsa
altro regalo.
Su e giù
la scimmietta
dal cuore di stracci
senza più coda lunga
ma con la giacchetta rossa.
Magnifico, amaro apologo della condizione umana. Grazie!
Sezione A – accetto il Regolamento
Metempsicosi marina
Rifrange Selene sull’onda che tace,
risponde Nettuno profondo e tenace,
profumo salmastro che esonda dal mare,
possente, ‘si immenso che ama giocare,
quell’onda distratta, ti viene a cercare,
nessuno oramai ti potrà più salvare,
sprofondi nel buio silente e letale,
diventi tutt’uno con l’onda e col mare…
… rinasci di luce splendente e immortale…
La fiaba dell’albero e dell’uomo (SEZ. B – Accetto il regolamento)
Kotris, il Genio dell’albero mi guardava
con occhi di pianto,
e un’espressione così triste, un cruccio così profondo
da rendermi partecipe del suo dolore.
Daniel, il taglialegna, un uomo tutto d’un pezzo
era pronto con l’accetta a portata di mano.
Egli non aveva la minima consapevolezza
che il suo mestiere non fosse
un mestiere come un altro.
Kotris un giorno mi disse “Ogni albero che uccide,
questa persona ha un demone in più
negli occhi e un angelo in meno nei suoi paraggi”.
Ma quel giorno sarebbe accaduta una cosa,
che Daniel non avrebbe dimenticato mai.
Il Genio mi rivelò anche “Dovrebbe avvicinarsi a noi con più cautela,
e tagliare solo gli alberi che sono pronti a morire.
Ci sono molti alberi pronti a morire,
esseri che hanno compreso i segreti per cui sono stati mandati:
il giro delle stagioni,
la carezza del vento,
il miracolo della luce,
la nuova tempra dell’acqua,
il paradosso della terra, forte e morbida,
la compagnia degli animali…”.
Al primo colpo d’accetta un fiotto di sangue
schizzò sulla faccia di Daniel,
si, ho detto proprio sangue.
L’uomo distese le sue braccia aitanti lungo il corpo
e fece un’espressione stupita,
spalancando gli occhi e arricciando il naso
come quando non sei convinto
di quel che hai appena visto.
Io, che mi ero nascosto dietro una roccia insieme a Kotris
ero più basito del tagliaboschi.
Il Genio sapeva cos’era appena accaduto.
Daniel riprese a colpire l’albero,
ma gli schizzi di sangue erano sempre più abbondanti
e l’uomo era oramai zuppo.
Il sangue schizzava in tutte le direzioni
ma il taglialegna non si placava,
era una furia impazzita e urlava frasi incomprensibili.
“Ti uccido! Ti ammazzo!” a parte questo non si capiva nulla.
Intanto si era formato un rivolo di sangue
che scendeva giù dal pendio.
L’albero cadde schiantandosi sul terreno.
Daniel era interamente coperto di sangue.
Aveva la bocca aperta e la mascella che sporgeva in avanti,
era furibondo.
Ai piedi del pendio si era formato un laghetto di sangue,
una piccola gora rossa
che non faceva che allargarsi sempre di più
fino a diventare un grosso lago.
Quando scese a valle Daniel vide quello che era successo.
Comprese.
E per la prima volta in vita sua pianse.
Capì il significato di tutto ciò,
domandandosi “Che lago è un lago dove non ci si può specchiare?
Se non posso vedere il mio volto chi sono io?
E cosa ho fatto fino ad oggi?
Il lago del mio cuore non è trasparente
e nessuno viene a specchiarsi
nel lago del mio cuore,
così sono rimasto solo e non faccio che sporcare
tutto quello che tocco.
All’improvviso ebbe un’illuminazione.
Prese uno spillo e si punse un dito,
aspettò che uscisse la prima goccia di sangue
e pensò “Questa goccia è tutto quello che possiedo,
è come un granello di sabbia nel deserto.
L’albero invece era un oceano di vita
e la dimostrazione è questo lago.
Donerò a quello che resta dell’albero tutto ciò che ho,
sperando che provi compassione per la mia miseria”.
Dopodiché, lasciò scivolare la goccia di sangue,
che cadde nel lago.
Molto rapidamente l’immensa distesa di sangue si prosciugò,
e al centro di quello spazio spuntò una piccola piantina,
una bellissima piantina verde.
L’uomo pensò “Questa piantina sono io.
adesso è piccola che quasi non si vede,
ma un giorno diventerà
un grande albero.
La pianterò dove fino a poco fa giaceva
l’albero che tagliai.”.
E così fece Daniel.
L’uomo che ognuno è stato.
L’uomo che verrà.
sezione A
Fabiola Murri
accetto il regolamento
La tengo a bada
La tengo a bada, certo!
la cavalco, domo,
inseguo, la prendo e faccio scivolare via,
poi l’imprigiono
e poi ancora è cibo e acqua, ne godo e piango,
ne faccio uso intossicandomi,
la conosco bene , talmente bene che oramai consensualmente conviviamo,
se corro forte contro il vento, che soffia forte,
ed io ancora più forte contro, m’invade,
s’è sul confine che trovo pace s’arresta,
-io sono ancora a sud del nulla- le chiedo,
-un’alba per due tramonti- risponde,
sospetta qualcuno, altri immaginano,
altri ancora ne pronosticano una futura carriera su terreno fertile,
mentre muta, li guardo, gli altri,
fuori da me, che non sono me,
allineati come bottoni su camici bianchi,
resto nascosta abbracciandola,
mentre culla ogni mio dolore
con una nenia che sa d’antiche vite perse,
lei si che mi conosce ed ama
ed io la tengo a bada,
si, si, a bada, si, si…
MONOLOGO UNA SCARPA RACCONTA ” RIFIUTI DI DONNA”
Ero con te, quando vi siete conosciuti.
L’erba era così verde e tenera che mi sembrava di volare.
Sono rimasta affascinata da quegli occhi nocciola dolcissimi.
-Questa è la volta buona. Mi son detta-
Perché diciamocelo, tu sei sempre stata una ragazza schizzinosa.
Giustamente, volevi scegliere bene.
Tempo due mesi, vi siete messi insieme.
In seguito, te lo sei pure sposato.
Un amore meraviglioso.
Per stargli più vicina hai lasciato le amiche.
Ed il tuo sport preferito.
Volevi goderti solo lui.
Ti sei resa conto che le amiche ti mancavano, e pure l’atletica.
Hai comprato una tuta color fucsia, un paio di scarpe sportive,
(delle quali ti giuro, mai sono stata gelosa)
hai spazzolato i capelli e sei uscita.
Al rientro invece di braccia amorevoli
Hai trovato, occhi rabbiosi e braccia pronte a menare.
Il tuo uomo, in un attimo ti è apparso uno sconosciuto.
Anche io, dalla postazione scarpiera, ne sono rimasta stupita.
Da allora, sono volati, quotidianamente schiaffi e parolacce.
C’era sempre qualcosa che lo induceva a comportarsi così.
Poteva essere la pasta troppo scotta,
la carne eccessivamente salata.
La camicia stirata male.
Tremavamo insieme.
Tu dalla testa ai piedi. Io dai tacchi alle punte.
Adesso
Devo dirti che mi sento terribilmente sola.
Eppure sono circondata da molte, troppe sorelle.
Una discarica di scarpette rosse.
Involucri/Vuoti a perdere/Rifiuti.
SOLO RIFIUTI DI DONNA!
sez. b accetto il regolamento
Il giardino di ieri
Ho appoggiato il capo
su un cuscino di petali di rosa
trafugati dal giardino di ieri
quando la cetonia dorata
volava basso
e le bambine crudeli si divertivano
a legarle un filo
alla zampetta verde smeraldo
per farla roteare come una giostra.
C’era un pozzo d’acqua fredda
dove calavamo un secchiello
di cocomero
da consumare sotto la pergola dell’uva
al monotono gorgheggio delle galline ovaiole
innamorate della nonna dalla pezzola nera.
Non è la prima volta che mi introduco
nel giardino di ieri
a prelevare profumati petali
e scenografiche zinnie
per far dispetto alle farfalle.
Esso è piccolo e colorato.
Anche se una grande casa da tempo
lo ha seppellito.
Io l’ho salvato
preservato
ingannato.
E’ bastato un semplice copia incolla
per farlo scivolare per sempre
nella mia stanza interiore
nel tempo soggettivo dei ricordi
dove tutto rimane immutato.
sez. a – accetto il regolamento
Sez. A
Gesuina Scanu
Accetto il regolamento.
Follia
La consapevolezza folle non è giustificata,
Concludi con la smorfia la semplice giornata.
Quando nei tempi d’oro ridevi con fervore,
Sapevi che fingevi mendicando amore.
Folle la risata, folle la camminata,
follia esagerata, follia escogitata.
Faccia un passo avanti colui che non lo è stato o,
Chi per poco soltanto il folle non abbia fatto.
Così tutti in prima fila pronti a testimoniare
Che i folli veramente han solo da insegnare.
Follia per una notte o follia per una vita
Che passa con il treno sulla rotaia zitta.
Atassici gli sguardi nei corpi lamentosi,
Zimbelli da scrutare con occhi da curiosi.
Follia da ripudiare, follia che fa temere
Il folle che rimesta il disgusto col piacere.
Folle che non sei altro! Altro che follia!
Sproloquio preparato e non sai che cosa sia.
Magica e tremenda meravigliosa -“mente”
Non fare mai domande a chi non è folle : mente!
SEZIONE B NARRATIVA VERSIONE GIUSTA. ACCETTO IL REGOLAMENTO
Un immaginario Giudice Accusatore interiore prende voce: Primo, c’è il rifiuto della vita, del lavoro, del dialogo, della cultura, dei doveri civili e naturali, il Colpevole si è costruito una cappa d’ignavia, di apparentemente incomprensibile star solo in senso cosmico, di un sottile particolare stato di delirio, di una tutta sua particolare morte come negazione e rimpicciolimento, una cappa pesante… esterna ed interna. Si rifiutava perfidamente di stare assieme agli altri, il dare e avere, il dialogo, il vivere con, il partecipare assieme, il risolvere assieme, il soffrire anche, assieme… Rifiutava gli altri! Rinnegava capite? Alla fine ne è venuto fuori un circolo chiuso dove addirittura respingeva lo star male assieme agli altri! Da ciò il rifiuto dell’ esistenza, vitale superficialmente, senza lasciarsi ingannare… un vegetare era, un vegetare, egli rifiutava il suo immondo disegno, ha disintegrato l’ evidenza, ha combattuto il sapere, la scienza, la conoscenza, il chiedere, il costruire. Il rifiuto naturalmente di un’ occupazione sia pure come fatica, sia come crescita che come modifica della realtà, sia come atto di semplice stare al mondo, relegando tutto agli altri, alla Società… Rifiuto del lavoro, rifiuto dell’amore, rifiuto del rapporto creativo con gli altri, rifiuto della libertà, della speranza, rifiuto di Dio, della democrazia! Di ogni ordine etico e morale… di ogni rapporto dialettico come il respirare… Costui parla del destino, di integrazioni mancate, di comunità indifferenti, palliativi accidenti! Parla di tristezza, fortuna, sfortuna, colpa degli altri, anormalita’, normalità… dica lui ora!
Quante falsità! Voi parlate di rifiuto, di mie penose giustificazioni… ma io non mi sono mai e dico mai giustificato cioè cristallizzato in una sola visione univoca! Malinconia! Società ingiusta, sfortuna-fortuna… Io invece ho sempre chiesto, mi sono sempre dato, non ho mai rifiutato in maniera infida e classista… disponibile verso chiunque, non certo fino al sacrificio estremo che non sarebbe ne’ accolto ne’ disatteso ,se permette! È una Constatazione, sicuro, io ho constatato, non respinto! Avete uno strano modo di procedere, cambiando i concetti, il significato delle parole, sovrapponendo e tagliando ritagli di lettere, mettendo in luce soltanto ciò che vi fa’ comodo, certo. Voi dite, dite. Rifiuto del dialogo, degli altri, dell’ essere con…! Voi vedete in apparenza, controsole, non sapete proprio niente! Io, io andavo in cerca degli altri, io, volevo, sottolineo volevo, gli altri, li volevo nel senso più pieno, li accettavo. Io volevo!… dare, e chiedevo, chiedevo molto, in maniera impetuosa… Mi piaceva respirare, sentirmi, vedere, toccare, immergermi, entrare, anche soffrire, si’, fino alla pazzia! Io poi non ho rifiutato mai la cultura, avevo sete di sapere, di capire, di conoscere, di leggere anche se analfabeta, di rendermi conto, era pure un periodo inoltre che mi sforzavo di far politica, feci lega missionaria, mi iscrissi ad una associazione sportiva e fu un momento di incosciente entusiasmo, di bisogni miei e degli altri, di aiutare ed essere aiutato, altro che rifiuto del lavoro! Io intendevo il lavoro come fare, un realizzare e realizzarsi, una fatica nobile, una gioia, un’espressione pure intima ed intimista, umana, appetibile nel senso che dà pienezza non solo di stomaco. Un qualcosa che travalica il tempo ed il futuro, per questo e tanto altro io non ho rigettato un bel niente! Solo che ad un tratto, mi sono sentito putrefatto nella putrefazione, calpestato nel calpestabile, morto nella morte. Io non ho avallato coscientemente ciò che Voi chiamate cultura poiche ‘ in realtà diventa negazione, rassegnazione, giustificazione, presa d’atto di qualcosa d’inumano, di innaturale, di imposto dall’alto, di sporchi giochi di potere, di regime, il dialogo non esiste, non lo vuole nessuno, noi, quelli come me, siamo degli specchi opachi, delle lance aguzze, gente che non parla, vittime…
Il giudice improvvisamente si alza: Questo è un vero e proprio tentativo di sviare, di commuovere facendosi passare per insano, infermo di mente, incomprensibile irresponsabile, violato dalla vita, sofferente e diverso. Mi dovete rispondere!
È che tutti voi che mi accusate e giudicate state recitando una falsa morale scritta apposta per chi sbaglia! Ho letteralmente sciupato me stesso nel credere e nel cercare, nel-far-si’-che ma non è successo niente! In nome di quale etica non comprendete che l’amore è un tuffo al cuore e che io quel tuffo al cuore l’ ho provato! Me lo hanno accartocciato! Continuate a chiamarlo bene, lealtà, ne avete fatto una confraternita per pochi intimi, per addetti ai lavori, una modalità maledettamente riduttiva di spiegare un vissuto personale! Sapete… mi piaceva giocare a pallone da ragazzo e avevo sensazioni… aspiravo… a una laurea in lettere o filosofia… a diventare scrittore, medico, giornalista… son diventato capo mandamento… anzi… aspiravo a qualcosa di più… molto di più…
Ed io come Giudice vi dico che il guaio, il problema, il reato è il non saper scendere a compromessi con gli altri e con se’ stessi e vi condanno alla pena maggiore, all’eterna sofferenza…
Bisogna proseguire in un buio che è penombra e farsi condurre dove quella minuscola luce conduce. A piccoli passi eppure continuamente e soltanto avanti. Tutto è perso ma la vita resta spesso come la maggior condanna. La realtà concreta non porterà mai a un ricongiungimento sociale, in un contesto che sempre più aborre i sentimenti, la vecchiaia, la malattia mentale, non arriverà a una restituzione, a un re-inserimento “fuori”, sociale appunto, se in esso stesso non sarà possibile una ennesima non condanna pur nell’ inferno della ferocia, solo, occorrerebbe una piccola goccia di minimale umanità in chi vi lavora sotto ogni ordine e grado per tentare di ripartire li’ da dove tutto si è disintegrato e una voce differente è uscita dal fondo improvvisamente.
IO SONO VITA
Ad ali spiegate
plano sulla pelle
increspata del mare
e respiro senza tiranti
il profumo inebriante
della Vita.
Io Sono Vita.
Scorre dentro i miei vasi
inarrestabile un potente
inno all’esistenza.
Reazioni a catena
senza sosta procedono
nel loro canto di gioia,
sgranano un rosario
imperterrite dentro
ogni mia cellula.
Un eterno movimento
inebria gli occhi vigili,
un’onda ruba il posto ad un’altra
in un’instancabile staffetta
che grida con potenza
la forza della vita.
La bora lascia il passo alla brezza,
la corsa rallenta in
un placido cammino,
la pelle vellutata vira
a grinze ossute e consunte
la luce decade
nella carezza della notte,
l’ira diviene lieto perdono.
Il cambiamento è l’essenza
del tempo che mi è offerto,
la vita muta forma
e sembianza,
romba suadente
dentro questo vento leggero
dentro la mia penna che scorre,
dentro il mio sangue
che diviene parola,
il mio cibo
che diviene pensiero.
Io sono Vita
e grido la bellezza
inaudita del cosmo,
grata al creatore instancabile
che alita in ogni molecola
di ossigeno che mi tiene in Vita,
nella chioma che mi incornicia il viso
e che offro al vento
che spira impalpabile,
ubriaco di Vita
accetto il regolamento, sez. a
GRAZIA MASTROMARCO
Sezione a poesia accetto il regolamento
VELENO
L’amore ormeggia sulle pene
degli amori. Dei giorni. Fine
del caso posti che tenga il carcere
delle anime infine aride di vite
dove le mani dovevano al cuore
azzardato una via di fuga verso la metà
Che arde. Nella sera ma piove
Il destino pieno di meno onore.
Addio alle dignità gelide. Anche ahi;
come cambiano le faide
della dolcezza sconfitta dalle furbe angosce
qui incombe il fuoco che scava
come la mia faccia. Che dice
e sbanda. Affondo
alla vita. Effimera nel mare
goffo in cui
si scagli. Con violenza
che scenda sulle vuote sorti cui incombe nel mondo.
Come il veleno che ci afferra.
SEZIONE A – accetto il regolamento
La mia terra profuma ancora di viole
(Dedicato a Franca Viola*)
Sono venuta qui, dove la terra
sposa la luce trasparente dell’aurora
e caldi abbracci vestono i ricordi
di cielo e mare e corse all’infinito.
Sono venuta qui, come Proserpina
giocando con le onde a primavera,
ignara del destino preparato nella notte,
nel regno buio odiato pure dagli dei.
Sono venuta qui e ho visto metamorfosi
di mani e di violenza cieca e bruta
e donne calarsi nelle vesti senza amore
e giorni rincorrersi nel sangue dell’oblio.
Sono arrivata mentre ogni gesto
perdeva ogni profumo ed innocenza
e mille volti oscuri e sconosciuti
spingevano carezze sulla pelle.
Sono rimasta sola ad aspettare
la fine di una storia non voluta
mentre una sorda ribellione
cresceva nelle vene palpitanti.
E adesso sono cristallo di fanciulla
senza sogni, crisalide che attende
la sua forma, tra odori accecanti
e fiori appassiti nel giardino.
Ma la speranza profuma ancora
di viole delicate tra le erbacce
e la mia terra ha i colori della sera
dentro i miei occhi dischiusi di bambina.
*Franca Viola è stata la prima donna a rifiutare nel 1966 il matrimonio riparatore che avrebbe cancellato il reato di violenza del suo stupratore, contribuendo così a cambiare il Codice. “Io non sono proprietà di nessuno», dice, «l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce».
SEZIONE B – accetto il regolamento
Scoglio sfondo mare
Conosceva proprio tutto di lei quello scoglio, sì tutto. Tutte le lacrime versate e mescolate con il sale delle onde. Le volte che aveva pianto per lui, le volte che non era stata capita e quelle che era stata ferita e si era chiusa in se stessa come un animale a cui era stato sferrato l’ultimo colpo. Si era seduta lì più volte, come una ciambella senza zucchero resa amara dagli eventi. Lui, lo scoglio, l’unico in grado di leggerle dentro e comprendere le sue intenzioni. L’unico profondo conoscitore del suo sé più profondo. Lui. Il suo vero amico.
Era arrivata di corsa quella mattina d’estate. Il pullman che dalla stazione l’avrebbe portata vicino la spiaggia di Santa Maria partiva presto dall’hotel dove soggiornava e dove si svolgeva l’importante congresso medico che la vedeva protagonista. Era arrivata in affanno, convinta di non trovarlo più il suo scoglio ma lui era lì ad attenderla, ricoperto di spuma bianca come latte e pronto a nutrirla del suo abbraccio. Si era tolta le scarpe e i collant, allora, e si era ritrovata lì in un solo balzo, con l’acqua gelida d’aprile che le accarezzava i piedi. Non voleva bagnare la gonna ma la tentazione di sedersi era stata troppo forte. Si era accovacciata sulla parte piatta, alzando la gonna fino alla vita, tanto in quel periodo non c’era nessuno a guardarla. Si sarebbe messa a parlare con il mare ancora una volta. Aveva tanto da raccontargli dall’ultimo incontro.
Ogni fase della vita ha i suoi colori e non aveva dimenticato il rosa intenso dei suoi anni più belli. La sottile filigrana che rivestiva le cose riusciva spesso a nascondere la dura realtà ma era un velo troppo sottile per non rischiare di spezzarsi da un momento all’altro.
E gli strappi erano arrivati, inesorabilmente al primo schiaffo. A lei non era rimasto altro che appendere la tela lacerata dei suoi sogni. Un rosa sfumato nella tenue colorazione del viola aveva finito per abitare la morbida cavità dei suoi occhi, forse per sempre. Gli anni non saranno mai abbastanza a cancellare l’impronta di violenza sulla pelle, lo sguardo torvo in occhi senza amore, l’odore acre del sangue sulle labbra, la piega amara e malvagia nel suo sguardo.
E poi la volontà piegata, schiacciata fino a sentirsi inesistente, ed una dignità annullata dentro un pugno di bugie. La fuga, infine. Il nascondersi al sicuro da un amore senza amore cercando invano, per anni, un equilibrio inesistente, un bianco argento di purezza di pensieri mutati in un incubo perenne dentro notti infestate di follia.
Il suo scoglio. Un amico muto ritrovato per cercare di capire, per dare una risposta ai perché fosse andato tutto storto. Doveva ancora, dopo anni, farsene una ragione, dare un nome al fallimento di un rapporto che per tutti era una favola. Era stata solo colpa sua? Questo in fondo era ciò che sosteneva lui, un uomo tanto dolce ma anche travestito di bugie e di falsità e promesse mai davvero mantenute.
Anni prima aveva creduto di annegare tra le braccia del suo scoglio e tra le acque di quel mare tanto amato. Si era lasciata scivolare piano piano assaporando il sale sopra gli occhi mentre la spuma la ricopriva con il suo velo protettivo. In fondo sarebbe stato bello morire così, rivestita di quel verde cristallino che specchiava il suo dolore e la perdita totale di fiducia nel futuro. A quei tempi non vedeva via d’uscita, solo trappole di ferro in un luogo dove lui la dominava e annullava.
Ma la voglia, la ferma volontà di sopravvivere e non cedere alla fine avevano mostrato la loro forza e in segreto aveva concluso i suoi studi in medicina. Avrebbe lavorato e lottato per le donne come lei, in psichiatria. Doveva cercare di capire quali meccanismi intervenissero a bloccare lo spirito libero in una donna riducendola a uno straccio di nuda sopravvivenza mentre lui, il maschio, prosperava al suo fianco. Avrebbe provato a salvarsi, il suo destino non avrebbe seguito il filo di Arianna delle altre donne, le meno fortunate. No, lei sarebbe stata diversa.
Ricordava ancora quel giorno. La corsa in città col primo treno del mattino. La cerimonia di laurea a sua insaputa. L’aveva detto solo alla mamma. Povera mamma! Se n’era andata due anni prima dopo aver sofferto per un cancro fulminante al fegato e lei, all’estero, non era riuscita ad arrivare in tempo. Eppure quel giorno, per lei così importante perché avrebbe aperto le porte per la libertà, lei era lì. Le era stata sempre vicino, anche quando non aveva condiviso le sue scelte continuando a proteggerla in segreto contro un uomo che non le era mai piaciuto.
Era stata bella quella giornata! Una laurea importante, ottenuta a prezzo di grandi sacrifici e l’inizio di nuovi e più grandiosi progetti. I complimenti del professore che l’aveva seguita per la tesi, del suo correlatore. I colleghi di corso. Le amiche d’infanzia. Poi, in fondo all’aula dove si tenevano le lauree, l’aveva visto. Sì. Lui era lì. Ma come l’aveva saputo. Ma chi gliel’aveva detto?
Si era avvicinato con uno sguardo strano, vuoto e inespressivo. Le aveva stretto il braccio, l’aveva strattonata trascinandola fuori mentre tutti guardavano la scena e presi di sorpresa non riuscivano a intervenire. Ricordava appena il viaggio in macchina seduta accanto a lui. Era stato come un incubo che si pensa finisca presto e dal quale si desidera svegliarsi. Ma l’incubo continuava e lei non smetteva di pizzicarsi il braccio ripetendo a se stessa che no, non poteva finire tutto così. Sperava solo che le sue amiche avrebbero accompagnato la mamma a casa.
Rientrati infine gli schiaffi si erano mescolati a grida e suoni indistinti che le scivolavano addosso. Quasi non sentiva il dolore e le lacrime di rabbia l’avevano sostenuta nel programmare la prossima mossa. Ancora adesso si chiedeva cosa le avesse dato la forza di alzarsi dal letto il giorno dopo per leccarsi le ferite. Lui era uscito, come niente fosse. L’aveva guardata rassicurato nella certezza che no, non ci avrebbe riprovato più.
Il suo scoglio. Eccolo qui, a riportarla indietro a quegli anni di forza e coraggio miste a lenta rassegnazione. Il desiderio di lasciarsi andare l’aveva posseduta a un certo punto, privandola di forza vitale, finché una voce dentro di lei l’aveva spinta inesorabilmente verso la fine di quel logorio dell’anima. Si trattava di scegliere, vivere o morire.
Era successo così, improvvisamente. Quel terribile e indimenticabile giorno stava preparando la sua borsa. Lui sarebbe rientrato tardi, di sera. Almeno così le aveva detto e lei doveva fare in fretta. Le sarebbe bastato poco, doveva fare delle scelte e subito. Tanto poi sarebbe riuscita a rimediarsi qualcosa. Un lavoro, una casa. Non aveva paura delle incognite che l’attendevano lì, fuori, nel mondo reale. Nulla sarebbe stato più duro da sopportare di quell’inferno. Aveva finito e trascinandosi dietro il suo bagaglio si era precipitata a mare. Doveva salutare il suo scoglio. Non era rimasta sola a lungo. La sua presenza dietro di lei si era palesata improvvisamente come un’ombra di male oscuro ed il mare aveva cambiato colore. Si era voltata di scatto ma, stavolta, sapeva bene cosa fare e le onde l’avrebbero aiutata. Il mare si era ingrossato da un momento all’altro e l’ombra di male oscuro si era sciolta mescolandosi con gli spruzzi grigiastri delle acque agitate sugli scogli.
**********
Doveva andare ora o avrebbero cominciato senza di lei. Un ultimo saluto a quel tratto di costa e ai colori a lei tanto cari. Mentre si lisciava la gonna e si rimetteva le scarpe, un ultimo sguardo allo scoglio le restituì delle immagini che aveva cercato di seppellire negli oscuri corridoi della memoria. Ricordava ancora la ferocia animale delle onde, l’abbraccio protettivo del mare e un corpo trascinato negli abissi con delle braccia che si agitavano per chiedere un aiuto che non avrebbero ricevuto da nessuno.
SEZIONE B
Scoglio sfondo mare
Conosceva proprio tutto di lei quello scoglio, sì tutto. Tutte le lacrime versate e mescolate con il sale delle onde. Le volte che aveva pianto per lui, le volte che non era stata capita e quelle che era stata ferita e si era chiusa in se stessa come un animale a cui era stato sferrato l’ultimo colpo. Si era seduta lì più volte, come una ciambella senza zucchero resa amara dagli eventi. Lui, lo scoglio, l’unico in grado di leggerle dentro e comprendere le sue intenzioni. L’unico profondo conoscitore del suo sé più profondo. Lui. Il suo vero amico.
Era arrivata di corsa quella mattina d’estate. Il pullman che dalla stazione l’avrebbe portata vicino la spiaggia di Santa Maria partiva presto dall’hotel dove soggiornava e dove si svolgeva l’importante congresso medico che la vedeva protagonista. Era arrivata in affanno, convinta di non trovarlo più il suo scoglio ma lui era lì ad attenderla, ricoperto di spuma bianca come latte e pronto a nutrirla del suo abbraccio. Si era tolta le scarpe e i collant, allora, e si era ritrovata lì in un solo balzo, con l’acqua gelida d’aprile che le accarezzava i piedi. Non voleva bagnare la gonna ma la tentazione di sedersi era stata troppo forte. Si era accovacciata sulla parte piatta, alzando la gonna fino alla vita, tanto in quel periodo non c’era nessuno a guardarla. Si sarebbe messa a parlare con il mare ancora una volta. Aveva tanto da raccontargli dall’ultimo incontro.
Ogni fase della vita ha i suoi colori e non aveva dimenticato il rosa intenso dei suoi anni più belli. La sottile filigrana che rivestiva le cose riusciva spesso a nascondere la dura realtà ma era un velo troppo sottile per non rischiare di spezzarsi da un momento all’altro.
E gli strappi erano arrivati, inesorabilmente al primo schiaffo. A lei non era rimasto altro che appendere la tela lacerata dei suoi sogni. Un rosa sfumato nella tenue colorazione del viola aveva finito per abitare la morbida cavità dei suoi occhi, forse per sempre. Gli anni non saranno mai abbastanza a cancellare l’impronta di violenza sulla pelle, lo sguardo torvo in occhi senza amore, l’odore acre del sangue sulle labbra, la piega amara e malvagia nel suo sguardo.
E poi la volontà piegata, schiacciata fino a sentirsi inesistente, ed una dignità annullata dentro un pugno di bugie. La fuga, infine. Il nascondersi al sicuro da un amore senza amore cercando invano, per anni, un equilibrio inesistente, un bianco argento di purezza di pensieri mutati in un incubo perenne dentro notti infestate di follia.
Il suo scoglio. Un amico muto ritrovato per cercare di capire, per dare una risposta ai perché fosse andato tutto storto. Doveva ancora, dopo anni, farsene una ragione, dare un nome al fallimento di un rapporto che per tutti era una favola. Era stata solo colpa sua? Questo in fondo era ciò che sosteneva lui, un uomo tanto dolce ma anche travestito di bugie e di falsità e promesse mai davvero mantenute.
Anni prima aveva creduto di annegare tra le braccia del suo scoglio e tra le acque di quel mare tanto amato. Si era lasciata scivolare piano piano assaporando il sale sopra gli occhi mentre la spuma la ricopriva con il suo velo protettivo. In fondo sarebbe stato bello morire così, rivestita di quel verde cristallino che specchiava il suo dolore e la perdita totale di fiducia nel futuro. A quei tempi non vedeva via d’uscita, solo trappole di ferro in un luogo dove lui la dominava e annullava.
Ma la voglia, la ferma volontà di sopravvivere e non cedere alla fine avevano mostrato la loro forza e in segreto aveva concluso i suoi studi in medicina. Avrebbe lavorato e lottato per le donne come lei, in psichiatria. Doveva cercare di capire quali meccanismi intervenissero a bloccare lo spirito libero in una donna riducendola a uno straccio di nuda sopravvivenza mentre lui, il maschio, prosperava al suo fianco. Avrebbe provato a salvarsi, il suo destino non avrebbe seguito il filo di Arianna delle altre donne, le meno fortunate. No, lei sarebbe stata diversa.
Ricordava ancora quel giorno. La corsa in città col primo treno del mattino. La cerimonia di laurea a sua insaputa. L’aveva detto solo alla mamma. Povera mamma! Se n’era andata due anni prima dopo aver sofferto per un cancro fulminante al fegato e lei, all’estero, non era riuscita ad arrivare in tempo. Eppure quel giorno, per lei così importante perché avrebbe aperto le porte per la libertà, lei era lì. Le era stata sempre vicino, anche quando non aveva condiviso le sue scelte continuando a proteggerla in segreto contro un uomo che non le era mai piaciuto.
Era stata bella quella giornata! Una laurea importante, ottenuta a prezzo di grandi sacrifici e l’inizio di nuovi e più grandiosi progetti. I complimenti del professore che l’aveva seguita per la tesi, del suo correlatore. I colleghi di corso. Le amiche d’infanzia. Poi, in fondo all’aula dove si tenevano le lauree, l’aveva visto. Sì. Lui era lì. Ma come l’aveva saputo. Ma chi gliel’aveva detto?
Si era avvicinato con uno sguardo strano, vuoto e inespressivo. Le aveva stretto il braccio, l’aveva strattonata trascinandola fuori mentre tutti guardavano la scena e presi di sorpresa non riuscivano a intervenire. Ricordava appena il viaggio in macchina seduta accanto a lui. Era stato come un incubo che si pensa finisca presto e dal quale si desidera svegliarsi. Ma l’incubo continuava e lei non smetteva di pizzicarsi il braccio ripetendo a se stessa che no, non poteva finire tutto così. Sperava solo che le sue amiche avrebbero accompagnato la mamma a casa.
Rientrati infine gli schiaffi si erano mescolati a grida e suoni indistinti che le scivolavano addosso. Quasi non sentiva il dolore e le lacrime di rabbia l’avevano sostenuta nel programmare la prossima mossa. Ancora adesso si chiedeva cosa le avesse dato la forza di alzarsi dal letto il giorno dopo per leccarsi le ferite. Lui era uscito, come niente fosse. L’aveva guardata rassicurato nella certezza che no, non ci avrebbe riprovato più.
Il suo scoglio. Eccolo qui, a riportarla indietro a quegli anni di forza e coraggio miste a lenta rassegnazione. Il desiderio di lasciarsi andare l’aveva posseduta a un certo punto, privandola di forza vitale, finché una voce dentro di lei l’aveva spinta inesorabilmente verso la fine di quel logorio dell’anima. Si trattava di scegliere, vivere o morire.
Era successo così, improvvisamente. Quel terribile e indimenticabile giorno stava preparando la sua borsa. Lui sarebbe rientrato tardi, di sera. Almeno così le aveva detto e lei doveva fare in fretta. Le sarebbe bastato poco, doveva fare delle scelte e subito. Tanto poi sarebbe riuscita a rimediarsi qualcosa. Un lavoro, una casa. Non aveva paura delle incognite che l’attendevano lì, fuori, nel mondo reale. Nulla sarebbe stato più duro da sopportare di quell’inferno. Aveva finito e trascinandosi dietro il suo bagaglio si era precipitata a mare. Doveva salutare il suo scoglio. Non era rimasta sola a lungo. La sua presenza dietro di lei si era palesata improvvisamente come un’ombra di male oscuro ed il mare aveva cambiato colore. Si era voltata di scatto ma, stavolta, sapeva bene cosa fare e le onde l’avrebbero aiutata. Il mare si era ingrossato da un momento all’altro e l’ombra di male oscuro si era sciolta mescolandosi con gli spruzzi grigiastri delle acque agitate sugli scogli.
**********
Doveva andare ora o avrebbero cominciato senza di lei. Un ultimo saluto a quel tratto di costa e ai colori a lei tanto cari. Mentre si lisciava la gonna e si rimetteva le scarpe, un ultimo sguardo allo scoglio le restituì delle immagini che aveva cercato di seppellire negli oscuri corridoi della memoria. Ricordava ancora la ferocia animale delle onde, l’abbraccio protettivo del mare e un corpo trascinato negli abissi con delle braccia che si agitavano per chiedere un aiuto che non avrebbero ricevuto da nessuno.
Il Filo del Rasoio
In questa vita che scorre veloce e ti forza ad alzare il passo,
cammini sempre sul filo del rasoio che divide
il bene dal male,
l’odio dall’amore,
la luce dalle tenebre,
la logica dalle irrazionalita’ delle passioni e l’assurdita’ di certe azioni.
Spera sempre che ci siano dall’altra parte delle mani protese verso di te,
che si ergano a muro, che ti tengano quantomeno in equilibrio sul filo del rasoio.
Non vorrei che tu sperimentassi la caduta,
non vorrei che tu godessi delle tue azioni effimere, illogiche e pericolose.
Non vorrei vederti con il sorriso sulle labbra e lo sguardo compiacente a godere
della tua parte piu’ buia che adesso regna nel nulla.
Filippo Piazza
Sezione A
Accetto il regolamento
MUTILATA DI TE
S’avvolgono a viticcio
le bianche nuvole tra le stelle,
tra i siderali bisbigli
d’una infiorata luna rossa.
C’è un odore di sale
dalle pallide dune di sabbia,
e l’ondeggiare fantasma
della chiarità dell’ora.
Vivo, mutilata di te,
i tremuli scricchi, lievi
nel silenzio ghigno
d’un funebre rintocco.
Vorrei essere neve al sole,
e sulle radici del sogno
gocciare lacrime dolci,
giù per i nudi rigagnoli.
Di notte, al soffio delle cose,
tutto, ora, ruinante tace,
più non sparge vital semente,
né avviva un fiato d’amore.
E in tenebria sol accampa
un fioco bagliore, ingordo
di speranza nuova, mirante
alla forza dell’anima.
Ma, ancora duole la ferita
che in cuore non tace,
nera di febbre, tremante
a cincischiare balbuzie.
Sandra Ludovici
Sezione A
Accetto il regolamento
Marco Salvario
Sezione b – Accetto il Regolamento
Mario è pazzo.
Mario grida verso la strada dal suo balcone al primo piano. Ogni giorno, almeno due volte, la sua sfuriata si scatena indignata e impotente contro coloro che stanno facendo qualcosa contro di lui o contro la città. Alcuni si offendono, rispondono alle minacce, altri ridono, fingono di non sentire, lo provocano. I più alzano le spalle e pensano che sia fuori di testa.
Mario urla contro chi parcheggia nel posto che gli è riservato come handicappato, e se ne va a fare la spesa sul mercato, o entra in posta, o va a prendersi un caffè. Urla contro chi lascia i rifiuti fuori dai cassonetti, contro chi sfreccia in monopattino sul marciapiede, contro gli automobilisti troppo veloci, contro i ciclisti che pedalano contromano.
Mario non ha mai sopportato le ingiustizie e i furbi di ogni ceto e di ogni razza.
Quando lavorava in fabbrica, era un sindacalista rispettato, perché si esponeva per i suoi compagni, affrontava i padroni a muso duro, dando tutto se stesso con passione, finché un infarto l’ha schiantato durante una discussione. I medici avevano sentenziato che Mario era paralizzato, che non si sarebbe mai più alzato dal letto; lui aveva risposto con un filo di voce, che doveva continuare a vivere, perché sua moglie era giovane, perché aveva due figlie piccole e perché c’era troppa ingiustizia contro cui combattere. Alla fine la sua volontà aveva vinto e si era rimesso in piedi, anche se barcollante e rallentato.
Alle sette del mattino caricava la stampella sulla bicicletta e andava al lavoro. Mai in ritardo, il Mario in bicicletta.
Si è rimesso a combattere, quando nel quartiere la movida ha cominciato a scatenare le sue notturne urla animali e gli spacciatori aspettavano sempre più numerosi e arroganti i clienti agli angoli delle strade. Mario ha contattato senza essere ascoltato ogni possibile responsabile cittadino, poi, furioso, è sceso in strada con un piccolo gruppo di impavidi. In alcune occasioni mi sono unito anch’io. Sfilavamo e sfidavamo i cattivi cantando i nostri slogan: “Spacciatori! Via di qua, via di là, via da tutta la città!”
Ci hanno tirato addosso pietre e bottiglie, ci hanno mostrato i coltelli; una notte un nigeriano ci ha sparato, ma la polizia ha detto che non era vero, che era solo esploso un petardo e che l’avevamo lanciato noi.
Un giovane assessore è venuto a spiegarci che dovevamo essere felici di vivere in un quartiere così vivace e che proprio non capiva perché ci lamentavano. Lui, però, abitava in un villino sulla collina, al di là del Po.
I giornali hanno cominciato a scrivere: “No alle ronde!” e alla fine è stata organizzata una bella contromanifestazione al grido: “Via i fascisti dal quartiere!”
I fascisti erano i residenti che speravano di dormire la notte e che non volevano vedere ragazzi e ragazze ubriacarsi e drogarsi, rovinando le proprie vite. Mario ed io eravamo i fascisti.
Due o tre notti dopo la manifestazione, sono venuti in una trentina sotto casa nostra a urlare e a spaccarci i citofoni. Ce l’hanno detta chiara: “Vi ammazzeremo e quello con la stampella per primo, con tutta la sua famiglia!”
Mario non è riuscito ad accettare la sconfitta e i suoi nervi hanno cominciato a cedere. Lo abbiamo lasciato solo o, per meglio dire, ci siamo dispersi.
Una sera, mentre tornavo dal lavoro, io ho trovato una mezza dozzina di bruti palestrati ad attendermi. Mi hanno spinto contro il muro, mi hanno dato due belle sberle e mi hanno avvertito: “Lo sai che i tuoi genitori restano soli, mentre tu al pomeriggio non ci sei?”
Che cosa potevo fare? Questa gente ha soldi per pagare politici, giornalisti, polizia, avvocati, giudici; io che cosa potevo fare? Fossi stato ricco, avrei cambiato abitazione e quartiere, invece mi sono rassegnato a mettere i tripli vetri agli infissi e a dormire con i tappi nelle orecchie. A cercare di dormire.
Oggi mi sforzo di non pensare più a nulla, di non credere più a nulla, di non vedere più nulla.
Sono diventato cattivo ed egoista.
L’inquinamento sta avvelenando la Terra? Bene! Le droghe ormai a disposizione di tutti? Sballo è bello! La pandemia ha ucciso milioni di persone? Viva gli untori! La fame stermina interi popoli? Dieta per tutti! Ci avviamo verso una guerra nucleare? Fantastico, finale con il botto!
Soltanto mi dispiace per Mario, sempre più magro, ormai incapace di reggersi in piedi. Me l’hanno ridotto così, lui che era puro, onesto, che credeva nella giustizia.
Pazzo furioso.
Però, ieri, quando i suoi occhi si sono fissati per qualche secondo nei miei, ho provato un brivido.
E se fingesse?
Ora che tutti lo dicono pazzo, può urlare, insultare, offendere, senza che nessuno lo fermi. Lui è pazzo! Cosa serve arrestarlo o denunciarlo?
Penso a Pirandello, al Berretto a sonagli, e capisco che devo fingermi folle anch’io, per potere gridare le mie verità, senza rischiare di perdere nulla, senza che qualcuno possa chiedermene ragione.
Per questo sono pazzo, per questo sarò pazzo!
Bravissimo, complimenti!
ACCETTO IL REGOLAMENTO.
SEZ. A
30 SETTEMBRE 2017
Io soffro di questa capacità
umana di vivere di giochi
di potere
di fughe e di dolore
anziché alimentarsi di bellezza.
Soffro la solitudine di chi,
credendo nella bellezza,
inizia a vacillare
continua a spalancare gli occhi da bambina
su speranze di riconoscimenti -reciproci-
e affetti.
Ma non voglio più prestare il fianco.
Io soffro il dondolare di parole
e di gesti – quali gesti, imitazione di vita –
il dondolare spietato di una mano da un viso a
un altrove fatto di silenzi e rifiuti.
E le parole che scivolano
lontane dal calore umano
lontane dal colore di occhi
che agognano
solo
occhi.
Io ricordo
– e mi attacco al ricordo come neonata al seno –
ricordo
presenza e mani
ricordo voci che
senza fughe pronunciavano il mio nome.
Io ricordo la mia voce
– senza fuggire chiamava un nome -.
Io non voglio
– non voglio e non posso-
soffrire il ricordo
né dondolare dall’amore
al niente.
non voglio scivolare
nella lascivia del niente.
non voglio spalancare
gli occhi
se non serve a vedere
né giocare al potere
– a chi soffre, a chi vince-.
Io non voglio più prestare il fianco.
QUELL’ALA OSCURA
“Era una notte serena e luminosa. Tutto ad un tratto la luna scomparve dietro l’ala alla mia sinistra, mentre l’aereo virava per atterrare…”
Guardo un attimo la donna al mio fianco, poi il cerchio giallastro della luna che illumina una striscia lontana di mare, mentre sembra appoggiarsi sulla corona stellata che cinge il capo della Madonna in pietra davanti a noi, in una strana inversione dell’immagine consueta.
“Perché me lo dice, signora?”, chiedo mentre un vento teso muove il mio abito e il foulard di lei.
“Questa luna me l’ha fatto ricordare, purtroppo”, risponde con quel suo delizioso accento spagnolo, guardando rigida davanti a sé.
“Purtroppo?”, indago.
“Oh, poi l’aereo si è stabilizzato e la luna ovviamente è ricomparsa. Ma non sa, madre, l’angoscia che mi ha assalito, in quei momenti…e non so perché”
Mentre parla, un’auto passa rombando sulla provinciale che si snoda fra gli ulivi e i suoi fari la illuminano fugacemente, proiettando sulla ghiaia l’ombra di lei, sovrapposta a quella contorta dei rami…
Negli istanti in cui accade, la sua figura si fa chiara: vestita così, con quei pantaloni di fustagno blu e il pellicciotto beige, senza (troppo) trucco e parrucco, è solo una magnifica quarantenne che il tempo comincia a sfiorire, niente di più. E io, che di anni ne ho qualcuno in meno, mi sento chiamare madre…
Le luci di un aereo mi distolgono da lei e fanno sorgere una domanda:
“E dove era diretta, signora?”
“A Taranto” – precisa – “Uno spettacolo organizzato per i lavoratori dell’acciaieria”
“Taranto!” – la interrompo esclamando – “La città dei due mari, così bella e così infelice…Ci sono stata, sa? Si vedevano il Mar Piccolo e il Grande, in certi momenti, durante l’atterraggio, e anche allora c’era una bella luna, sopra …”
Mi blocco. Possibile?
“Mi scusi, signora” – chiedo – “Ma quando è successo l’episodio che mi ha raccontato, la luna dov’era?”
“Bassa, sul mare. Ma porque?”
“E allora in quel momento l’ala non ha coperto solo la luna, ma anche i mari. Mi comprende?”
Lei scuote la testa.
“Luna e mari erano spariti. La sua Luna Mari era scomparsa…so di quella donna, signora Rodriguez. Che tempo fa pretese di essere la vera madre di Luna Mari”
Lei si gira di scatto, mi volta verso di se afferrandomi per le spalle…
“Madre de Dios!” – esclama, poi si ricompone – “È sicura di essere una suora, lei?”
Non riesco a trattenere una risata.
“Abbastanza, direi. Però prima di prendere i voti stavo per laurearmi in psicologia alla Cattolica di Milano, diciamo che mi è rimasta la passione…”
Lei mi guarda in modo strano, con quei profondi occhi scuri che Emma, sua rivale d’un tempo, le invidiava così tanto da metterli in una canzone, occhi con un fondo di paura, lo stesso che avevano mentre scendeva lo scalone mostrando a tutti la farfallina…
“Lei è muy bonita, madre” – dice alla fine – “Y muy joven, tambien…”
“Lo so” – rispondo – “Però stop, la prego! Non vada avanti con le solite cose su chi me l’ha fatto fare di chiudermi in un convento et similia, ok? E se vuole sapete se ho mai avuto qualcuno, si: Saverio. Andavo a trovare lui, a Taranto. Era giusto, vederci un’ultima volta… Anche se poi non è stata l’ultima. Qualche volta vengono a trovarci, lui, la moglie Claudia e i piccoli Nicola e Mattia. Mi attrae ancora, sa? Dopo dieci anni. E per lui è uguale… ”
“E non ha paura di ciò?”, mi domanda perplessa.
“Paura?” – replico stringendo quelle sue mani curate e fredde – “È meraviglioso! Quando il desiderio è forte mi inginocchio davanti al Santissimo e lo sfido:
“Ok, Figlio di Maria, fammi capire, qui e ora, se la scelta del convento è giusta per me.”
A proposito, Luna Mari è battezzata?”
“Sì, certo…”
“Bene”
Mentre lo dico, penso tremando a quell’ombra, a quell’ala oscura che talvolta si mette tra noi e la luce, impedendoci di vedere (o addirittura facendoci dubitare che esistano…) il vero, il bello e il giusto.
Poi il vento mi porta con l’odore acre del concime il rintocco della compieta e delle mie sorelle il canto, e Lui mi trema negli occhi.
sez. b, accetto il regolamento
MIO FRATELLO PIPPI
Mio fratello Pippi sceglieva uno di noi gemelli per i suoi passatempi, e una volta fatta la scelta non c’era verso che potesse cambiare idea. Solo che con lui il prescelto andava al patibolo.
«Devo fare la cacca» mi ribellavo io.
«L’ha appena fatta» diceva subito Teto, anche se non era vero.
«Camina!» mi ordinava.
Mi portava al giardino, duecento metri di distanza da casa. Era un giardino recintato con alti muri di pietrame a secco, un piccolo casolare e una cisterna, un bel viale pergolato e tanti alberi da frutta. Lo coltivava mio padre, a modo suo. Oggi ospita la bella casa di Teto, del vecchio giardino non è rimasto niente.
Le cicale cantavano, il sole scoppiava. Era sempre di pomeriggio, in piena estate, un caldo africano. Mi portava a catturare gli uccelli con la trappola della conca. Non era un esperto, non rimediava granché, lo faceva soprattutto per sadico divertimento.
Appena ci sedevamo sui conci di tufo dentro il pagliaio, fuori calavano assetati tutti gli uccelli di questo mondo.
«Sss!» mi sussurrava, guardando da uno spiraglio. «Cardilli e verdoni».
Fuori non c’era niente, lo vedevo bene, altro che stormo. Rimanevo in silenzio.
«Ssssss!» ripeteva, e cominciava a pizzicarmi le gambe.
E continuava a farlo sempre più forte, intimandomi il silenzio, fino a quando non mi mettevo a urlare per il dolore.
«Li hai fatti scappare tutti, maledetto!» si metteva platealmente a piagnucolare.
Ma dopo un po’ gli uccelli ricominciavano a scendere a frotte, purtroppo.
Poi mi mandava a casa a prendere un po’ di pane, per mangiarlo con le cicorie e i finocchi del giardino, solo il tempo di andare e tornare. Sputava per terra, lo sputo non doveva seccarsi.
Quando uscivo dalla porta, era come se mi lasciassi alle spalle quella dell’inferno.
Il mio gemello se la rideva: «Mo’ che rientri, fischia bene, mi raccomando!».
Al ritorno, prima di aprire la porta del giardino, dovevo fischiare. Se non ricevevo fischio di risposta avevo l’obbligo di rimanere fuori in silenzio, significava che c’erano uccelli vicino alla conca, non dovevo disturbarli e farli volare via. Ma lui me lo dava sempre, io entravo e negava di aver fischiato. E via pizzichi sulle gambe nude perché li avevo fatti scappare.
«Ce n’erano cento!» si disperava, scuotendo platealmente la testa. «Disgraziato, adesso mi butto nel pozzo!».
Usciva dal pagliaio e si appendeva al postale della cisterna, con tutto il corpo dentro, gli vedevo solo le mani. Avrò avuto quattro-cinque anni, lo spettacolo mi sgomentava. Che cosa avrei fatto se fosse caduto? Rimanendo lontano, in piedi vicino al pagliaio, mi partiva un prolungato lamento greco.
Nelle sere di inverno succedeva che prendesse per mano uno di noi e se lo trascinasse nella casa della nonna Lucia. Si sedeva al tavolo e mangiava. Il prigioniero catturato doveva tenergli compagnia seduto sulla sedia dal lato opposto, vicino al buio della finestra.
A un certo punto, masticando, alzava gli occhi al di sopra della mia testa e guardava come se ci fosse qualcuno alle spalle, un mostro con la bocca spalancata, un drago di fuoco, un demonio con la coda.
«Lascialo stare!» gli diceva sgranando gli occhi. «Che cosa ti ha fatto?».
E a me: «Resta fermo!» sussurrava.
Mi scappava la pipì, ma non osavo muovermi, terrorizzato rimanevo impalato. Il minimo spostamento di qualunque parte del corpo gli avrebbe dato il pretesto, pensavo, per azzannarmi. Né potevo impedire che mi nascesse da dentro un debolissimo lamento di sgomento, appena percettibile.
Oggi il Peppe è su una sedia a rotelle. Ha avuto un ictus due anni fa mentre si trovava in Polonia, inseguendo una chimera. In parallelo al suo lavoro in banca ha sempre dipinto, quadri olio su tela, con ottimi risultati. Ha esposto anche a Parigi e a Poznan. Quadri ispirati al realismo mediterraneo delle sue radici salentine mai dimenticate, le luci del meridione, la solitudine dei vecchi, gli ulivi e i cascinali, le barche e il mare.
Non parla bene e quando gli ricordo le sue cattiverie dice di no con la testa e congiunge le mani come se pregasse, come se mi pregasse di non dire così. Le avrà dimenticate? Sono certo di no, credo gli dispiaccia che io le ricordi ancora, dopo tanto tempo.
sez. b, accetto il regolamento
LA GABBIA
«Quello è uno scimpanzé»
disse la mamma al suo bambino
davanti alla gabbia dello zoo.
«È il nostro parente più vicino,
l’animale più intelligente dopo l’uomo.
Prima eravamo come loro;
prendevamo gli oggetti pure con i piedi,
ci appendevamo ai rami con la coda
e avevamo tutto il corpo con i peli»
«Quello è un esemplare della razza umana»
disse la madre al piccolo scimpanzé
dentro la gabbia dello zoo
«e noi diventeremo come loro,
un passo dopo l’altro nell’evoluzione.
Scenderemo dagli alberi, cammineremo eretti,
impareremo a scrivere, costruiremo ponti
e grattacieli, inventeremo i moschetti
e tante altre armi di distruzione»
«Com’era bello, allora!» disse il bambino
«non c’era bisogno di appendere l’altalena
al nostro albero del giardino»
«Allora sì che sarà bello, mamma!»
disse il piccolo primate.
«Avrò il carro armato e la mitragliatrice
e li faccio stare tutti a mani alzate»
sez. a, accetto il regolamento
Sassi
Mura di cinta
Di sassi e di roccia
Fiumi di ciottoli scavati dal tempo
e vecchie fortezze.
Ricordi di guerre e battaglie
di sangue versato.
Padre odo gli assedi.
Cimiteri
campi macchiati di sangue
e primavere a coprir vallate
d’ erba di profumi e colori
di lacrime e sassi.
(Sezione A poesia)
Un viaggio
L’U. stava tornando, era tornato. (Il viaggio in treno, col suo sferragliaruante aveva favorito un sonno a intervalli). Durante, prima di arrivare cioè, qualcuno gli aveva chiesandato: da dove, per dove? Un luogo e un tempo? L’U. aveva chiesto. Sulla retella sustante aveva stemato il bagaglio, sistente in valigetta a cerniere serranti e in musismento a trompetta terminante in imbuto vasato. Intanto, s’informò del rimborso: per l’afa incontrata e per il gelo interseccato. Poi avrebbe raccontato – a coloro che nello scompartimento erano in ansia angustiosa – tre racconti: di una donna, di una cosa indistinta, di un animale volante. Un solo dubbio: se finirle troppo presto! L’inventario l’avrebbe aiutato. Segnava sotto una riga la somma (da sottrarre). Perdere e guadagnare, in altro epilogo. L’U. divise il tempo per tre, per assonanza morale. Nel fralluogo del tempo considerò (come sempre) passato e futuro, escludendo il presente non attraente e neanche bastante. Guardò fuori: era già notte. Il rumore del treno era ferrigno: non aveva imparato a pensarlo. Peccato di senescentitù(dine).
Smemoratezza: era opportuno per l’U. aver paura di morire? Immaginava la morte come una vecchia china su di lui a guardarlo, scarna la mano svenata di blu, manica a parte. Lei l’aspettava al binario, l’U., di cinquantanni o quaranta, non nonagenario, udito che non conosceva l’anno d’arrivo.
Il treno non si decideva, malgrado s’affrettasse: non era malato. La notte insisteva, (continuando) durante il viaggio, a mostrarsi tempestosa e chiara, qual quella amata da Caspar Friedrich. Un ricordo nel tempo (sempre di mezzo), di mille ore le un dopo l’altre attese. Ma la donna (del racconto) in casa smaniava. Allora, narrava l’U.: lei aveva alzato al cielo le braccia, cadenti per gràvita soma, sciorinate, del genere cencio (nel secchio). Bellezza sfiorente in capelli sciogliente(si), sudici e grigi, scarmiti. Volto succhiato, voce da aiuto implorante, prima di riprendere un lavoro anelato: cioè sollevare vecchi oggetti, spostarli, avvinarli. Pantomime giaculanti, dedicate ad altre già decedenti. La donna: lei non sapeva se fosse o no sola in casa, se dubitarne. Si alzò, dunque, la donna. Rimase immobile a guardarsi, mentre la luce del giorno era d’intorno e all’esterno: elargita, irrompente, divorata dall’ombra: era (fu) un oramai, sentimentale, invornita giammai. Nello scompartimento sorridevano in tre. “E gli altri racconti?” Il seduto di fronte gli chiese.
L’ora scocchiava per la cosa indistinta in attesa.
“L’indistinta?” l’U. domandò.
“Orsù, non si vergogni”, disse quello al fianco sedente del primo seduto.
“Orsù, non tergiversi”, disse a l’U. l’affiancato.
Il treno correva nella notte, forse verso l’inizio del mondo. E l’U. raccontò.
La gente entrava e usciva dallo scompartimento… Il nostro? L’interruppe l’affiancato. No, disse l’U.: immaginario. L’altro tacque.
E l’U. …dallo scompartimento di continuo persone entravano in filo-cessione, come vigili e approntate ad autosorabile morte. L’ombra era invincibile, saliva sui volti, era la voce del silenzio (indistinto). Ma il silenzio permetteva di ritrovare il suono della giovinezza anecro(t)ica? Il treno si fermò inavveduto in secondaria stazione. La donna (quella citata) camminava sul camminamento affiancato, portando acqua in un secchio d’acquapieno, lo porse a quello al fianco del primo seduto che lo svuotò sulla testa di lei. Il treno partì.
L’affiancato: “Bellissimi racconti, me li deve scrivere sulla mia pagina FB, li leggerò leggendoli, lei mi deve autorizzare a condividerli, tutti aggiungeranno dei cuori, anche la donna inondata (più su e pocanzi, n.d.r.), di gioia piangerà”. Sorrise l’U nel frontato rispondere. Poi si alzò per afferrare il bagaglio sulla retella.
Ma l’affiancato:” E l’animale volante? Lei non può andar via così”.
L’U.: “Il volante volava nel silenzio fumoso, nella polvere smossa da terra guasta (alcun disse vastata) e alta nel cielo. A cosa somigliava, se non a quell’ombra appena accennata? Lui (il volante) elargiva un piccolo ghigno, meno di un sorriso però, sul sembiante bassamente espressivo”.
Il volante o l’U.? Chiese il di fronte all’affiancato, rivolto all’U..
Il silenzio ora era calmo, esaurito era il mormorio. Le ruote più non giravano sugli assi lubricati ferrosi. Tra loro s’infilava il vento fischiante, portando la sabbia delle strade sterrate d’intorno e gli striduli gracchi dei pennuti indifferenti ai viaggianti. La notte restava tacita, come in attesa di un’altra tempesta. Passeggeri in affanno. Le espressioni, pronte a domande senza risposta, amusavano l’U. I latrati di cani rognanti salivano, nella notte odorosa, dalle colline e dai villaggi sperduti, dove, da tempo, vivevano taglialegna incupiti da inestirpabili calli. L’U. si mosse, saggiamente dicendo: Un minimo di memoria per vivere coi necessari rimpianti. Necessari? Esclamarono in coro i tre sedenti e chiedenti in un confuso e strenato parlare.
Sì, necessari, l’U. chiosò come ultimo detto duellante. Il di fronte all’affiancato gli chiese: Potete dirmi cos’è quello svaso ottonato? E l’U., rispondendo gentile: un curiosometro. Cioè un cu(cù)-metro, o curio-somètro. Non parve soddisfatto il chiedente, che chiese: Ungherese? Ma l’U.: no, perché? Così, mi sembrava, quello rispose.
Poi l’U. si avviò e scese dal treno ormai pronto a partire.
Paolo Massimo Rossi Scrittore
SEZONE B, Accetto il regolamento
Partecipo sez a. Accetto il regolamento Distanze
Ci sono distanze
che graffiano la pelle
s’infiltrano in ogni crepa
e la fanno sanguinare,
distanze mute
coricate di fianco
nello stesso letto
a congelare le ossa,
e poi ci son quelle distanze
legate da fili invisibili,
indissolubili,
così vicine che le senti,
e si sfiorano
come carezze leggere
di vento,
come il lago
che con le sue acque
lambisce i piedi della rupe
ma non arriva al cuore
fermando il battito.
“METAMORFOSI”
Ogni mattina mi guardo allo specchio.
Come tutti.
Anche se non è da tutti specchiarsi e vedere il viso riflesso diverso ogni giorno.
Lo psichiatra diceva che probabilmente il mio problema deriva dall’aver avuto un’infanzia triste e priva d’amore. Solo perché mia madre mi diceva sempre che non valevo niente e che con la mia faccia non sarei andata da nessuna parte.
Beh, non che in effetti abbia fatto molta strada con la sua!
Troppo grande, troppo vecchia. Ma almeno aveva finito di strillare.
Mi piaceva la faccia della mia vicina di casa, ma non l’ho potuta portare fuori per colpa della pettegola del vicinato, sempre alla finestra. Però mi sono fatta una bella foto ricordo!
Certo il paese era piccolo e le belle facce sono finite presto.
Qualcuno poi aveva cominciato a sospettare di me e così me ne sono dovuta andare.
Quando invece mi sono trasferita nella grande città, nessuno faceva caso a me, perché nessuno fa caso a nessuno in una grande città.
Così potevo portare tutte le facce che volevo, quelle che mi piacevano di più.
Anche quella della commessa che aveva cominciato a fare troppe domande ogni volta in cui andavo a comprare diversi litri di formaldeide.
E pure la signorina carina della profumeria dove tutte le settimane mi rifornivo di fondotinta e cipria. D’altronde dovevo pure uniformare il colorito del mio collo alla faccia che portavo!
Poi ho messo gli occhi addosso alla faccia di una poliziotta.
Ma mica lo sapevo che era una poliziotta!
E mi sono fatta fregare.
Perché vi racconto queste cose?
E’ che adesso che sono in galera, mi hanno chiesto di scrivere da quando ho iniziato e quante donne ho ucciso, quando e dove, cosa ne ho fatto dei cadaveri, perché questa mania per i volti, perché mimetizzarsi, trasformarsi in qualcun altro.
Dicono che se la butto giù bene, il giudice potrebbe anche essere abbastanza clemente, per via dell’infanzia triste e senza amore, eccetera eccetera.
Mah, è che in fondo non mi dispiace la mia faccia, ma c’è chi si cambia vestito tutti i giorni…perché io non potevo cambiarmi la faccia?
Così, se volevo essere più giovane, non avevo nemmeno bisogno del chirurgo plastico!
Dicono che se continuo così, il giudice potrebbe richiedere la perizia psichiatrica e che se tutto va bene, mi danno per matta e mi tolgono da qui per mandarmi in un ospedale.
Sempre meglio che in galera, di sicuro!
Dicono che il giudice sia una donna.
Chissà che faccia ha…
Sezione B – Daniela Giorgini – Accetto il regolamento
Bella! Inquietante senza essere splatter, mi è piaciuto il modo con cui fai capire a poco a poco che il cambiare faccia della protagonista non è un modo di dire.
Daniela, ho visto solo ora la tua fotina: sei ls stessa signora che nei concorsi precedenti hai inviato storie d’amore? Se è così, che….metamorfosi!
Roberta Sgrò
Sezione A -Poesia- inedita
Accetto il regolamento
In fuga dal perdersi e il perdersi in te
La stanza danza
mentre io sorseggio un sogno
e le mie dita suonano
la melodia più bella che conosca
che si compone di aria, di polvere, di miele
e di speranza,
con gli occhi chiusi e un riflesso nell’iride
che sa di luce.
Ti penso ed il mondo cessa di ruotare:
tutto il mare crolla nell’universo
mentre le piante lottano per rimanere in salvo
e nella mia mente si affievolisce il senno.
Ti osservo e lamponi appena colti si rovesciano dal cestino,
tu ti chini a raccoglierli
così il cappello di paglia di casca
ed io con lui, in cerca di gravità.
Sei fatto di miele anche tu? Ti domando
Ma tu non canti e non sai che dire.
Ci pensano le cicale a rispondere,
mentre il silenzio non ci separa più
perché bacio le tue labbra
e così tutto ricomincia ad avere senso
mentre la stanza danza, ed io apro gli occhi color oliva
e tu, dinnanzi a te, perso tra i pensieri
mi concedi un contatto
che fa ricominciare tutto,
-e così casca, e così è in ordine-.
Vellise Pilotti
Sez a
Accetto il regolamento
Dopo la reclame
Starei sdraiata
a guardare il buio
tra una stella e l’altra.
Sarei pazza
se mi accontentassi
delle parole degli altri.
Estranea
a questo mondo
che sfarfalla
tirando le fila
di bislacchi balocchi
e segreti rimpianti.
Io sorrido
all’ inamidato personaggio di turno,
e ringrazio con un inchino.
Lo spettacolo è finito.
La vita vera
comincia dopo la reclame.
EVANESCENTI FORME
Evanescenti forme giacenti aggomitolate
dentro cesti di canne su paglia e fieno,
ferite alla flebile fiamma della candela,
nemmeno un cuscino di raso
a sostenere le onde del mare in burrasca,
nemmeno una rete da pesca
a raccogliere gli occhi bruciati dal gelo,
forse soltanto una mela
racconta le orme dei passi segnati sui muri,
mentre le ombre si alternano in giochi crudeli,
dove l’amore è sepolto da foglie lasciate marcire.
Alla radio la stessa canzone,
col volume portato alle stelle
per disperdere in aria i frammenti di sogni lasciati
a cospargere cenere sulla bocca di camici bianchi,
petali strani di odori inusuali a rammendar le sinapsi,
mentre l’anima intatta scava
luminosi cunicoli nei grumi di sangue rappreso
e scrive con acqua di mare
sui fogli fatti di sabbia stesi nel vento e nel sole,
come bandiere d’un solo colore
-lasciatemi stare nell’oasi quieta della mia imperfezione,
perfetta nel delirio delle mie lacrime amare,
ladra perfetta di notti d’amore su lenzuola di seta,
unico tarlo la follia del dolore-.
Sui tetti macchiati da cieli di fango
si perde l’inchiostro di emozioni passate
in scatole bianche riposte e ingoiate.
Evanescenti forme si destano ancora tra fiori di campo
e madri rinascono ai riverberi di primavera.
Sez A- accetto il regolamento
(Favola realisticamente folle)
IL CASTELLO IMPERFETTO
Il Re e la Regina vivevano nel grande Castello fiorito dalle alte torri, dove in stanze murate erano rinchiusi gli anelli di lunghe catene inconcluse. Danzavano nel grande salone incantato il ballo di sconosciuti avi, il sole impaurito gettava i suoi raggi sul decrepito corpo del principe ereditario, fiero di mostrare per la prima volta in battaglia il suo coraggio contro la paura ricca di secoli di schiavitù tramandata.
La piccola principessa legge sui libri di scuola storie raccontate da un metro incolore, vorrebbe volare, toccare terre lontane, farsi dire dai sassi bagnati di sangue la vita, la storia che torna, esce dalla grande piramide che seppellì il muratore, nella grande caldaia che impasta la potenza del signore con piccole irriverenti gocce di sopore.
La principessa guarda le luci del grande salone dove i reali muovono i loro ridicoli passi nel ballo di sconosciuti avi, ma preferisce il sole, corre nel grande giardino del castello imperfetto, non suo, raccoglie guardinga il frutto acerbo del pesco gigante, lo mangia con gusto, il sapore del frutto rubato al normale le piace.
Quante volte si è tolta le scarpe per toccare il piacere dell’umida terra, di fare amicizia col piccolo lombrico impaurito che nasconde il suo fragile corpo sotto la foglia caduta, quante volte si è tolta il vestito da festa e ha saltato l’altissimo muro, quante mani d’artigli l’hanno rincorsa, strappato le ali di carta, coperta d’angoscia, frustrato la sua libertà intuita, deriso la sua ribellione, la rabbia sputata a pezzi, il sorriso cercato invano, le carezze inchiodate nelle piccole mani, i baci senza ricatto, l’affetto richiesto, negato, oppresso, ingoiato, sino alla negazione del caos inconcludente, alla disperata ricerca di lacrime finite, alla tristezza immensa divenuta istintiva, indelebile, a gloria dei figli del Re e della Regina la principessa ha bruciato le certezze del mondo, il Dio sconosciuto stampato da un avido artista, le lunghe ali d’acciaio che divorano beffarde le sue illusioni, i larghi cancelli che rubano la vita, il giardino blu che regala i suoi giochi solitari, le antiche voci noiose che ripetono gradini sempre uguali, il fuoco sempre acceso nel camino a cercare il calore che labbra assenti non danno, i sorrisi in sovrappiù, le gambe sempre in corsa a dare agli altri e a se stessa la sensazione di un’infanzia felice, il pianto soffocato sul cuscino per un amico rubato alla vita, per le lacrime derise dalla Regina che non capisce la disperazione di un giorno svanito al primo mattino, le lunghe strane parole buttate su un diario di scuola per dire agli amici ciò che la voce non sa spiegare.
La piccola principessa ha strappato i vestiti regali, ha fatto falò dei libri di scuola bugiardi, ha sputato il bacio criminale del fratello maggiore, ha smesso di regalare fiori agli amici che si inebriavano del loro odore, non canta più la canzone del cacciatore per poche lire, non chiede più carezze mai avute, nasconde la sua rabbia, varca la soglia della delusione, cerca in un’altra isola risposte a domande soffocate, identità, azioni mai tentate, entusiasmi da verificare. Il castigo è molto più forte della sua ribellione, la lampadina resta accesa sul soffitto, le frasi non dette, i dubbi celati, i desideri non osati, le paure masticate, ingoiate dal non senso, l’ansia che uccide, due note imparate a stento per coprire la malinconia, l’incapacità, la paura di dire ciò che sente, il bene che non sa spiegare, riempire l’angoscia di non fare.
Il Re e la Regina hanno spento le luci del salone, hanno finito il gran ballo degli avi, la rana rimane, continua a saltare nel suo stagno, si tinge la pelle di mille colori, la principessa la vuole toccare, le vuole dire i suoi timori, vuole farsi aiutare, la rana la guarda, le graffia la guancia, le strappa i capelli senza ascoltare, la spinge nell’acqua, la principessa piange per uscire, la rana le salta intorno facendole mille sberleffi, la solitudine di chi non sa farsi capire, il contatto di un bimbo che ti fa ricominciare, parole represse, gesti d’amore che stupiscono le sue paure, bene sentito, avuto e dato senza ricatti, una piccola mano, un sorriso, un bacio, uno scherzo, una parola insistente, cancellano un attimo il vuoto che sentiva dentro, l’amarezza di sempre che cade alla dolcezza infinita di un gesto d’amore infantile, e non sapere perché non sa allungare l’attimo al tutto, non sapere perché gli altri le chiedono ciò che non sanno dare, la debolezza residua di un si troppo a lungo imparato, un grande fuoco acceso sulla riva del mare, i riflessi che giocano con gli occhi, la mente che si lascia andare, bruciare, la pioggia che disturba l’attesa cancella il sonno cercato, la fiamma che si sbriciola piano negli occhi sepolti nel mare, il canto di un corvo lontano, il passo ferito d’una zingara scalza.
La segui, senti le voci lontane, nuove, respinte da tutti, che più alte del sole s’innalzano ancora sempre a incontrare la luna, le stelle, la segui e ti lasci sedere, non vedere, accompagnare e ti unisci a quei canti che sanno di miele, di carezze e sorrisi dati senza scrutare, ti spogli di ogni pudore, riprendi la vita, la corteggi, la lusinghi, le mani si tendono senza chiedere, lontana dal vecchio Castello incominci a danzare, a ornarti di fiori e di sapori, la manina del piccolo bimbo stretta nella tua non ti lascia più, ti basta, il vecchio grillo quel giorno ha smesso di cantare, i fiori nel giardino hanno smesso di crescere e il tuo pianto non si è mai asciugato, ferita, impreparata per sempre a raccogliere i frutti migliori, non ti sei arresa, raccatti le briciole e te le fai bastare, mille spine ti hanno ancora graffiata penetrando il tuo cuore mai sconfitto, e sei fiera del tuo coraggio quando ti volti e vedi riflessa la tua anima nel sorriso di tuo figlio. E vivi. D’improvviso ti svegli e pensi e speri che quello sia davvero il tuo domani.
Sez.B -Accetto il regolamento
PASTOIE CARNALI
Avvolto in corpi
presi a sassate
quante scordate camminate
con Te fragranza voluttuosa
riaffiorano selvaggi ricordi
in sequenza nel ringhio
di strali, di colpi di chiodi
nella ruffiana stravaganza
di condannati ingannati
nel sapore vischioso
contorte danze in catene,
grandine a far sanguinare.
Desiderio infausto
il rimando di raggiungere
il centro capovolto
del mistero di cui nutrirsi.
S’accuisce la sofferenza
per un amore timido
non s’oltrepassa l’apparenza
indecifrabile castrante.
Restare estranei al mondo
mordendo respiri reclusi
dal sapore di rovi arsi
marcire tra giardini di ossa
tra mele assaporando
il miele cadaverico del male
il sorriso di spose
sempre più lontane.
Rarefatta la sostanza
della nube avvolgente
diventare pietra disintegrata
da disordinati impulsi
come cavalli a maciullare
radiosi sentieri coperti da petali.
Se potessi cambiare una volta
per ogni parola inutile
potrei continuare a vivere
quanto questo bosco che cresce
invece rimane soltanto
il grido di un genio
che stasera tornerà
nella dorata dimora
libero nel distacco
di qualsiasi contatto.
sez A accetto il regolamento
— CONTEST CONCLUSO —
Ringraziamo per la partecipazione.
I finalisti saranno contattati via e-mail.
OPERE FINALISTE:
Sez. A
“Io sono Vita” di Grazia Mastromarco
“Ci sono stanze quasi vuote” di Tania Scavolini
“Sveglie come grilli” di Alberto Accorsi
“La mia terra profuma ancora di viole” di Lucia Lo Bianco
“Non m’importa niente” di Serena Pusceddu
“Mani” di Franco Carta
“Gira la giostra (e la scimmietta ha perso la sua coda)” di Massimo Apicella
Sez. B
“La fiaba dell’albero e dell’uomo” di Fabio Soricone
“Un’ora una storia una vita” di Teresa Stringa
“Eptacaidecafobia condominiale” di Mario Borghi
“L’ascensore” di Pietro Rainero
“Il giovane perseguitato” di Vincenzo Giusepponi
“Sogno” di Franco Carta
“Un immaginario Giudice Accusatore” di Linda Motti
Le opere vincitrici saranno pubblicate fra qualche giorno.
Vi ringraziamo per la partecipazione
ARTICOLO OPERE VINCITRICI DEL CONTEST:
https://oubliettemagazine.com/2023/07/28/vincitori-e-finalisti-del-contest-letterario-linquilino-dalla-modica-follia/