“Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi” di Michela Murgia: la vita è un agglomerato frammentario
“Crescere è anche imparare a nascondere gli istinti
che ci porterebbero all’abbrutimento.
La buona educazione è addestramento alla finzione,
a dire che stai bene anche se non è vero.” ‒ Michela Murgia

Ho letto quest’ultimo libro di Michela Murgia “Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi” (Mondadori, 2023) con una rapidità e un’immersione sorprendente, perché i suoi libri sono spaccati di vita così vicini alla nostra quotidianità personale e collettiva che si leggono d’un fiato. Poi ho ripreso a leggerlo, ritornando su annotazioni e appunti, come solitamente faccio.
“Tre ciotole” è una raccolta di dodici racconti correlati, ognuno dei quali collegato all’altro da un unico filo invisibile: la disperata voglia di rimanere dentro la vita, restando se stessi. Ciascuno di essi ha la propria autonomia, ma ci sono tracce, impronte, frammenti che li richiamano, li connettono, quasi come se l’autrice avesse creato un nuovo genere a metà strada tra il romanzo e il racconto.
I personaggi cambiano (a volte ritornano), la narrazione presenta variazioni di punti di vista, di piani temporali, e seppure ogni episodio sia indipendente dall’altro, esiste un principio unificatore che ne determina il movimento e lo sviluppo tematico.
Ogni racconto, infatti, ha porte aperte da cui entrare ed uscire. Sostare se si vuole o poter ritornare, magari rivivendo le nostre piccole manie o i nostri inequivocabili istanti di follia.
Il libro inizia con una vicenda che la stessa autrice definisce autobiografica, un medico le comunica di avere il cancro, e parte da lì per volgere lo sguardo al collettivo, sottolineando che la vita non segue un’unica narrazione estesa (la sua), ma è fatta di un agglomerato frammentario e un disordine caotico di tante narrazioni più piccole.
Volgere lo sguardo intorno a noi, significa rendersi conto che ogni giorno ogni essere umano vive una piccola tragedia, una brusca frattura, uno strappo doloroso e prematuro, un lutto talvolta radicale. Volgere lo sguardo intorno a noi, significa anche che non siamo soli.
Nei racconti di Michela Murgia i personaggi vivono sull’orlo di una soglia fatta di pietà e di terrore e di fronte a questa angoscia che si allarga, tentano una riorganizzazione della loro esistenza, una forma di sopravvivenza, una via di fuga, qualcosa a cui aggrapparsi “io lo chiamo istinto di conservazione”, dirà il protagonista ad un amico nel secondo racconto.
Gesti e rituali, come quello delle tre ciotole, del cartonato Jimin, della disinfestazione/sanificazione maniacale del medico, dei vestiti appesi agli alberi per l’addio alla sorella, possano apparire ammalati di follia ‘rivelatori di fantasie da psicoanalisi’, ma sono pur sempre ciò che riesce a contenere lo straripamento, lo sfacelo psichico e del corpo che crolla.
Dentro questo libro ci sono tante cose, così come tanti spunti di lettura: dalla sua terra d’origine (la Sardegna), alle consapevolezze che non ci arrendono.

Il linguaggio è diretto e asciutto, lucido e ironico, sempre in sfida al senso comune. Accanto alla malattia, ritornano i temi a lei cari della pandemia, della discriminazione di genere, dalla maternità surrogata, dell’eutanasia. E non mancano i rimandi ai difficili rapporti familiari, quelli più faticosi da gestire, a cui dar conto delle nostre scelte, a cui nascondere le fughe, le ossessioni, le manie.
Questo di Michela Murgia è un libro difficile da circoscrivere in una nota di lettura, perché è di quelli che apre a nuovi orizzonti, non lascia soli e non dà colpe. Ognuno di noi, di fronte all’abisso, si salva come può.
Written by Maria Pina Ciancio