“Bar Sport” di Stefano Benni: quella particella che s’allarga fin quasi a scoppiare
Questa non è una recensione, ma è una reazione da bar, poche balle. Viviamo o no in una democrazia da pubblico esercizio in cui tutto, ma proprio tutto, è consentito esprimere la propria opinione su argomenti anche gravi, come la guerra e l’ingiustizia sociale, al bar, con amici, di fronte a una caraffa di vino, una bottiglia di birra o a un caffè? Solo lì, però.
Sono le celeberrime chiacchiere da bar, termine che deriva dal latino bàrra, da cui anche barriera, barricata, sbarra da sbattere sulla testa di chi non la pensa come noi. Ma anche dal celtico, pare, in quanto bar è il ramo d’albero, da cui branch! Quand’ero piccolo, con l’amico Carlo, passavo interi pomeriggi calviniani a cavalcioni di un ramo di ciliegio. Lì ci sentivamo liberi. E potevano dire e fare quello che era giusto per noi. Questo è il bar. Questa è la democrazia.
Non consiglio di affrontare l’argomento al bar perché secondo me prima o poi qualcuno s’adombra e viene fuori con l’esclamazione tipicamente arşâna: mé… a sûn nasû préma che té!: per quanto riguarda me… io sono nasciuto prima di te, veh! Il veh, che significa vedi, è la prova provata che chi parla al bar ha sempre ragione, la sua. Al bar, chi ha torto è pregato di uscire immediatamente, ma nessuno ha torto finché dura la discussione, finché non è stata accertata la particella bohriana, finché nei vari filosofi in quaestionem sussiste un briciolo di energia. Questo è un punto di vista squisitamente popperiano: ognuno può essere falsificato, a parte il sottoscritto. Corre voce che il noto detto Mussolini ha sempre ragione sia nato in un bar di Predappio Nuova, a circa duecento metri dal centro. Poi è meglio che quel tortuoso e sofistico individuo si tolga dai piedi, poiché la sua mera presenza, ancorché silente, aumenta notevolmente l’entropia universale.
Cercherò di limitare al massimo i riporti virgolettati dal testo Bar Sport di Stefano Benni, ma mi domando se insieme al sottoscritto un giorno riuscirò a incontrarlo in qualche bistrot e, anche, se possibile, in quello celeste, ove ogni tanto sogno di poter rivolgere il saluto agli scrittori che hanno allietato la mia vita, a volte intristendola un po’.
Il mio omonimo del resto è ancora qui, a due passi da me, nell’umida Emilia, e chissà se un bel dì… Colà, invece, vorrei fare due chiacchiere con lui alla presenza di alcuni autori a cui ho rivolto il mio pensiero leggendo questo smilzo tomino e precisamente Plauto, Rabelais, Poe, Villaggio e, quando sarà sarà, anche il buon Cavazzoni, avendo appena praticamente divorato due sue snelle operette. Plauto perché è il primo autore, fra quelli che conosco, che ha osato dire l’indicibile. Nooo! Aspetta, il primo è stato Aristofane. Ma che dico! Ce ne sono stati tanti altri prima ancora!
La scrittura è fatta di una logica indecidibilità, per cui si deve fissare sulla carta l’infinititudine del vivere. Diversamente le cose le si direbbero soltanto a voce. Quando uno scrittore scrive, si occupa di argomenti nuovi, i suoi, opportunamente shakerati (sieccherati in arşân), amalgamati, centrifugati, come dopo aver infilato un paio di pesche sciroppate in un frullatore insieme a una scodella di latte vaccino, integralmente intero. L’intruglio che ne deriva, di calorie ne darebbe, certo, ma anche un pizzico di saggezza.
Poi però occorre mettere tutto nero su bianco (con tutte le tinte e le oscurità che compongono questi pseudo-colori). Tutte, ho detto, non le migliori, che il meglio, anzi, la parte migliore non esiste, come disse un poeta a caso, chi era?, Luzi? Sereni? Tutte sono similmente necessarie. Non ugualmente, mi raccomando, che l’uguaglianza è un sogno dappertutto ma al bar in primis!
Il problema è sempre lo stesso: l’Altro. Se lo si accettasse completamente sarebbe la fine. Ci si annullerebbe. Senza la sua maleodoranza ci si sentirebbe come dispersi. No! Il problema è un altro: il giusto mezzo. Ma chissà dov’è andato a finire?! Chissà con chi si è messo?! È un po’ che non lo vedo in giro, ‘sto ignobile traditore…! Se vi capita d’incontrarlo gli potete dire che mi manca tanto?! Senza di lui mi sento un sopravvissuto (meno male!)? Un separato dal cosmo intero…
Fuori non si sta meglio, ma Al bar si muore, diceva una canzone, perché tutti gli orrori del mondo vengono filtrati dalle menti presenti. Ma si vivrà almeno finché quegli orrori lo saranno. Finché qualcuno non dirà agli amici della combriccola: Oh! Non sapete chi è morto…?! Poveretto… eh… Aveva la sua età…! Anche una vana effimera, quando è la sua ora, c’ha la sua età…
Fra gli autori citati poc’anzi, c’è il Rabelais, che un po’, mica tanto dai, rispetto a Stefano, ex-agerava fuori dall’argine, caro il mio Gino! (uno che è dato un po’ che non vedo al bar, e ogni tanto mi va di evocarlo), come forse nessuno prima di lui. Tutto era enorme e pantagruelico, a partire dai suoi personaggi. ma poi è arrivato questo Stefano, che in greco vuol dire corona, che si è pigliato la maglia rosa.
Di Poe ricordo I racconti del grottesco e dell’arabesco, tipo quello, come s’intitola?, ah, L’uomo camaleopardo, e poi quello di quei due facinorosi, uno bassino da dio e l’altro uno spilungone che non finiva più. Entrambi maneschi come lo sono, a fin di bene!, Tex e Carson quando ci si mettono. Quelli però sono tipi da saloon, che poi è la stessa cosa di un bar. Di Villaggio rammento alcune descrizioni terribili di alcuni suoi personaggi, come il Ragionier Filini e la sproporzione di quell’applauso che durò… quanto?… 92 minuti… dopo una sua sintetica e lungimirante recensione del capolavoro di Èjzenštejn, regista che a scrivere il suo nome ci vuole una buona mezz’ora, ma che al bar basta dire eisestin o esistestain o eistesten, comunque sia va bene e tutti capiscono, e mica c’è da cercare il carattere speciale nella barra delle applicazioni. Villaggio connetteva il normale, il banale, al fantasmagorico, un po’ come fa il Cavazzoni e il Celati, di cui ho già ingurgitato metà dei suoi sospiranti.
Di cosa stavamo parlando? Ah! Del Bar Sport… e io sfido chiunque, che non sia di Pisciotta, dove in piazza ci sta il Bar Agorà nonché il Bar Germania e poc’altro, sfido ognuno di voi, dicevo, ad affermare di non essere mai entrato nel Bar Sport cittadino. Io mi son fatto un caffè in quel di Viano, reduce da Villa Minozzo. E in via Ramazzini, a due passi da casa. Che ora sia gestito da dei cola cola, tanto meglio. Tutto costa meno. E sono anche molto gentili.
La prosa felsinea di Stefano (anche la mia, ma solo accidentalmente) è molto più ex-agerata rispetto a quella degli autori citati. Sono convinto che, se ex-agerassi anch’io, come sempre mi accade nel riportare interi periodi tratti dal libro esaminato, rischierei di mandare nel pallone il programma di scrittura che sto usando, nonché di offuscare il monitor verso il rosso e il blu, colori deboli e forti, freddi e caldi. Mica son scemo a farlo!
Dirò di più. Poche narrazioni m’hanno fiaccato come questa. La lettura mi ha dato parecchio, ma mi ha spossato. Un pochino, anzi, abbastanza anche quella di Rabelais, meno quella di Paolo che, però ogni tanto era come se mi gettasse dell’acqua gelida sul muso. L’arşân Cavazzoni m’ha rilassato angustiandomi. E non so se debba poi ringraziarlo di ciò.
Mia mamma non leggeva tanto, ma lo fece in un breve lasso della sua vita quando, una volta, per accontentare una vicina di casa, venne interpellata per spostare un mobile. Era una sua attività sociale frequente, quando erano assenti per il lavoro i mariti delle condomine, che le dicevano: Rosalènda, ci sarebbe da sistemare una cosa nella sala e da sola non ce la faccio? Vieni ad aiutarmi? E poi faceva tutto lei. E quella volta si era procurata uno strappo al fianco sinistro, per cui dovette stare immobile per una quindicina di giorni, e per una felina come lei fu un brutto intermezzo esistenziale, durante i quali ebbe l’occasione di leggere la prima metà de Il secondo tragico libro di Fantozzi. Ricordo una sua franca risata e il suo successivo commento: A dîş di lavòur!, dice dei lavori!, noi reggiani purtroppo mettiamo questo termine un po’ dappertutto: che brót lavòur! Si narra che Marcuse, che era diretto da Piacenza a Bologna, abbia preferito passare da Pegognaga, bypassando la Città del Tricolore, allungando di non so quante centinaia di chilometri pur di evitarla! Stefano Benni avrebbe scritto, aumentando di 2.347,33 chilometri il tragitto, sì, era passato per Oslo, figuriamoci….
Se mamma avesse letto questo Bar Sport di Stefano Benni come avrebbe reagito? A volte c’è quasi da impazzire, ma poi ci si dice, ma no dai, è un film, pardon!, è un romanzo, no, è un racconto, una silloge incredibilmente complessa e assurda, che lo stesso Rabelais si turberebbe a leggerlo. E non voglio riportare nulla, se io ho fatto la fatica di leggerlo, e poi sono anche fiero di esserci riuscito, anche gli altri devono farlo, mica devo regalargli io le perle, mica sono porci!, peggio!, sono uomini. Quando poi non si tratta di perle ma di un ammasso luccicante di 10.823.333.201 bagliori!
Cosa narra l’autore? Bella domanda.
Di un D’Artagnan che ha che fare col filipper, di come non è bene ingurgitare un pezzo di Luisona che poi rimane sullo stomaco finché campi, di come si possono confezionare dei gelati sciolti alti mezzo metro con 25 o 26 gusti diversi, di come bisogna fare per richiedere invii di suore bassine, “in confezione da cinque”, mannaggia m’è scappato lo spoiler!, mille anni prima di quegli yankee, di come può turbare l’anima la visione di “una bionda naturale con due tette come due tacchini”, al che mi viene da dire che sciovinisti sessisti si nasce, non si diventa… e io, come disse Totò, lo nacqui!, eccetera eccetera eccetera eccetera eccetera. L’importante non è ex-agerare la stessa ex-agerazione, è esserne ex-ageratamente consapevoli. E pensare che ho da poco iniziato il romanzo di quello svaccato di Celati. Mo mama! che véta trîda ca gh’ò!
La cogente problematica sarà affrontata nella sede opportuna. Ti prenoto, amico, per la reazione a La banda degli spiriti.
Poi si parla anche, eh, di normalità: tipo “quattro nonni che scatarrano insieme fanno più rumore della partenza di un gran premio a Monza…” – a parte che è vero, sono le battute tipiche della cultura non solo contadina, ma popolare, dell’uomo ammassato che per mantenere la sua individualità cerca di individuare dentro di sé o nel suo prossimo quella grandezza inusitata che gli consente di sognare, magari sghignazzando in modo sgangherato, a volte rischiando di fare del male. Di un uomo basso e voluminoso si dice che si fa prima a saltarlo che a girargli intorno. È una forma di empietà di cui non ci si riesce a liberare, perché ci si sente circondati dalla più assurda normalità.
Un uomo dal cognome favolesco canta “Core ingrato con bella voce già tenorile, e tutti i passeri e le rondinelle volavano incantati a sentirlo e lasciavano un obolo…” – e si sappia che per noi contadini la galinèla, il guano dei pennuti che razzolano, è il concime più salvifico di tutti.
A pagina 122, “c’è Radicchio, il re della balla”, e questa figura, come tante altre che Stefano descrive con sempre ex-agerata maestria, è tipica del bar, ed è dalla finzione che trae la sua funzione, gioco di parole imperdonabile! Perché è quello di cui abbiamo bisogno, della fiction, per sentirci un po’ più vivi del normale.
Non intendo commentare quel che combinano quei “nottambuli reggiani”, ma si sappia che nuêter arşân siamo micca (due c!) permalosi come dei sardi. No… Di più! Se ci incontrano dei sardagnoli, intesi come equini, quelli si scansano educatamente per farci passare. Non sia mai che abbiamo la luna storta! In effetti siamo dei brutti cancheri… dei granchi che se ti si attaccano allo stinco e mica ti mollano poi!
Leggendo Bar Sport mi sono scappati 13.254,5 eh eh (anche un eh singolo), che è la risata necessaria per poter continuare la lettura, non del tutto dissimile da un peto o da un ruttino. Non si ride mai con un ah aha aha! No. La scrittura di Stefano non prevede questo tipo di commento, che appartiene ad alcuni degli autori citati, specie a Paolo. Eh eh significa: ma che dice?!
Paolo isolava più di Stefano la battuta, per cui ci si arriva impreparati. Stefano richiede al lettore lo sforzo del passista scalatore, come “il grande Pozzi” e il non meno gigantesco (fisicamente lo è anzi di più) Girardeaux, le cui avventure ciclistiche mi hanno letteralmente sfiancato, ma mi ricordano le storie narrate da papà sulle tenzoni intercorse fra Binda e Girardengo (lui teneva per Binda, e poi fra Bartali e Coppi, tifava per il primo, bassino come lui).
Permettimi, Stefano, ma poi non darmi dello spoiler sennò m’adombro leggermente (io rifuggo, come vedi, le parolacce), consentimi di dire che la frase rivelatrice della tua scrittura è a pagina 177 (e di fatto, scrivendo questo, fungo effettivamente da spoiler): “Nel far questo, il pescatore continua a spostarsi a valle, a traversare il fiume nei due sensi, a cascare sui massi e ad aggrovigliare la lenza in tutti i modi consentiti dal destino.” – esatto! Questo è il problema, come disse l’orfano regale!
In un bar di via Adua una volta m’imbattei in un lontano parente di Ugo Everetto III, e anche dei primi due ovviamente, il noto cosmologo che ideò la teoria dei multiversi. Tu spari una particella e quella va per i fatti suoi e tu puoi pure prevedere dove probabilmente andrà a sbattere, ma solo al momento della verifica finale si saprà se il gatto di Schrodinger ha fatto o no un’ingloriosa fine come quel micio derelitto che descrivi a pagina 172. E allora, si chiedeva Ugo, che fine ha fatto la probabilità che è andata dispersa, e non solo quella, ma anche tutte le altre?! Annullate?! I miei coxones, direbbe Gavino Ledda! Risposta everettiana e benniana: è emigrata altrove, a costruire un nuovo universo, che manco ce lo sognamo com’è fatto.
Pensa che per Bohr una particella esiste solo quando è attestata, e questo hai fatto tu, Stefano, questo faccio ora io, Stefano, ognuno stefaneggia per i fatti suoi, e questo sarà l’onore e l’onere di chiunque leggerà o scriverà una riga: creerà un nuovo universo, legittimandone l’esistenza.
Ultima piolata (stavo per scrivere caXXata), non mia ma di un altro fisico di cui non ricordo le iniziali. Ma essendo una piolata chissà quanti autori avranno contribuito a formarla…
L’effetto tunnel quanto-meccanico consente una transizione a uno stato impedito dalla meccanica classica. Si tratta di un paradosso quantistico, un andare oltre la comune opinione da parte della realtà in cui si vive. Una particella non può superare una barriera, se è priva della necessaria energia. Poiché le funzioni esponenziali non sono mai riducibili a zero, deve pur esistere una pur minima possibilità che essa, prima o poi, riesca a passare. Spari un protone contro una barriera supermassiccia: il 99,99% delle volte essa sarà bloccata. L’ultimo 9 però non è infinitamente periodico, e la misura delle probabilità non sarà mai uguale a 100%: nulla lo è, ‘n coppa a ‘sta terra. Tutto prima o poi può e pertanto deve necessariamente accadere.
Questi ragionamenti sono i miei tipici di quando al Centro Sociale del Buco Magico sto giocando a canastone tcrapanese e da un po’ anche a burraco.
Io amo gli scrittori che scrivono perché respirano. E scrivono come respirano. A volte, Stefano, hai però l’alito pesante. Anche il mio però non scherza. Chiamiamolo allora spirto vital.
Nei bar che ho frequentato ho incontrato tutte le tipologie che hai descritto nella silloge. E condivido grosso modo la tassonomia che hai elencato. Poi ci sono le varianti locali, le mutazioni genetiche… Il nostro è un lavoro che non ha mai fine, come la catalogazione dei murales, a cui mi sto pazientemente dedicando da quando sono in quiescenza. Piuttosto che andare a visitare i cantieri, sento che quello è il mio Tao.
Stefano, nei tuoi racconti tutto è realmente accaduto, perché poteva ed era necessario che accadesse.
La scrittura esiste. Punto. Anzi, punto e virgola.
E a capo!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Stefano Benni, Bar Sport, Mondadori, 1995