“Il mistero di Edwin Drood” di Charles Dickens: una scomparsa ineffabile

Esiste un autore meno scientificamente falsificabile di Charles Dickens?

Il mistero di Edwin Drood di Charles Dickens
Il mistero di Edwin Drood di Charles Dickens

Uno scrittore che, e il lettore ne è consapevole, prima poi ti condurrà colà dove le cose accadono com’è giusto che accadano? In cui tutto deve scorrere affinché si producano le condizioni per una catarsi finale? In altre parole, Dickens è il tipo di scrittore che pare non lasciare nulla al caso, perché è il caso che deve adeguarsi alla sua creazione.

In che senso allora lo si può definire falsificabile? Se non nel fatto che il lettore può giungere a una considerazione finale che si discosta da quella stabilita dallo scrittore. Questo, finora, con Dickens, almeno per me, non è mai accaduto. Ogni cosa è accaduta perché doveva necessariamente accadere.

Il presente romanzo, Il mistero di Edwin Drood, è da tutti definito incompiuto. Pare che Dickens avesse tracciato delle linee interpretative del finale, che sono contento di ignorare. Il caso prospettato può pertanto rientrare nella magica categoria degli insoluti.

Se uno scrittore non lascia qualcosa di irrisolto, per tragico che sia un epilogo, sarà sempre salvifico. Tutto arde, e poi si spegne. Amen e così sia. Nel caso in parola, una volta acceso il fuoco, si è spento il fuochista.

In genere gli scrittori pianificano il loro operare. Prendono appunti, compilano schemi, concedendo all’imprevisto il minimo di legge e nulla di più.

Nonostante queste premesse, il lettore non riesce a non chiedersi se sarà anche stavolta come le precedenti. La storia sarà drammatica, i buoni soffriranno ma, al termine del loro peregrinare, giungerà per loro la meritata liberazione.

Esistono autori, come Piovene, in cui ogni singola interpunzione è funzionale al discorso generale.

Anche loro di certo improvvisano, ma prima di seguire il proprio naso, il proprio andare a usta, ci pensano su. E non una volta soltanto.

Ne esistono altri che sentono il bisogno di svaccarsi, come diceva Celati, di andare dove non si sa: ma sempre colà. Dopo sarà conosciuto, più o meno, il luogo in cui accadrà il rito. Forse.

Per recarsi dove non si sa dove si stia andando, come direbbe Totò, occorre seguire delle tracce, e poi lasciarle delle indicazioni agli eventuali soccorritori: gli altri, i lettori.

A pagina 21 e 22 conto 5 “crac”,da parte di Edwin Drood” e “da parte di Jasper”, nipote e zio, che si amano (alla follia); qualcosa però scricchiola. Crac!

“Una città sonnolenta, Cloisterham, i cui abitanti paiono supporre, con un’incoerenza più strana che rara, che tutti i cambiamenti appartengono al passato, e che non ve ne siano altri nel tempo a venire.” – ma se il tempo è già avvenuto tutto, com’è che continua a trascorrere? È forse un’illusione, come quella stramba immagine che pare quasi rimbalzare dal mio specchio?

“L’alunna preferita della Casa delle Monache è la signorina Rosa Bud, chiamata ovviamente Rosebud, Bocciodirosa, incredibilmente carina, incredibilmente capricciosa.” – io ci credo. Un’aggraziata idrovora che, goccia a goccia, può prosciugare un oceano. Dove sarà concesso all’amato di sprofondare. C’è però un problema: questa donna pare non voglia amare appassionatamente nessuno. Al massimo può ben volere.

È una persona che sa dire “è talmente assurdo” almeno tre volte, e ogni volta lo è, assordante.

“Per il momento in volto al futuro sposo c’è più compassione, per lei e per sé, che amore.” – non una passione che brucia, ma che ritrempa, reciprocamente, due cuori gentili.

“Lo sai che ti ama?” – chiede Helena a Rosa, parlando di Jasper.

“Con i suoi sguardi mi ha reso schiava. Mi ha forzato a capirlo senza dire una parola, e mi ha forzato a mantenere il silenzio, senza esprimere una minaccia.” – che non serve, quando tutto è ormai chiaro, sebbene oscuro. Jasper è un tizzone di fuoco, Rosa è un ghiacciolo che si scioglie continuamente. E seppellisce chi l’adora, senza manco accorgersene.

“Il fratello della signorina Landless aveva tirato una bottiglia contro Edwin Drood.

Il fratello della signorina Landless aveva tirato un colpo contro Edwin Drood.”

Poi quell’impulsivo di Neville lanciò anche una forchetta.

Landless è senza terra, Jasper è diaspro. Il primo apparentemente è privo di regole, entropico, il secondo è una pietra dura e fatale.

Charles Dickens in questo suo ultimo romanzo abbonda di parentesi. Mai ne ho contate tante, anche due o tre a pagina. Le parentesi racchiudono la verità che mantiene viva l’immagine offerta, ché senza non riesci a comprenderla del tutto.

“La signorina Twinkleton”, la tenutaria del convento dove alloggia Rosa, “si esibì in un inchino, che lasciava intuire mirabolanti evoluzioni delle sue premurose gambe, e da cui emerse nobilmente, un bel po’ indietro del punto di partenza.”in un gioco estremamente dinamico ed effervescente.

A pagina 130 Neville dice tre volte “Dico”, negando a Edwin ogni ragione di unirsi a Rosa. Le uniche ragioni sono le sue. Null’altro conta.

Ted, così lo chiama lo zio, cioè Edwin, dice: “Rosa la chiamo Pussy.” – gattina, un animaletto da compagnia alla fine. Vi è anche, connesso, un significato intimo.

“Ancora la luce rossa brilla ferma. Nulla è fermo se non la luce rossa.” – tutto scorre, anche la luce, che pur dà l’impressione di una tiepida quiete.

Ted non è tornato. Si sospetta di Neville.

Tra pagina 205 e 206 conto 5 “dove”: non si sa dove sia Ted.

Solo lo zio chiamava Edwin Ted.

Si sospetta sempre più di Neville. Che non sapeva che Ted e Pussy si erano lasciati, piangendo, volendosi bene. Ma pronti a staccarsi l’uno dall’altro, forse per sempre.

Neville si sente circondato e allontanato al contempo. Deve andarsene. Ora tutti devono andarsene. Anche Pussy. Poiché la Pietra Umana le ha confessato il suo tragico amore: “… perfino quando…”, “…vi amavo alla follia…”, reiterato 4 volte.

Che sia andato anche Ted? Chissà, forse è al sicuro, accuratamente celato dall’autore.

E lei: “Siete stato falso…”, due volte, e “lo sapete…”, altrettante. E lui: “datemi voi stessa”, 3 volte. Arriva poi a minacciare di gettare nella vergogna il nome dei fratelli Senza Terra.

“Qua e là si sentiva suonare, ma la musica non allietava lo stato delle cose…”.

Charles Dickens
Charles Dickens

Quando parla un povero “cià” il suo stile, così dickensiano! Quando parla un benestante, non lo è di meno. Poveri e ricchi sono tutte creature dell’autore. Che le muove, una a una, come marionette.

Il libro termina senza finire. Non ci sarà una fine. Un esito. Una definizione.

Scrive l’ottima traduttrice Marisa Sestito di “una intenzionale ricerca di indeterminatezza” e poi aggiunge una briciola di verità: “come se il non finito imposto dall’esterno, inaspettatamente, dalla morte, fosse legittimato da un ordine interno.” – attrattivo ed entropico al contempo, dispersivo a gravitante, in grado di trasformare “la gioia della festa in pensiero di morte”.

Che presto coglierà Charles: questo non va dimenticato.

Leggendo la postfazione di Marisa, comprendo quanto mi sia sfuggito del testo, che è sempre laggiù, che aspetta il suo nuovo (o rinnovato) lettore. In questo forse confidava Charles: l’eterno ritorno del lettore, correlato for ever al suo autore.

Leggendo un autore che non c’è più, lo si resuscita, vero?

Poi, senz’altro, ci ritroveremo Colà.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Charles Dickens, Il mistero di Edwin Drood, Marsilio, 2023

 

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