Che cos’è la poesia? Qual è il suo fine?: i progetti di prefazione di Charles Baudelaire per “I fiori del Male”
“Ho i miei nervi, i miei malumori. Aspiro a un riposo assoluto e a una notte continua. […] Non sapere nulla, non insegnare nulla, non volere nulla, non sentire nulla, dormire e ancora dormire, è questa oggi la mia unica aspirazione. Aspirazione infame e disgustosa ma sincera.” – Charles Baudelaire

Di seguito si leggeranno, per intero, tre progetti di prefazione scritti da Charles Baudelaire (9 aprile 1821 – 31 agosto 1867) per “I fiori del Male”[1], pensati per la seconda edizione della raccolta come spiegazione delle cause della maldicenza della stampa contemporanea all’autore.
I progetti girano attorno a riflessioni sulla Francia che non sorprenderanno i lettori di Baudelaire, sui poeti “non allineati” che spesso vengono denigrati, su coloro che hanno commentato le sue poesie non avendone le capacità, sul concetto di bene, sulla bellezza del Male e sulle richieste del suo editore.
Un aculeo a parte è destinato all’accusa di plagio di cui fu oggetto da parte di certi “Signori giornalisti” ma, il termine usato anche dal poeta parigino, non si adatta precisamente alla volontà di furto ma piuttosto a quella di omaggio, o così vorremo fosse.
La diffamazione investì le liriche “La sfortuna” in cui si è accusata l’imitazione del poeta inglese Thomas Gray (1716-1771), “La fiaccola viva” e l’“Heautontimoroumenos” nelle quali riecheggia Edgar Allan Poe (1809-1849), ed anche in “La sfortuna” e “Raccoglimento” nelle quali si sente l’influsso del letterato americano Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882) sommato alla dichiarazione di traduzione nella lirica “Il Calumet della pace”, il ritornello de “L’invito al viaggio” nella quale si scorge la presenza del poeta romano Publio Papinio Stazio (45-96), “Ossessione” nella quale sentiamo parlare il tragediografo greco Eschilo (525 a.C.-456 a.C.), “Le vecchiette” nella quale si scorge Victor Hugo (1802-1885), ed il dominio incontrastato di Virgilio (70 a.C.-19 a.C.) ne “Il Cigno”.
Considerando il numero totale delle poesie contenute nelle raccolte un’accusa di nove “plagi” non avrebbe dovuto essere argomento valido per penalizzare l’autore, eppure così non fu al tempo. Questo perché “I fiori del Male” ricevette numerose critiche negative quasi ci fosse la volontà di frenare un astro nascente o forse c’è stata la fermezza del voler condannare un modo di vita non consono al rango sociale rappresentato.
Noi lettori odierni ci dobbiamo chiedere: dopo aver trascorso anni a tradurre, per primo in Europa, le opere di Edgar Allan Poe dall’inglese al francese è da disprezzare l’aver citato Poe in una lirica? E qual è lo scopo della lettura se non il riprendere ciò che è più affine al nostro pensiero?
E se l’accusa di imitazione toccò Baudelaire che cosa mai avrebbero potuto dire gli stessi critici francesi del poemetto di Thomas Stearns Eliot (1888-1965), “The Waste Land”, propriamente formato da richiami e citazioni?
Qual è il dovere del poeta? Che cos’è la poesia? Qual è il suo scopo?
Non è forse portare in luce ciò che è caduto o potrebbe cadere in ombra?
La “città irreale” di Eliot è la “brulicante città” di Baudelaire?
Baudelaire ed Eliot non sono forse innovatori e conservatori al medesimo tempo?
“– Hypocrite lecteur, – mon semblable – mon frére!”[2]
In due varianti della “prefazione” Baudelaire ci tiene a sconsigliare la lettura del libro alle donne di casa sua, alle sue sorelle ed alle sue figlie e pure a quelle del vicino. Che cosa sappiamo della vita del nostro poeta? Non ebbe sorelle, né figlie, né consorti ufficiali. Viveva in una solitudine atipica intervallata dalla convivenza con Jeanne Duval.
Una donna per la quale ha riversato un profondo risentimento fu la madre Caroline Dufays (1793-1871) che, a causa del secondo matrimonio con il tenente colonello di estrazione borghese Jacques Aupick, non ha mai perdonato per una sorta di abbandono che, in realtà, non è mai avvenuto perché Caroline non ha mai smesso di essere una buona madre. Baudelaire, però, non è riuscito a sanare quel sentimento di odio ed amore che sentiva in egual misura e, sin dalla giovane età, cibò quella ferita tanto da diventarne schiavo. Ciò che cercò in età adulta fu l’amore a “buon mercato” nel quale non ci si doveva esporre con il corteggiamento tipico dell’epoca e con richieste formali di matrimonio.
Furono due le muse principali, figure diverse che hanno, in qualche modo, personificato la madre: Madame Sabatier (1822-1890) e Jeanne Duval (1820-1862). Totalmente antitetiche, la prima è stata una grande cultrice delle arti ospitando uno dei migliori salotti letterari dell’Ottocento e la seconda una donna che viene tramandata dalla maggior parte dei biografi come una prostituta mulatta di origini haitiane alcolizzata e poco avvezza alla cultura ma, alla luce di nuove ricerche, si ha menzione della Duval (o Lemer) come di una bellissima attrice che evocava in Baudelaire l’esotismo conosciuto ed amato durante il suo viaggio in veliero quando approdò nelle isole di Mauritius e di Reunion (si consiglia a tal proposito lo straordinario documentario intitolato “Baudelaire e la Venere nera” diretto da Régine Abadia, visibile su Nexo Plus).
Due donne e due nostalgie dell’infanzia, l’odio e l’amore, la depravazione e l’ispirazione.
E poi l’oppio, l’alcol, l’hashish, l’assenzio e le rendite mensili hanno fatto il resto.
“Quelli che sanno m’indovinano, e per quelli che non possono o vogliono comprendermi, accumulerei senza costrutto le spiegazioni.”
Il lettore coglierà quanto i ragionamenti espressi nei “progetti di prefazione” siano pregni di quell’ironia tipica di Baudelaire, certamente diversa da quella eplicitata da Socrate, da Swift, da Stendhal, da Voltaire ma è quella stessa forma di ironia che valuta e pone in luce gli elementi tristi della realtà.
Progetti di prefazione di Charles Baudelaire
I
La Francia attraversa una fase di volgarità. Parigi, centro e irradiazione di stupidità universale. Malgrado Molière e Béranger, non si sarebbe mai potuto immaginare che la Francia avrebbe avanzato con passo così veloce sulla via del progresso.
Il grand’uomo è sciocco.
Il mio libro ha potuto fare del bene. Non me ne rammarico. Ha potuto fare del male. Non me ne rallegro.
Lo scopo della poesia. Questo libro non è fatto per le donne di casa mia, per le mie figlie o le mie sorelle.
Mi sono state attribuite tutte le nefandezze che raccontavo.
Divertimento dell’odio e del disprezzo. Gli elegiaci sono delle canaglie. Et verbum caro factum est. La verità è che il poeta non è di nessun partito. Altrimenti, sarebbe un semplice mortale.
Il Diavolo. Il peccato originale. Uomo buono. Se solo voleste, sareste il favorito del Tiranno: è più difficile amare Dio che credere in lui. Viceversa, per la gente di questo secolo è più difficile credere al Diavolo che amarlo. Tutti lo servono e nessuno ci crede. Sublime astuzia del Diavolo.
Un’anima di mia scelta. – Lo Scenario. – Così la novità. – L’Epigrafe. – D’Aurevilly. – Il Rinascimento. – Gèrard de Nerval. – Siamo tutti impiccati o impiccabili.
Avevo messo qualche sconcezza per piacere ai Signori giornalisti. Si sono mostrati ingrati.
II
Non è per le donne di casa mia, per le mie figlie o le mie sorelle che questo libro è stato scritto; come non lo è per le donne, le figlie o le sorelle del mio vicino. Lascio questo compito a quelli che hanno interesse a confondere le buone azioni con il bel linguaggio.
So che l’amante appassionato del bello stile si espone all’odio delle masse; ma nessun rispetto umano, nessun falso pudore, nessuna coalizione, nessun suffragio universale mi costringeranno a parlare il gergo impareggiabile di questo secolo, né a confondere l’inchiostro con la virtù.
Alcuni poeti illustri si erano spartiti da molto tempo le province più fiorenti del territorio poetico. Mi è parso interessante, e tanto più divertente quanto l’impresa era più difficile, estrarre la bellezza dal Male. Questo libro, essenzialmente inutile e assolutamente innocente, non è stato fatto per nessun altro scopo che divertirmi ed esercitare il mio gusto appassionato dell’ostacolo.
Alcuni mi hanno detto che queste poesie potevano fare del male; non me ne sono rallegrato. Altri, anime buone, che avrebbe potuto fare del bene; e questo non mi ha angustiato. Il timore degli uni e la speranza degli altri mi hanno ugualmente stupito, e non hanno servito ad altro che a provarmi una volta di più che questo secolo aveva disimparato tutte le nozioni classiche che riguardano la letteratura.
Malgrado gli appoggi che alcuni zotici famosi hanno dato alla sciocchezza dell’uomo, non avrei immaginato che la nostra patria potesse camminare con una tale velocità sulla via del progresso. Questo mondo ha acquistato uno spessore di volgarità che conferisce al disprezzo dell’uomo di spirito la violenza di una passione. Ma esistono di quei gusci beati che nemmeno il veleno riuscirebbe a intaccare.
Avevo originariamente l’intenzione di rispondere a numerose critiche, e nello stesso tempo di spiegare alcune questioni molto semplici, rese totalmente oscure dalla luce attuale: Che cos’è la poesia? Qual è il suo fine? Sulla necessità di distinguere il Bene dal Bello; sulla Bellezza nel Male; che il ritmo e la rima rispondono nell’uomo ai bisogni immortali di monotonia, di simmetria e di sorpresa; sull’adeguare lo stile all’argomento; sulla vanità e il pericolo dell’ispirazione, ecc. ecc. ma ho avuto l’imprudenza di leggere stamattina alcuni fogli pubblici; di colpo un’indolenza, del peso di venti atmosfere, si è abbattuta su di me, e mi sono fermato davanti alla spaventosa inutilità di spiegare una qualsiasi cosa a chicchessia. Quelli che sanno m’indovinano, e per quelli che non possono o vogliono comprendermi, accumulerei senza costrutto le spiegazioni.
Note

Come, con una serie di determinata di sforzi, l’artista possa elevarsi ad una originalità proporzionale;
Come la poesia partecipi della musica attraverso una prosodia le cui radici s’immergono nell’anima umana più a fondo di quanto non indichi nessuna teoria classica;
Che la poesia francese possiede una prosodia misteriosa e misconosciuta, come le lingue latine e inglese;
Perché ogni poeta che non sappia esattamente quante rime comporta ogni parola, sia incapace di esprimere una qualunque idea;
Che la frase poetica può imitare (ed in questo partecipa dell’arte musicale e della scienza matematica) la linea orizzontale, la linea dritta ascendente, la linea dritta discendente; che può salire a picco verso il cielo senza perdere il fiato, o scendere perpendicolarmente verso l’inferno con la velocità propria di ogni grave; che può imitare la spirale, descrivere la parabola, o il zigzag che appare da una serie di angoli sovrapposti;
Che la poesia di collega alle arti della pittura, della cucina e della cosmetica per la possibilità di esprimere ogni sensazione di soavità o di amarezza, di beatitudine o di orrore, per mezzo dell’accoppiamento di quel sostantivo con quell’aggettivo, analogo o contrario;
Come, basandosi sui miei principi e disponendo della scienza che m’incarico di insegnargli in venti lezioni, ogni uomo diventa capace di comporre una tragedia che non sarà più fischiata di un’altra, o di mettere insieme un poema della lunghezza necessaria per essere noioso né più né meno di qualsiasi altro poema epico conosciuto;
Difficile compito da assurgere a questa insensibilità divina! Perché io stesso, malgrado i più encomiabili sforzi, non ho saputo resistere al desiderio di piacere ai miei contemporanei, come dimostrano da qualche parte, sovrapposte come un belletto, certe basse adulazioni indirizzate alla democrazia, e anche diverse sconcezze destinate a farmi perdonare la tristezza del soggetto. Ma i Signori giornalisti essendosi mostrati ingrati nei confronti di un tal genere di carezze, ne ho soppresso la traccia, per quanto mi è stato possibile, in questa nuova edizione.
Mi propongo, per verificare ancora una volta l’eccellenza del mio metodo, di applicarlo prossimamente alla celebrazione delle gioie della devozione e delle ebbrezze della gloria militare, sebbene non le abbia mai conosciute.
Nota sui plagi. Thomas Gray. Edgar Poe (2 brani). Longfellow (2 brani). Stazio. Virgilio (tutto il pezzo di “Andromaca”). Eschilo. Victor Hugo.[3]
III
Se c’è una qualche gloria a non essere compresi o a esserlo assai poco, posso dire senza vantarmi che con questo libretto me la sono acquistata e meritata in un sol colpo. Offerto molte volte di seguito a diversi editori che lo rifiutavano con orrore, perseguito e mutilato, nel 1857, in seguito a un malinteso molto strano, lentamente ringiovanito, accresciuto e irrobustito nel corso di alcuni anni di silenzio, scomparso di nuovo, grazie alla mia trascuratezza, questo prodotto discordante della Musa degli ultimi giorni, ancora ravvivato da alcuni nuovi tocchi violenti, osa oggi affrontare, per la terza volta, il sole della stupidità.
Non è colpa mia, ma di un editore insistente che si crede abbastanza forte per sfidare il pubblico disgusto.
«Questo libro rimarrà su tutta la vostra vita come una macchia», mi prediceva fin dal principio un mio amico che è un grande poeta. In effetti, tutte le mie disavventure gli hanno, sinora, dato ragione. Ma io posseggo uno di quei felici caratteri che traggono una gioia dall’odio e si glorificano nel disprezzo. Il mio interesse diabolicamente appassionato per la stupidità mi fa trovare piaceri particolari nei travestimenti della calunnia. Casto come la carta, sobrio come l’acqua, portato alla devozione come una comunicanda, inoffensivo come una vittima, non mi dispiacerebbe di passare per un debosciato, un ubriacone, un empio e un assassino.
Il mio editore pretende che sarebbe di una qualche utilità per me, e anche per lui, spiegare perché e come ho fatto questo libro, quali sono stati il mio scopo e i miei mezzi, il mio piano e il mio metodo. Un simile lavoro di critica avrebbe senza dubbio qualche probabilità di divertire gli spiriti innamorati della retorica approfondita. Per costoro, forse, lo scriverò in seguito e ne farò tirare una decina di copie. Ma, a ben guardare, non appare chiaro che sarebbe una faccenda totalmente superflua, sia per gli uni che per gli altri, perché gli uni sanno o indovinano, e gli altri non capiranno mai? Per inculcare alla gente l’intelligenza di un oggetto d’arte, ho una troppo grande paura del ridicolo e temerei, in questa materia, di fare come quegli utopisti che vogliono, con un decreto, far diventare tutti i Francesi ricchi e virtuosi in una sola volta. E poi, la mia ragione più valida, la mia suprema, è che una cosa simile mi annoia e non mi piace. Si conduce forse la folla negli ateliers della sarta o dal decoratore, nel camerino dell’attrice? Si mostra forse al pubblico impazzito oggi, indifferente domani, il meccanismo dei trucchi? Gli si spiegano i ritocchi e le varianti improvvisate alle repliche, e fino a che dose l’istinto e la sincerità si mescolano alle astuzie e al ciarlatanesimo indispensabile nell’amalgama dell’opera? Gli si fanno vedere tutti gli stracci, i belletti, le pulegge, gli orditi, i pentimenti, le bozze pasticciate, in breve tutti gli orrori che compongono il santuario dell’arte?
D’altronde oggi non sono in vena. Non ho il desiderio né di dimostrare, né di stupire, né di divertire, né di persuadere. Ho i miei nervi, i miei malumori. Aspiro a un riposo assoluto e a una notte continua. Cantore delle voluttà folli del vino e dell’oppio, non ho sete che di un liquore sconosciuto sulla terra, e che nemmeno la farmaceutica celeste potrebbe offrirmi; di un liquore che non dovrebbe contenere né la vitalità né la morte, né l’eccitazione, né il niente. Non sapere nulla, non insegnare nulla, non volere nulla, non sentire nulla, dormire e ancora dormire, è questa oggi la mia unica aspirazione. Aspirazione infame e disgustosa ma sincera.
Tuttavia, poiché un gusto superiore c’insegna a non temere di contraddirci un poco da noi stessi, ho raccolto, alla fine di questo libro abominevole, la testimonianza della simpatia di qualcuno fra gli uomini che stimo di più, affinché un lettore imparziale ne possa inferire che non sono poi assolutamente degno di scomunica e che avendo saputo farmi amare da alcuni, il mio cuore, qualunque cosa ne abbia detto non so più quale strofinaccio di carta stampata, forse non ha la «spaventosa bruttezza del mio volto».
Infine, per una generosità non comune, di cui i Signori critici…
Poiché l’ignoranza va crescendo…
Denuncio io stesso le imitazioni…
In chiusura non si può che consigliare di leggere (e rileggere) “I fiori del Male” perché come scrive Marsilio Ficino in una lettera ad Angelo Manetti[4]: “Scrittori latini e greci, amico, hanno paragonato gli amanti delle lettere alle api. Questo perché, come api, essi prendono da molti autori, qua e là, come da fiori, ciò che poi, immagazzinato negli spaziosi alveari della memoria, e meditato a fondo, produco il mellifluo liquore della dottrina e dell’eloquenza. Se poi qualcuno volesse respingere tale paragone, confermato dai migliori autori, questi parrebbe a me degno di raccogliere fiele piuttosto che miele da quel fonte delle Muse.”
Written by Alessia Mocci
Note
[1] Charles Baudelaire, I fiori del Male, introduzione di Giovanni Macchia, traduzione e note di Luciana Frezza, Rizzoli, 1980, pp. 423 e seguenti
[2] Ultimo verso della lirica “Al lettore” di Charles Baudelaire che apre i “Fiori del male” ed ultimo verso della prima parte de “The Waste Land” intitolata “La sepoltura dei morti”.
[3] Ne manca uno, un autore che non era (e non è) conosciuto e che i “Signori giornalisti” non hanno citato, né Baudelaire l’ha inserito in elenco. Io da decenni studio questo autore “caduto in oblio” avendo per l’appunto trovato diverse liriche che Baudelaire ha “riscritto” quasi parola per parola, ma non è questo il momento per svelare il nome dell’autore, forse tra qualche anno quando avrò il tempo di lavorare ad un saggio completo sui due autori francesi o forse mai.
[4] La lettera è presente nel volume “Anima mundi” di Marsilio Ficino, edito da Einaudi nel 2021 e sapientemente curato da Raphael Ebgi; la lettera è in trentunesimo paragrafo della Parte seconda intitolata “Firenze Atene”, risale al 1477-78.
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