“Come vento cucito alla terra” di Ilaria Tuti: le prime donne chirurgo e l’ospedale autogestito
Inizio la reazione scritta de “Come vento cucito alla terra” di Ilaria Tuti a pagina 222, dove colgo una frase che riguarda la protagonista Cate, medico inglese di origine italiana, che mi colpisce per la sua quotidianità: “Cate fissò meglio i capelli sulla nuca con le forcine e rimboccò le maniche.”
L’altro giorno mi ritrovavo con l’amico Silverio in una pizzeria d’asporto, di quelle coi tavolini che permettono di desinare all’interno del locale. Seduta a un vicino tavolino insieme ad amiche, c’era una ragazza sui vent’anni, che teneva un piede sulla seggiola, e l’altro posato a terra. La indicai a Silverio e gli chiesi se un uomo avrebbe avuto la medesima leggiadria. No. Sarebbe parso goffo, oppure effeminato. Poco prima avevo notato una coppia di amici camminare, lui con passo risoluto, mentre quello di lei era aggraziato. Andavano alla stessa velocità. Lui pareva agitato e scomposto, lei calma ed elegante. Si tratta di un fenomeno culturale, non c’è dubbio. La donna è in genere più fine e, se non lo è, rischia di essere definita un maschiaccio. Per esperienza personale so che può essere, seppur delicatamente, più dura di un birrocciaio, senza mai perdere la sua femminilità, termine che andrebbe però continuamente rinegoziato.
Ancora a pagina 222: “Non di rado gli scoppi di rabbia diventavano una prova di forza durante la quale dottoresse, infermiere e ausiliarie dovevano dar sfoggio di una musculatura tanto fisica quanto mentale.” – la stessa che perseguo io, a modo mio.
“Incrociò Olga. Era uscita dalla stanza con i resti di una lampada raccolti nel grembiule.” – che le donne utilizzano come mezzo di trasporto da prima dell’invenzione del motore a scoppio. Scrivendo, Ilaria è così: molto tenera e, quando occorre, molto dura. Tale era mia madre, così auguro essere a mia figlia e a mio figlio, e anche a me.
Torniamo all’inizio. La vicenda narrata riguarda fatti accaduti all’indomani dell’inizio della Prima guerra mondiale, a partire dal 22 agosto 1914. Era passato meno di un mese ma già si capiva che la situazione era la più distruttiva che si potesse immaginare.
Caterina Hill riceve la visita di due colleghe, Flora Murray e Louisa Garrett Anderson. È soprattutto la prima a parlare, essendo visibilmente la più autorevole. Le rivolgono una protesta indecente: abbandonare tutto e partire con loro a Parigi, dove fra poco ci sarà “l’apertura di un’unità chirurgica gestita esclusivamente da donne. Per uomini. In zona di guerra” – oggi sarebbe intesa come un’avventura benemerita e gloriosa, ma all’epoca non avebbe ricevuto il plauso da parte della mentalità allora vincente, che considerava la donna come un sottoposto dell’uomo, non in grado di svolgere alcuna attività tipicamente maschile. Ma siamo in tempo di suffragette, per cui vediamo come butta…
Cate ha un problema non piccolo, e ce l’ha grande perché è assai piccolo: una figlia ancora bambina. E a questo sta sicuramente pensando, mentre Flora le sta parlando. Già dalle prime pagine ci si accorge che il romanzo girerà soprattutto intorno a queste due donne, Cate e Flora, ognuna fatta a suo modo, diversamente solide e testarde: “Quando parlò, Cate rimase colpita dalla durezza metallica della voce.” – ma anche la voce di Cate sprigiona una bella energia.
Il senso di autorità può sembrare diverso a seconda del sesso, ma di fatto si assomiglia: c’è chi l’ha e c’è chi lo teme. È consentito ribellarsi, ma occorre saperlo gestire. Quello che si richiede a un capo, e la Murray lo è senz’altro, è di essere secco, preciso e onesto intelletualmente. E Cate accetta la proposta.
Nei primi capitoli al lettore sono offerti dei micidiali affreschi riguardanti un unico soggetto: l’inumanità della guerra e la bestialità umana a essa conessa. E descrive con grande espressività com’è l’uomo in guerra: a volte eroico ma sempre indifeso. Di un soldatino, chiunque lo veda, non può che chiedersi: “Quanto poteva pesare? Era un mucchietto di ragazzo. Il mento appuntito ancora imberbe.” – e qui la tenerezza di Ilaria è di una durezza che assurge a mito. Il milite è ignoto ancor prima di morire. Lo è già quando si mescola al resto della truppa. Lo è sempre di più mentre avanza fra i bombardamenti. Alla fine, uno solo di loro riceverà l’onore di una sepoltura monumentale. Gli altri saranno meri cadaveri, per lo più anonimi.
Ammiro il “gesto pratico, asciutto, che però marchiò il palmo di Cate”, che oggi può sembrare banale, di un “medico civile americano”: “la stretta di mano era una novita che non parlava del sesso di chi la offriva, né di chi la riceveva.” – e stavo pensando che una volta ogni contratto era sancito grazie a essa, tempi che non so se torneranno. Di esse ce ne possono essere di tanti tipi: quelle che sono appena abbozzate e quelle che paiono voler stritolare la mano altrui. L’importante è che ci sia e che sia foriera di accordi.
Il lavoro del medico di guerra è terribile. “Cate prese il bisturi. Le mani erano ferme, i pensieri improvvisamente chiari. Sulla lama incontrò il proprio sguardo, ed era determinato. Incise.” – e così è la scrittura di Ilaria: pulita, densa e incisiva.
La storia è narrata in vari ambienti diversi, tragicamente comunicanti: il fronte, con le sue morti e disastri, e la clinica, che è il luogo del tentativo umano di imitare quel Dio, che chissà dove si è ora cacciato, nel cercare ri rianimare e di risollevare l’anima. Come dicono taluni, essa è parte integrante del corpo, almeno da questa parte del cosmo. Altrove, chi morirà speriamo che vedrà.
Il pensiero di Alexander, fin troppo eroico guerriero, è volto al chiedersi: “Che cosa siamo diventati?” – parole che egli “mormorò al vento che odora ancora di spari e sangue”.
Il fatalismo che avanza fa dire a un certo Oliver: “Sopravviviamo. Non possiamo fare altro.” – mi viene ora in mente il titolo di un celebre reportage di guerra: Niente e così sia di Oriana Fallaci.
Cate e le altre eroine combattono tutti i gorni contro un nemico implacabile: il pregiudizio del quasi morente che, nel vedersi curato da una donna, “urlava che volevo un medico vero, cioè un uomo.” – e quel disgraziato è da compatire, da curare con amore: e questo è il principale compito svolto da queste eroine.
Cate dice: “Si abitueranno. Da oggi sarà impossibile farci fare un passo indietro.” – e il conseguente passo in avanti sarà di tutti, a prescindere dal sesso.
“La febbre può essere buona, le avrebbe ricordato la sua nonna italiana, ma devi saperla maneggiare, come un bisturi tagliente.” – il che mi fa pensare a una mansione essenziale, nel bene e nel male, svolta dalle donne nei secoli: educare le nuove generazioni, perpetuando la saggezza e le abitudini, anche quelle correlate ai pregiudizi. Senza di loro non ci sarebbe stata la civiltà. Sento di doverlo ripetere: nel bene e nel male. a volte sono state le donne le più maschiliste di tutte, pronte a far rinunciare alla libertà le loro figlie, in nome delle usanze conclamate e illusoriamente eterne.
Coloro che reggono questa società maschilista “sanno che quanto stiamo facendo in questo ospedale potrebbe cambiare per sempre lo stato della nostra condizione anche in Inghilterra. E per nostra intendo di tutte le donne.” – e questo è un grande problema.
Ma il principale nemico dell’umanità è lo stravolgimento dell’economia che provoca ogni specie di disastro umano, in primo luogo la guerra e l’ingiustizia sociale.
L’ospedale è soggetto a un’ispezione da parte di Lord Esher, che ha visibilmente il compito di deligittimare quanto queste eroine stanno compiendo. Ammirevole è quanto Cate, per nulla intimorita, ha il coraggio di dirgli in faccia, con sincerità, quasi brutalmente, frasi che non riporto perché è giusto che siano lette direttamente in quel punto dell’opera, a pagina 118. Ed è grazie a tanta animata franchezza che quello stupito Lord non potrà che attestare il valore del progetto, al di là delle conseguenze sociali a cui potrà condurre.
Dice Flora a Cate, a pagina 121: “Affidarsi agli uomini è rischioso. Non sai mai quali calcoli li porteranno lontano dalle promesse fatte, né quanto.” – e Cate, colpita duramente dal comportamento di suo padre e di quello di sua figlia, ha un eroismo capace di rispondere: “Non tutti gli uomini tradiscono la fiducia.” – e l’assenza, non dico di timori verso l’Altro, ma di pregiudizi è la qualità che più ammiro in lei.
Intanto: “Le carcasse dei cavalli erano cumuli neri che ricordavano tombe, e accanto a quell tombe riposavano scoperti centinaia di esseri umani.” – autrici come Ilaria, testimoniano che la scrittura è una funzione, che non conosce sesso, etnia, classe sociale, essendo la parte più espressiva del vero patrimonio umano. Anche questo potrebbe essere inteso come un preconcetto. E allora correggo: lo è per me, che pure ammiro le rimanenti arti, ma sento che la parola è la più grande delle invenzioni umane. In Il cappello scemo di Haim Baharier colgo che arca in ebraico è tevà, parola. Essendo un mezzo di locomozione dell’anima.
Cate dice a un milite, smanioso di tornare alla pugna, quel che più la infastidisce: “Incontrare ogni giorno uomini come voi. Non facciamo in tempo a rimettervi insieme pezzo per pezzo che scalpitiate per ributtarvi nella mischia e correre incontro alla morte.” – sic transit gloria homunculi. Cate ritornò a Londra, per altri eroici progetti “ma sentiva che qualcosa dentro di lei continuava ad agitarsi. ancora quel vento, che ora ululava.” E ancora: “Il vento entrò gelido e le agitò i capelli, ma quello che soffiava dentro Cate era più forte, e caldo.” – era la capacità di attrazione della passione amorosa, intesa in senso lato, quello che più vale. Per citare la canzone di Enrico Ruggeri: questo vento agita anche me.
“… i piani di Dio a volte erano diversi da quelli delle donne.” – sia gli uni che gli altri sono come inconoscibili, ma si può avere fede in entrambi, a nostro rischio e pericolo.
“La guerra non uccideva solo nei campi di battaglia e nelle sale operatorie. Continuava ad annientare nella mente.” – e a ciò si può porre rimedio, a volte, solo ricorrendo a quanto avevo letto poche pagine fa: “Tutti noi eravamo spaventati. È la paura, nella maggior parte dei casi, a tenerci in vita. Senza paura, il coraggio non esisterebbe per definizione”, ed essenziale è “che funzionasse, che il veleno si disperdesse in fretta, che il vento soffiasse furioso, come furioso batteva il cuore.” –una specie di mitidratismo, che allontana, almeno per un po’, la morte.
Elizabeth Robins, celebre “attrice e drammaturga”, che dava il suo contributo all’“ospedale di endell Strette”, “quella sera stava leggendo un romanzo d’avventura a un giovane che aveva perso la vista.” – e la stessa cosa, decenni dopo, sarebbe occorsa a uomini incliti, come Borges, come al nostro Massimo Fini, recente autore del libro di memorie Cieco. Ed è una cura dello spirito, fra le più salvifiche.
“Una simile capacità di provare compassione, come spesso accadeva, non poteva che sgorgare dal dolore.” – il quale due cose sa fare: distruggere per poi riscostruire.
Cate racconta alla figlia Anna una versione “di Cenerentola”, che era priva di epiloghi nuziali e di “scarpette da indossare come unica prova di valore.” – perché “toccava a lei renderla una donna capace di scegliere l’uomo al suo fianco non per bisogno, ma per un sentimento che non la rendesse mai prigioniera”: il legame ha senso se conduce a una specie, per quanto limitata, d’indipendenza.
Nel 1914 “ci sono mariti che quando se ne vanno tolgono i figli alla madre.” – e qualcosa è mutato nel secolo successivo, purtroppo o per fortuna, a seconda del punto di vista. Ogni cuore insegna “la potenza bruta della natura, la sua ferocia, ma anche la bellezza della rinascita dolorosa.” – è l’organo che più comanda, e quello che più accompagna i nostri destini. Quello di Cate, quelli di tutti, possono ridestarsi “all’improvviso, al soffio tiepido di un altro respiro.” – che è anch’esso un vento, quasi impalpabile, ma necessario alla vita.
Una nuova figura, mai apparsa, forse, nella storia dell’umanità è quella dei “soldati ricamatori”, a cui “era stata asegnata una stanza al pianterreno del padiglione principale, dove potevano darsi il turno e lavorare più comodamente.” – e questi militi che hanno perso una parte significativa di sé, una o due gambe, un braccio, nonché, tutti, la propria serenità ora cercano di creare ricreandosi. Non tutti ci riescono subito, ma quasi tutti prima o poi ci provano, e ci riescono.
Cate insegna ad Alexander un po’ di etimologia, questa eterna madre di verità, a volte fraintesa: “sapete che in latino padre si dice ‘pater? Pa, da pascere, significa nutrire, proteggere. Questo dovrebbe fare un padre. Esattamente come e quanto una madre.” – pascolare l’armento, provvedere ai suoi fabbisogni, recargli le risorse. Aggiungo di mio che madre deriva dal sanscrito matr, misurare, formare, preparare, e quindi educare. La donna, stando a casa, aveva per lo più questo compito, occuparsi della prole, pro-oles, quel che deve crescere, grazie alle risorse del padre e all’attenzione della madre. Nel 1914 era così. Un secolo dopo qualcosa sarebbe cambiato.
Quando tutto pare precipitare in una tragica entropia, “bisognava aggrapparsi a una passione per risalire la china, fosse d’amore o di disperazione, purché scatenasse un tumulto dentro e riportasse la vita in superficie.” – e io mi chiedo cosa farei se al momento, o forse per sempre, non potessi leggere o scrivere. Dovrei astrologare qualcosa di nuovo!
L’idea del ricamo non poteva che venire che dalle donne, dottoresse, infermiere o cameriere; anche da donne che la vita l’avevano destinata a mestieri malfamati, eppure solo una donna poteva avere un simile genio. Io non ci sarei mai arrivato. In un volantino che disprezza tale iniziativa si allude alle “lupe di Londra”, le responsabili dell’ospedale e di tale iniziativa.
“Alexander ne era disgustato. Era vero: quando si voleva colpire una donna, la si chiamava sempre sguadrina.” – almeno dalle mie parti, un uomo che ha fama di dongiovanni viene definito putanêr. La storia delle stupidaggini linguistiche affonda in quella dei miti, per quanto assurdi a volte siano. Come allude l’autrice, in latino lupa è la prostituta, per cui si dice lupanare.
Cecilio Stazio scrisse Homo homini deus est, si suum officium sciat. Erasmo da Rotterdam specificò: Homo homini aut deus, aut lupus. Bacone poi sviluppò il discorso con un rinnovato: Iustitia debetur, quod homo homini sit Deus, non lupus. John Owen suggerì poi a Hume il suo memorabile: Homo homini lupus. Tutte frottole: “… la parte italiana di Cate conosceva bene i racconti sui lupi, i lupi veri.” – non quelli adoperati da dei pensatori che forse non ne avevano mai visto uno in vita loro. Dice ancora Cate: “Oggi è successo questo. Perché ciò che è diverso o che muta fa così paura, io non lo capirò mai.” – ricordo che, a pagina 182, si diceva che era “la paura, nella maggior parte dei casi, a tenerci in vita”. L’uomo è captivus diabŏli, prigioniero della sua paura, che, a suo modo di vedere, lo mantiene in vita a scapito dell’Altro. Che sia vero o no, nessuno può dirlo. Ma la Storia Umana è stata spesso costruita su tale ignominiosa teoria.
“Certi uomini mortificano, quando non hanno altri mezzi per primeggiare.” – ed è questo che deve indurre a credere che sia la volontà di supremazia la causa di ogni conflitto. Una cosa è il confronto, che reca a lottare per far valere i propri principi, per vedere esauditi i propri sogni, ma un’altra è la distruttività, di chi getta le bombe, uccide, compie ogni sorta di violenze. È uno stravolgimento del pensiero di Nietzsche, il cui Oltreuomo giunge a negare Dio, non il diritto altrui di esistere.
“È tempo di essere forti, Cate. Lo saranno anche le pressioni che tutte voi riceverete. Ma questo è un buon segno: significa che ciò che state facendo ha il potere di cambiare le cose.” – ed è un ragionamento che paga, ma fino a quando? Finché ci saranno abbastanza risorse per coltivare di nuovo un terreno incendiato dall’ennesima battaglia?
E c’è l’amore che nasce da un primitivo dissidio che, evolvendosi, diventa un bene comune fra i vari soggetti. Cate e Alexander non si potevano compatire, ma ora, dopo l’ennesima discussione, entrambi capiscono che qualcosa sta cambiando in loro. Ognuno di loro due sa essere sincero, ed è il primo passo verso una loro possibile unione.
“Cate se ne andò, controllando i passi per non correre…” – per non mostrare paura – ma “impetuosa, così si sentiva. E finalmente libera.”
Che Alexander sia attratto da lei, lei ne ha la certezza, quando lui le dice: “Vi ascolto sempre, anche quando non dite nulla.” – Ilaria Tuti è maestra nel ri-creare dal nulla delle minutezze significative. Poco sotto si narra di “Jamie, l’australiano” e di quello che capitò al suo occhio, di come corresse lontano da lui e di come ci rimase male l’occhio superstite. E l’immagine in movimento, com’è descritta a pagina 325, è semplicemente sublime.
Flora è una donna forte e calma come poche, che pare capace di tutto. Mentre Alexander cercava “l’equilibrio saltellando”, “lei lo afferrò per un gomito. Aveva una presa di ferro e gentile, allo stesso tempo. Mani di medico, gli venne da pensare. Dovevano essere pronte a troncare, allargare, scavarsi una via nel corpo di un essere umano, e allo stesso tempo a preservarlo.” – questa è la descrizione dell’essere umano che estrae per conferire, distrugge per costruire, ma sempre a fin di bene. Ma esiste anche il suo nemico: chi toglie all’Altro per donare a sé.
Che ne sarà dell’amore fra Cate e Alexander? Fu “un tornare a casa quando prima di allora non c’era mai stata casa al mondo.” – un ricreare quel che esisteva già, ma solo nei sogni.
Viviamo in un mondo in cui basta un piccolo gesto e garn parte dell’umanità che è nei paraggi viene distrutta: Cate “si chiese come fosse possibile per un essere umano affrancarsi dalla propria coscienza e dalla compassione nel tempo necessario per azionare un comando.” – quasi fosse una macchina, un mero ordigno, e non un consanguineo di chi sta uccidendo.
Un lieto fine, che è sì lieto, ma non fine, bensì un penoso intervallo: “La guerra era finita. Restava il lutto, ma al lutto sarebbe seguita la rinascita. Era la storia dell’umanità.” – dapprima Śiva, poi Visnù, poi ancora Śiva, poi ancora…
La violenza pare l’unica strada percorribile, per far valere la propria idea di giustizia. E pare benedetta, quando alla fine produce più bene del male che ha recato. Chi ha dei dubbi a proposito, provi a chiedere a un certo Sir Grey e a quello che gli capita a pagina 328 e seguenti.
Vorrei salutare Cate con questa sua allegoria, che qualcuno mi donò a pagina 153: “Spronò il cavallo al galoppo e si ripromise, tremante, che non si sarebbe fermat fino alla meta, a qualunque costo. Saltò ostacoli, saltò cadaveri, e andò avanti.”
Il senso del titolo: Come vento cucito alla terra. Ipotizzo, con vari dubbi: la terra è ferma, il vento sposta gli oggetti. Si tratta, come si sa, di illusioni. Panta rhei. Lo stesso movimento, che è immaginario, però ci allieta la sera, quando ci corichiamo. E ci consente di sognare.
Una vera scrittrice, come Ilaria, una vera persona, come Cate, sanno esprimersi per comunicare i loro valori al mondo. Devono lottare per farli valere, pur considerando anche quelli degli altri.
Nell’ultima pagina, dedicata ai Ringraziamenti, Ilaria scrive: “È un’avventura all’inizio solitaria, un po’ spaventosa, che comincia con me davanti a un foglio da riempire con idee, suggestioni, sguardi e scorci di un mondo che ha iniziato a battermi in testa chiedendomi di venire alla luce.” – questa è l’essenza della scrittura, una fuoriuscita dolorosa, in cui la creatura, prima di poter camminare da sola, dovrà mangiare parecchi tozzetti di pane.
“In fondo, scrittura e lettura, sono un passo a due.” – da parte dell’autore sono infiniti passi a due! Il lettore poi, se vuole e se sa, anche lui parli!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Ilaria Tuti, Come vento cucito alla terra, Longanesi, 2022