“Il caviale e i fichi” di Donatello Santarone: alcuni scritti di letteratura
Come avverte la Premessa de “Il caviale e i fichi” di Donatello Santarone “il libro contiene otto saggi di critica letteraria” e “li tiene insieme la relazione contrappuntistica con l’Altro…” – che non capisco bene cosa sia, ma che interpreto così: siamo tutti Altri, Autres direbbe il poeta più Autre di tutti, e questo dato l’abbiamo sicuramente in comune, in-diviso, con loro. Gli altri siamo noi (Umberto Tozzi), ma noi siamo Altro da loro, uniti dalla reciproca diversità, dove i due termini mantengono un analogo ma differenziato valore.
Il titolo della silloge deriva da un aneddoto di Franco Fortini, al quale una volta fu offerto “un pacco di carta gialla da droghiere che avvolgeva due grosse fette di pane gonfie di burro e caviale.” – che meglio di così si muore, ma che ora parrebbe cibo da cafoni. Cafone è chi, quando parla, non lo si capisce. Eppure, garantisco che, se sei nel Cilento, il pane migliore è quello cafone, fatto come una volta, croccante come nessun altro e che dura più di tutti. Secondo Celati lo scrittore dev’essere svaccato, a mio parere lo deve essere anche il lettore che reagisce all’opera scritta: dev’essere in grado di svicolare e di fare come mia nonna Linda, che andava a moroso con la polenta fritta in tasca, che mangiava di nascosto, finché non si fece pescare con le mani in tasca, e così dovette condividerla. Altro che uova di storione e burro! Per cui “il prezioso caviale trattato come fosse marmellata di fichi, questo è il modo giusto di trattare la cultura”. Uno dei tanti: come davanti a tale pietanza, il lettore deve rimanere con la bocca semiaperta, quando non addirittura spalancata.
Inizio a leggere il tomo credendo che sia una mezza passeggiata e infatti lo è, su ermi ed erti colli. Dante e la cultura arabo-islamica: il discorso è semplice e complesso, facile e difficile, nel senso che i due mondi coesistevano, senza dubbio, ed è facile dimostrarlo, complesso è argomentarlo, tanto che numerose e divergenti sono le opinioni espresse dai vari studiosi.
“La struttura dell’Inferno, ad esempio, presenta notevoli analogie con l’inferno islamico del Libro della Scala” – il che tanto significa quanto è arduo capire in che senso, poiché vi “si trova ‘una precisa partizione dell’inferno, anche in rapporto con una classificazione dei peccati” – il riporto deriva da un saggio di Cesare Segre.
Santarone ragiona su saggi letterari altrui che fanno il punto su opinioni a volte datate, a volte attuali, non mancando mai di esprimere il proprio parere, cercando ogni volta di dimostrarlo: poi tutto s’immerge, senza mai annegare del tutto, nella doxa corrente, com’è giusto che sia.
Il castigliano Alfonso il Saggio, diventato re, “decise di dare ‘forma uffciale alla conflenza di due culture’” – e qui il riporto deriva da M. Ásin Palacios. Poi ci fu la rovinosa cacciata di ebrei e islamici dalla Spagna, “evento tragico e foriero di future disgrazie” – di cui patiamo ancor oggi le tremende conseguenze. Il fenomeno fu acuito dalla “scoperta-conquista del Nuovo Mondo”, per cui “i nascenti stati nazionali si dovevano costituire come omogenei per ‘razza, lingua, cultura e religioni’” – cioè diversi dagli Altri. Questi erano e saranno problemi di altri, non di artisti come Dante, che “si dichiara cittadino del mondo” – e qui è ancora Palacios a dire la sua. Il poema di Dante “va letto non solo come poema sacro del mondo cristiano, ma anche come compendio, per dir così, che sintetizza un’intera epoca della cultura mediterranea” – una specie di villaggio culturalmente globale ante litteram. Gli arabi sono dentro di noi, in ognuno di noi essendo racchiuso un carmelo, un karm profumato, che racchiude anche “l’epoca pre-islamica”. Dante “accoglie le idee di tutti i pensatori”, al fine di “fonderle in un sistema personale”, più legato, secondo l’autore, all’“avicennismo averroista” che al “tomismo” cristiano, anche se “Dante non conosceva né l’arabo né la letteratura araba”, se non tramite le “nozioni scolastiche del suo tempo”, perseguendo però unicamente l’ideale “cristiano”. Per Dante, quello di Maometto era uno “scisma”, come secoli dopo lo sarà il luteranesimo; Maometto allontanandosi dal Cristianesimo, Alí causando la divisione dell’islamismo “tra Sunniti e Sciiti”, per sempre correlati della corresponsabile rottura.
Come informa l’autore, fu assai probabilmente Brunetto Latini a informare Dante dell’esistenza del Libro della Scala, essendo reduce dalla Spagna. E indica anche “un segnale divertentissimo, ma nessuno lo ha notato: le case le chiama ‘meschite’” – termine arabo da cui deriva “moschea”. L’autore va enumerando numerosi arabismi presenti nella Commedia, fra cui la “metafisica della luce”, “concezione araba”, cosiddetta per “San Tommaso”. E tutto il capitolo brilla di quella luminosità che l’autore va a ricercare nel proprio studio critico e negli altrui.
Il secondo saggio è L’altro nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Il Tasso è “un uomo di transizione, tra Ariosto e Marino, tra lo splendore delle corti e l’inizio della servitù politica italiana” – un poeta che “sembra spesso camminare sull’orlo di un burrone, sfidare di continuo l’autorità religiosa come quando, al termine del poema, mette in bocca alla pagana Armida le parole della Vergine: ‘Ecco l’ancilla tua’…” Il Tasso usa un “linguaggio spesso ellittico, concentrato, franto (l’enjambement fa la parte del leone), fatto di coppie di antitesi e di anafore. di continui chiasmi. di fraseggio ora prezioso, ora prosaico” – esagerato, fuggevole, ambiguo e moderno. Egli è a favore dell’Occidente, però si pone in modo di ascoltare il mondo intero: “nell’insinuante presenza di alcuni rappresentanti, in particolare femminili, del campo pagano, portatori di valori ‘laici, pluralistici e materialistici’ antagonisti a quelli cattolici.” Mentre, nel precedente saggio su Dante, l’autore riportava la sua reazione alle altrui opere, qui egli risulta più autonomo e originale, e perciò forse da me più facilmente frainteso, ma non so.
L’islamismo diventa “figura” similare a quel che si sta allora opponendo al cattolicesimo: l’“eresia protestante, i cui valori incarnano la tradizione dell’umanesimo laico rinascimentale, ormai messi in crisi dall’egemonia dell’ortodossia controriformistica.” – si tratta forse di un evo distopico, dove l’Altro ha dei valori meritevoli di stima e di salvaguardia, pur rimanendo sempre l’Antagonista. In ogni confratello si cela un potenziale infedele, e viceversa. Il finale “conflitto non è fra Cristo e Maometto, non fra due religioni, ma fra Dio e Satana”, ove il Secondo ha l’animo di rimproverare il Primo, “di aver cacciato dai ‘felici regni’ gli angeli a lui ribelli, lo accusa di averli costretti nell’‘abisso oscuro’ dell’Inferno” – di essere il colpevole tiranno, l’unico merito del quale è di aver vinto “una guerra”, quasi fosse un campionato del mondo, prima ancora che questo fosse creato. Quella che intercorre fra cristiani e islamici è “una guerra tra pari” e, in tal senso, giusta.
“Clorinda viene battezzata in punto di morte”, ma da viva “anticipa tante eroine del romanzo moderno”. Ed è questo che conta, che le conferisce una specie d’immortalità.
“Vi è poi la questione del riconoscimento dell’Altro e del decentramento del punto di vista” – forzando il lettore a “una ginnastica mentale interculturale formidabile per aprire le menti.” Confidando, nonostante vari dubbi, di aver inteso l’insegnamento di Donatello Santarone, transito ora verso il saggio Franco Fortini. Asia Maggiore. Viaggio nella Cina. Dice Fortini, e riporta Santarone: “… è necessario includere nel nostro corredo concettuale e percettivo una conoscenza meno sommaria, meno esotica, meno etnocentrica del cosiddetto Altro. Il quale, in verità, è meno ‘altro’ di quanto appaia a una prima superficiale impressione…” – e questo deriva da un più o meno reciproco confronto. Esistono dei forestieri, così vengono detti a Reggio Emilia i non reggiani: furastēr, che mai finiscono d’integrarsi, vivendo nel doloroso ricordo delle loro patrie lontane e a ogn’ora sognate; ma poi esiste anche quel Nicola (non di Mola, ma di Ginosa) che trent’anni fa mi disse: ‘na vôlta, a Rèş, a n gh ēra mia acsè tânt taròun cm adèss! Nel 1985 feci un viaggio in treno fino a Palermo, in un viaggio che era durato quasi un giorno. Quando si stava arrivando, una quarantenne che era nel mio scompartimento insieme alla figlia, quasi non voleva più scendere (mentre per tutto il viaggio era presa dalla voglia di arrivare), giungendo a piangere per lo stress.
Continua Fortini: “Noi siamo anche la Costa d’Avorio, lo Zambia o l’Algeria” – e anche Pixuntum, Amalfi, Rodìo e questo nonostante “la tendenza dell’Occidente a chiudersi in se stesso”.
Tu, Donatello, scrivi che “prendere sul serio la Cina significa riconoscere una civiltà millenaria a cui dobbiamo molto…” – e non solo la bussola, gli spaghetti e la polvere da sparo. Fortini parla della “rozza energia di un’ignoranza che si ignora” – frase sublime, senza dubbio. E dice che occorre “valutare – la luna, ancora una volta – quali effetti magnetici si determinano anche a nostra insaputa, a partire da quella massa di passato e di presente.” – un effetto gravitazionale a cui non si cogita mai abbastanza.
“… l’avvento della Cina come partner culturale e soggetto storico ci costringe a rivedere gran parte della nostra eredità, e delle categorie in cui ha trovato sistemazione.” Inoltre, “si parla della Cina e contemporaneamente si parla di noi”: questa ultima affermazione è tua. “La descrizione della riforma agraria…” – operata da Mao – “è tutta giocata nel rapporto tra un prima (dall’autore sempre scritta in corsivo) e un dopo. Prima della rivoluzione, dopo la rivoluzione” – come, fatte le debite proporzioni, in Italia, dove la Liberazione ha sancito la fuga dal passato.
E qui, caro autore, mi emozioni: “Ha scritto Tadorov in Noi e gli altri a proposito dei viaggiatori sul tipo di Fortini: ‘L’allegoria dice una cosa e ne fa intendere un’altra: l’allegorista parla di un popolo (straniero) per discorrere di tutt’altra cosa – di un problema che riguarda l’allegorista stesso e la propria cultura.’” – quel sentimento sorge dal fatto che, altrove, ma contemporaneamente, sto leggendo La vita comune dello studioso bulgaro, che divenne poi francese.
Esamini poi la Leggenda sull’origine del libro Taoteking dettato da Latse sulla via dell’emigrazione di Brecht (nella traduzione di Fortini), ma non voglio inquinare la tua acuta disamina se non riportando il tuo pensiero maggiore (o quello che meglio ho colto): “Non è possibile intendere la ‘cortesia’ del filosofo cinese e quella del doganiere fuori dello sfondo di ‘malvagità’ che infuria alle loro spalle.” – vero esempio di superiore signorilità, quando tutto sta crollando dietro di te. Scrive ancora Fortini: “che le contraddizioni non sono sopprimibili, ma solo sostituibili, che nulla è acquisito una volta per tutte, che le fasi storiche non si seguono come le dinastie egizie, che nulla è certo e che tutto può essere perduto per un intero ciclo o, se si vuole, che l’uomo non può uscire dalla sua condizione di uomo.”
Nella sua poesia che chiude il capitolo, riporto solo alcuni versi: “A loro chiedo aiuto perché siano visibili/ contraddizioni e identità fra noi./ Se un senso esiste, è questo.” Sempre quello: cercar di capire l’Autre che vive dentro di noi, e che noi cerchiamo di scordare.
Il prossimo tuo sforzo letterario è un complesso ma intrigante Pier Vincenzo Mengaldo lettore di Franco Fortini. Mi accorgo presto che, più ancora che negli altri passi finora letti, non mi è consentito ribattere e interagire a ogni affermazione letta, in quanto ne uscirebbe una reazione quasi più estesa del volume esaminato. Sono anche concetti ardui, a volte quasi misterici, non assoggettabili a sinossi. Fortini ama “quella poesia che accentua i valori sintattici piuttosto che quelli lessicali, i nessi piuttosto che i singoli elementi…” – e qui urge dire che, nel mio arşân, al nèsi è il nesciens, lo sciocco che non ci arriva, ma ancor di più riportare il pensiero di Sergio Blazina, che seguiva “le strutture piuttosto che i particolari…” – e qui debbo sintetizzare piolescamente, per uscirne vivo: quello che appare più caduco e più candidato alla dorata eternità. Un culto della “langue rispetto alla parole”, quindi la lingua franca rispetto alla parola italica? Stavo pensando a Edoardo Sanguineti, a James Joyce e ad altri mostri glottologici.
Si tratta, secondo le parole e la lingua di Fortini di “una poesia che si distingua dalla coscienza costante di tutto quello che poesia non è, si degrada ad ‘aroma spirituale’, a ipocrita ‘cuore di un mondo senza cuore’ o come una volta m’accorse di dire, a ‘vino dei servi.” – che, se è lambrusco, scivola (blêsga) nel gargarozzo da dio! Da quel che ho capito, Fortini, diversamente dal rubino di Massenzatico, non è un tipo popolare.
“La traduzione, che per sua natura possiede un carattere interculturale, rappresenta una delle forme più alte, se non la prima, di transito storico-culturale.” – Franco traduceva da almeno tre lingue e mi chiedo ora come giocasse a biliardino.
Passo a pagina 137, snobbandone una ventina. Resteranno sempre là, per chi le vuol leggere.
Secondo Franco, il critico non è “colui che legge per gli altri”, non è il servo di nessuno, “ma colui che parla ad altri”, ponendo “l’opera letteraria e i suoi significati in rapporto con tutto quello che egli sa del pensiero, delle ideologie, delle credenze, della società.” – affidando il tutto a delle scelte personali, non oggettive, che non ne esistono in assoluto, ma solo nel proprio relativo, diventando lui stesso un personaggio dell’opera esaminata e devo confessare che ho tradotto in piolese quel che ho capito, puntando più sull’arguzia che sulla precisione. Se ci ho preso, inizio ora ad amare una persona che quasi ignoravo fino a oggi. Il suo viso, che colgo da zio Google, mi pare nobile e buono. E ti cercherò, Franco, su ogni bancarella di libri usati.
“Sotto pena di scambiare per dialogo il monologo con se stesso”, egli “non potrà non servirsi dei contributi della filologia e di una possibile scienza letteraria…” – traducendo il tutto in una comune “vulgata”, seguendo il “sapere comune” in essi contenuti. Tutto appare pedagogico, speriamo non anche pedante. Scopo del “critico filosofo o scrittore” è “conferire ‘carne e sangue’ alla parola letteraria.” – come se fosse un novello Redentore?
“Il saggista cioè ricerca la risposta teorica a una seria di domande fondamentali riguardanti l’esistenza umana, ritenendo però che una risposta a tali domande non potrà mai. dal suo punto di vista, venir trovata: qui risiede l’originalità della forma saggistica.” – dall’accertamento (presunto) di un fallimento nell’indagine.
“Il vero saggio si svolge pertanto necessariamente su due dimensioni ed è ironico”: rivolte a “determinate persone o situazioni, ma queste non sono che occasioni, pretesti, per mettere in rilievo i quesiti concettuali che l’autore considera sostanziali” – e lo si deve all’aureo Lucien Goldmann.
“… criticare sempre il meglio, e mai il peggio” – e il consiglio di Giacomo Noventa significa che occorre utilizzare la parte migliore dell’anima altrui: gli attrezzi ben funzionanti, non quelli poco idonei all’uso. Una scelta per l’utente: “… la critica valutativa, la critica esplicativa e la critica riproduttiva o mimetica” – e tu sei assai bravo nella seconda, Donatello. Io non posso che affidarmi alla terza, non avendo scelta. Non significa emettere un giudizio, o definire un significato, quanto interpretarlo come se fosse una cover, adattata ai propri mezzi vocali.
“La terza ‘implicando in sé il momento esplicativo e quello valutativo, tende a dare, del testo considerato, una versione o trascrizione, una sorta di doppio o di modello” o, “al limite, un pastiche, una imitazione o parodia…” – grazie Franco! – nella forma “del ‘saggio’, della ‘epistola’” – fino a rischiare uno pseudo-ossimoro: un saggio pazzoidale, come quello di Artaud, per dare l’idea.
“… gli scritti che vivono sono quelli che hanno virtù di mutarsi in testi letterari, ossia di trascendere la propria specialità per porsi, come fa l’autentico scrittore, in rapporto con i massimi temi della esistenza.” – quelli che premono anche al lettore. Da non dimenticare il fatto che il primo lettore dei nostri scritti siamo noi: gli altri siamo noi, cantava ancora e per sempre quell’Umberto.
“… la poesia appariva a Fortini come una sorta di messa in forma anticipata del comunismo, da lui sempre inteso come un processo attraverso il quale gli uomini cominciano a dar forma all’esistenza, a ordinare e a superare il disordine distruttivo e alienante di secoli di sfruttamento.” – che ogni tanto, quasi sempre, diventa il black hole che tutto ingloba, indistintamente. Sognare l’ordine sempre e comunque è sempre e comunque un atto virtuoso quanto assassino. È un esigere un chaos in cui tutto deve per forza precipitare.
Ispirato dal maestro Brecht, per Fortini “è necessario scrivere in una lingua durevole perché ci vorrà molto tempo perché ciò che vogliamo si possa realizzare” – ed è lo stesso tempo che rischia di annichilire la propria diversità in quella singolarità che ogni cosa particella, persino i fotoni.
Non semplicemente “abitare tra i monumenti della propria letteratura nazionale”, “scegliere invece di render parlanti alcuni di quei monumenti ed abitabili alcune di quelle necropoli o chiese o città: e abbattere il resto.” – e quest’ultimo atto è assurdamente distruttivo. Il bello che mi pare di cogliere nella scrittura di Fortini è l’amalgama che “vivifica una strada si Firenze e un contadino cubano”, e mille altre cose che tu, Donatello, enumeri. Non è però solo l’amalgama, ma anche i singoli oggetti individuali che lo compongono.
“… esiste un buco temporale negli scritti di Mengaldo su Fortini di quasi vent’anni.” – e la spiegazione “potrebbe essere che Mengaldo aveva così tanto dato al suo ‘grande amico’…” – da aver poco, in quel tempo, da aggiungere (al proprio discorso su di lui). Il ritorno (detto e scritto, non solo pensato) a quel dialogo amicale, avvenne “nel 2017”, al centenario della nascita del poeta, critico e traduttore, a proposito, appunto, della traduzione che quell’autore aveva fatto “del Lycidas di Milton” e come si possa tradurre, in una vita sola, da tre lingue tanto diverse, Milton, Goethe ed Elaurd resterà per sempre un miracolo, nonché un mistero.
Ora urge passare a Poesia e pedagogia di Andrea Zanzotto, capitolo che presto si dimostra di ancora minor semplicità. Ora proponi, per poi esaminarle con precisione da genetista, alcune poesie del poeta di Pieve di Soligo, che non so se leggerò mai, stante il tempo che sicuramente mi richiederebbe il farlo. Secondo Gianfranco Contini, che riportava un pensiero del pensoso Montale (così lo definiva Svevo), in Zanzotto “la sua sfiducia nella parola è tanta che si risolve in una felice commistione lessicale. A lui tutto serve: le parole rare e quelle dell’uso e del disuso…” – ed è lì, in qualche mercato del disuso, che eventualmente cercherò alcune raccolte di componimenti, possibilmente brevi, confidando in un breve assaggio: questo è il problema dell’autore esageratamente complesso, che si fa prima a evitarlo che a leggerlo. Furbescamente da un decennio tengo su uno scaffale il primo tomo dei Finnegans Wake di Joyce, aspettando di leggerlo solo allorché riuscirò a scovare in qualche discarica i rimanenti della serie.
Quella di Zanzotto, è una “più ardita frizione ed escursione lessicale”, che prima o poi, temo, dovrò percorrere insieme a lui. Senza urgenza, dai… Sto pensando a quei “movimenti centripeti che servono a ‘stringere’ il testo dentro un orizzonte di senso retorico-storico, un orizzonte umano-naturale-mondano a cui il poeta di Pieve di Soligo non rinuncerà mai neanche quando sembri conclamare un’estrema autonomia del significante.” Il concetto mi pare corretto. Mi pare solo…
Ferdinando Camon “gli ricordava il consiglio che Valery dava al poeta ‘di ritirarsi in se stesso e coltivare la propria isteria’” – al che il nostro rispose che per lui era “esattamente il contrario. Perché il poeta ha già una sua isteria, riportare la sua ‘parola’ alla ‘lingua’. Egli, che per sua natura è eccentrico, deve ritessere i fili che lo legano al centro per ricondurre alle sedi umane la sua esperienza fatta nel deserto…” – umilmente chiedo: una via di mezzo (una steppa, una tundra, una savana, una pampa, la Pianura Padana, la Piana di Ascea) è in ogni caso percorribile?
“… la sua è sempre un’esperienza del limite, ma egli ha il compito di arricchire la terra con la terra incognita lo spazio noto, e di farlo cos’entrare in ebollizione.” – anche in sublimazione, mi auguro. Caro Zanzotto, ognuno è a rincorrere i suoi guai! E il mio prossimo, forse, sarai tu. Forse…
“L’undicesima e ultima strofa si apre con un polisemico ottonario a rima interna…” – chi vuol sapere che è, s’informi. Poi scopro che avevo sempre saputo il significato di polisemico, sebbene con altre vesti agghindato. “Intanto fuori (‘out out’, 170 – ma che nella pronuncia inglese diventa ambiguamente il latino ‘aut aut’)” – fuor di parentesi però: un vago esempio di zanzottite acuta che a forza di leggerlo diventerebbe cronica.
“Zanzotto, in conclusione, è un poeta travolgente, un grande sperimentatore che ha fatto uso dei registri linguistici più disparati…” – e disperati? – “… di un lessico ai confini del balbettio…” – ma no… co…cosa di… dici! – “… o del gergo tecnico scientifico…” – una sorta di artista virtuale che crea la poesia reale – “… di una grafica virtuale che ricorre anche all’icona fumettistica o al rebus. – e che oggi userebbe le emoticon.”: era come quel Gi che suonava la batteria nei pressi di un ospedale, una persona religiosa, ché per sonare lì Gi osa. Ogni suo regale verso era un recondito punto, ahia! Un re con dito punto… Leggendo, mi rendo consapevole di quanto io sia un dilettato allo sba-raglio, dall’iberico baralha, confondere. La letteratura non è altra che un’alchemica forma dell’entropia cosmica. Il suo motore immobile “lo spinge sempre a una contromossa che tende ad annullare i punti raggiunti” – o forse a riutilizzarne l’energia, E = mc2.
Esempi di suoi versi: “O Maestra, perdireindio, parbio, parlafesantadedio/ Va nel dirotto delle piogge/ diobanbinelddidio!” Ed è ovvio che gli spazi li ho messi a capocchia. Ottima lo spicchio di luna che dormicchia dapprima su un “…là” – e, tre versi più giù, su un “comporterà”.
Parlando della sua “maestra Morchet” preferita, ipostasi della pedagogia, la definisce con senso ipostatico, “come una madre natura ormai” – e qui rivela una certa dose di umiltà creativa: e mi chiedo perché mai non ha azzardato un nonna, oppure un ava, oppure, assai meglio, una minestra Morchet, se non anche, per esagerare!, una matura natura? Sono calcoli a cui, necessariamente, il poeta costringe il lettore. Non ci è dato sapere, purtroppo. Ma azzardare sì: quel giorno il poeta era forse un po’ indolente.
“Quella di Zanzotto è una poesia difficile…” – ma che dici mai! Porta pazienza! O che la pazienza ti porti! “Il risalto dfel significante sul significato, e la poetica che questa operazione sottende, è il suo grimalello per penetrare là dove arrivare non è, da parte sua, una cosa vacgheggiata bensì tremendamente dolorosa.” – e io sarò ora pronto a soffrire seco. Detto, milan nos, la prima volta che mangiai il caviale manco lo capii. Assai meglio mi andò quando qualcuno, imbrogliandomi, mi porse del lompo.
Cittadina di seconda classe di Buchi Emecheta è il saggio seguente, che tratta della letteratura “creolita”, cioè “di fecondazione dell’inglese, di arricchimento della cultura anglosassone”, di una appropriazione e trasformazione da parte del colonizzato di un’arma del colonizzatore: la lingua. L’unica che è consentita a noi oppressi. “Si tratta di un’ibridazione, di una sorta di meticciato…” – e il termine è tanto brutto quanto espressivo – “… poetico al quale per ora la letteratura italiana è rimasta in buona parte estranea per ragioni storiche.” – e qui non so che dire, sapendo solo rimanere perplesso. “L’Italia, infatti, non ha mai posseduto un impero coloniale comparabile a quello britannico…” – e allora capisco, il nostro micromondo barbarico era limitato al suo confronto. “Solo il fenomeno migratorio sta determinando l’affermarsi di una letteratura degli immigrati scritta in italiano, in grado di incidere sui temi e sul linguaggio letterario dell’italiano” – eppure lo stato italiano, inteso come Casa Savoia, un minuscolo impero l’ha avuto, dopo l’invasione garibaldina, conclusa vittoriosamente presso il Volturno. E lo scambio culturale fra le due popolazioni iniziò da allora. Dopo di cui molti meridionali invasero a loro volta, come immigrati le terre del nord, non recando armi ma forza lavoro. I miei figli, che hanno la madre campana, spesso mischiano i due dialetti, dove però la parte del leone la fa lo slang di origine materna, in quanto a noi baby boomers del nord fu inibito, un po’ dappertutto, soprattutto a scuola, l’uso dell’idioma locale. Anche i nostri concittadini meridionali furono “condannati a quel ‘colonialismo a domicilio’ di cui parlava il filosofo francese Jean-Paul Sartre a proposito dei maghrebini in Francia…” – con i vari aspetti positivi e negativi “dei paesi di provenienza”.
Un concetto magnifico: “la letteratura è capace di dare carne e sangue alle cifre, di umanizzare le statistiche e le analisi macroeconomiche, di pronunciare un nome e un cognome, di individuare un luogo e un paesaggio, di esprimere un’emozione o un pensiero altrimenti indistinti o distanti.” Alcuni calabresi legati alla malavita organizzata furono inviati al confino nel sito Reggiano. Attualmente vi sono oltre diecimila immigrati e figlio di immigrati provenienti da Cutro, il paese della creta, della provincia di Crotone, inclìta città della Magna Grecia e non vedo l’ora di leggere un’opera di un letterato di quella stirpe che da ormai mezzo secolo nobilita la nostra agricola città.
Non so se in quest’accusa vi sia anche un’auto-critica: “I critici sono incapaci di avvicinare un’opera che abbia dei pregi di originalità, perché loro ragionano solo per analogia…” – per fortuna io non sono di quell’etnia, ma tu, Donatello, a che tribù appartieni? Io credo che l’analogia sia una funzione importante, ma come dici tu non ha da essere unica: ed è grazie a te che io mi sento fortiniano e forse anche zanzottista! Fai poi una disamina così completa ed esauriente della drammatica storia narrata da Buchi, che un po’ mi ha esaurito, ma credo che la leggerò, anche per vedere come va esattamente a finire. Anche se lo avessi intuito la cercherò lo stesso, per cui ti ringrazio.
Un’ulteriore analogia fra immigrati: una mia conoscente cremonese, coniugata con un potentino, visse sia nel nord e nel sud. Come accadde ad Adah, la protagonista del romanzo, affidò a una donna del luogo (non ricordo se del nord o del sud) i propri figli e, come Adah, anche lei scoprì che “i suoi figli razzolavano tra le immondizie con i pannolini sporchi e privi di qualsiasi assistenza.” – lerci ma indipendenti! Ma forse felici! Leggo che molti africani sognano di laurearsi in “giurisprudenza” per poter essere coinvolti nella gestione del paese. Da esperienza personale so che molti ragazzi del sud inseguono il medesimo ideale, tanto che gran parte dei nostri politici storici sono di quelle parti, e che fra i vincitori dei concorsi pubblici i più sono aspiranti giuristi di origine (uso il termine per mera provocazione) terronica. I miei figli sono per metà terroni e per metà polentoni, e non so che inizio faranno… Concordo con te, anche se non ho ancora letto il romanzo, “che l’opera della Emecheta, come quella di tanti scrittori, musicisti, intellettuali nigeriani, rappresenta un punto di vista significativo per comprendere i complessi fattori che legano l’Africa all’Occidente, svelando i meccanismi di esclusione e di dipendenza iniziati all’epoca del colonialismo e ancora oggi, in forme diverse, attivi.” Strano però che l’Africa non sia definita (qual invece è), Occidente, ed è un’ingiusta fortuna che noi si sia tutti residenti ad ovest di Paperino.
Di oltre 100 pagine consta il prossimo saggio: Sozaboy di Ken Saro-Wiwa. Alla salute! L’autore trattato, il cui nome/cognome, sarà senz’altro augurale, del tipo: che sarò-per-sempre-vivo, “è stato uno degli scrittori più rappresentativo del suo paese…” – la Nigeria, nonostante o forse anche grazie al fatto che è stato impiccato “con altri 8 militanti del Mosop (Movimento per la sopravvivenza del popolo degli Ogoni)…”. Non so se egli ora riposi in pace, oppure ancora agitato, da parte mia dopo aver letto di lui e del suo romanzo Sozaboy, mi sento un po’ frenetico. Dico innanzi tutto il perché. Aveva ragione Marx, l’economia è la struttura portante della società umana, tutto il resto è sovrastrutturale, e si può eliminare senza che la base ne risenta. Il problema è che l’1% della popolazione mondiale, si dice, possiede e gestisce, speculandoci sopra, il 50% del reddito; dell’altro 99% un 50% soffre per la fame. Che balla racconteremo oggi al mondo? Non ne esistono più di originali, e ogni menzogna è riciclata. Ci si può narrare sopra l’ennesimo apologo, o si può fare di più? L’economia da più di un secolo ha partorito un essere mostruoso, per cui nulla è sacro, salvo quell’atroce Se Stesso. È il sistema che comanda, non il gerarca di turno. È Lui il Dio oggi che trionfa su noi poveri diavoli.
Il romanzo di Ken è scritto in “rotten English”, di chi ha studiato in loco, non a Cambridge, che rende popolare il termine della lingua del colonialista, appropriandosene. È come se, italianizzando, scrivessi: compiuter, uotsapp, Feisbuch, Scicogo, Niuiork, Gieck, Scespir, etc etc. – “inglese ‘marcio’, ‘guasto’, ‘fradicio’ – parlato dai ‘ragazzi di vita’ nigeriani…” – che “riesce con la sua potenza espressiva a restituire il mondo proletario e sottoproletario dei soldati, del villaggio, della guerra”: in altre parole: “uno spaccato del mondo dei vinti” – che più spaccato non si può, salvo usare l’atomica, nel qual caso sarebbe ridotto in polvere; eppure qualcosa resta, di quei vinti, non solo la memoria, anche il senso di colpa di noi Nord-Occidentali. La lingua è “un amalgama di pidgin nigeriano, inglese sgrammaticato, e buon inglese, con punte addirittura idiomatiche”: a Napoli si direbbe un mescaa Francesca. È sempre una donna l’addetta al primo mescolamento, nella fattispecie è la mamma del protagonista, che non vuole che il suo unico rampollo vada in guerra e muoia!
“Caratteristica, scommessa forte e ardita degli scrittori africani, è l’adozione della lingua del colonizzatore, anziché il suo rifiuto, per trasformarla, rigenerarla…”.
Leggo nella nota 12: “Il pidgin storicamente si riferisce alla lingua franca usata negli scambi commerciali tra cinesi ed europei a partire dal XVII secolo…” – e si sappia che la sgrammaticatura odierna sarà la ferrea logica glottologica di domani e l’editto odierno sarà la futura banalità (tanto assicura Salvatore Patriarca), col suo Elogio della banalità. E che l’ultimo congiuntivo (assente nell’inglese) è oggi ricoverato agli Incurabili, in via dell’Anticaglia.
Il saggio è lunghissimo anche per i continui riporti non solo del romanzo, ma anche di altri autori, soprattutto italiani, che hanno trattato l’argomento principale della guerra del Biafra, stato secessionista dalla Nigeria dal ‘67 al ‘70. Colgo in te, Donatello, una convinzione, paragonabile a quella di Agatha Christie, che l’uomo è analogo dappertutto, anche se lei diceva proprio uguale. Questo vale anche per lo scrittore, per cui paragoni Ken (che già sento di amare, che cercherò e che prima o poi troverò da qualche parte) e “due scrittori del ‘nostro’ Sud, Pirandello e Verga. L’ironia e il sarcasmo, il surrealismo, l’umorismo del primo si intrecciano con il crudo e sintetico realismo del secondo, dentro un mondo – quello contadino, che non a caso tanto ispirò i due scrittori italiani – dove dominano l’immobilismo fatalistico e il ricorso al mito.” Non voglio, Donatello, fare il riassunto del tuo riassunto, ma cogliere quelli che sono per me gli aspetti principali di entrambi i testi, il tuo e quello di Ken: “Di fronte alle parole del capo villaggio, la grande assemblea del popolo di Dukana accetta alla fine l’ennesima imposizione del potere…”. Si tratta di una specie di “umanità kafkianamente degradata che accompagna la scrittura di Saro-Wiwa…” – anche se nel romanzo di Franz, la vittima non accettava supinamente l’accusa, che non comprendeva. E questo gli permetteva ogni tanto di alzare, sia pure inutilmente, la cresta, mentre qui il popolo pare accettare perché non riesce a comprendere: non gli è data tale minima possibilità.
“… lei abbassa il vestito e le vedo le tette, sembravano calabasse…” – zucche tropicali, che pulsano in coppia per tutto il romanzo: al popolo questo basta o, meglio, deve farsi bastare: calabasse e (poco) pane.
“… prima di questa guerra c’è stata quella di Hitla…” – Hitler, e il popolo anziano è abituato a questi mostri, e nulla può ormai sorprenderlo più di tanto: “Oggi ammazzi Hitla, domani compaiono cento Hitla”, sempre nuove orride creature mitologiche. Ma a consolare Mene, il protagonista c’è sempre “un culo che parla, e le tette dritte come calabasse…”: quella creatura deve diventare sua moglie, e lo diventerà! Anche a costo di andar in guerra! Ken usa espressioni molto vivaci e colorate: “saltava come una monetina quando ti danno il resto”.
Sozabov, che è il soprannome del protagonista “decide di chiamare lo strano soldato Manmuswak. Che nell’originale in rotten English è ‘man must walk’, spiegato così da Saro Wiwa nel suo glossario: ‘a man must live (eat) by whatever means’ (un uomo deve vivere (mangiare) con tutti i mezzi)” – anche risparmiando sulle parentesi quadre e tradendo qualunque (finto) ideale.
E qui perché non azzardare un paragone fra Ken e Andrea? O addirittura con Franco?
“… A quel tempo mica lo sapevo cosa fosse la paura: ma penso che adesso comincio a conoscerla. Poco a poco. Un po’ alla volta.” – e se poi è sparito il congiuntivo, l’importante è sopravvivere.
“… Saro-Wiwa usa una tecnica narrativa che assomiglia, se volessimo utilizzare un paragone con il cinema, ad una sorta di riavvolgimento veloce della pellicola, come se, in un concentrato narrativo, lo scrittore volesse ricordare e riassumere eventi e pensieri già incontrati in precedenza e che ogni volta devono essere tenuti presenti per consentire il progresso della storia…” – parti zippate nel cervello dello scrittore, del lettore e del personaggio che ogni tanto esplodono all’unisono. A me lo stesso capita con certi concetti che ogni tanto bussano e vogliono essere assolutamente ri-aperti. Non è una scelta, bensì una cogente necessità.
“Si tratta di un’interatività che consente la memorabilità di personaggi chiave (gli amici di Meme, al moglie e la madre…” – della moglie vanno ricordate ad libitum le calabasse – “… di situazioni emblematiche” – nonché “di pensieri” – etc etc.
Ora citi una poesia di quel martire nigeriano: “… ridendo, piangendo e mendicando/piccole pietà” – che ti ricorda un passo analogo della “Pentecoste” del Manzoni: “Soffri, combatti e preghi” – nonché il fortiniano, da “Composita solvantur”: “stride, combatte e implora dagli spini pietà” – spini con spine, ovviamente.
“L’enumerazione del campo semantico degli orrori offre al lettore la chiave di volta per l’entrata in questo inferno dantesco: ‘letamaio umano’, ‘immondizia’, ‘pancia grande grande’ (e si noti l’interazione, figura retorica ricorrente nel romanzo), ‘foresta malvagia degli incubi’, ‘città dei fantasmi’, “città fantasma’, ‘stracci luridi’, ‘vestiti tutti pieni di buchi’, ‘capelli lunghi lunghi’, “gente-spazzatura’, ‘gli occhi come dei fori scavati nella testa’, ‘culo piccolo’, ‘foresta nera’, ‘nera palude’, ‘giovani fantasmi’, ‘lurida città’.” – tanti dolenti algoritmi utilizzabili dall’intera, oppressa umanità.
“… la memoria di quegli avvenimenti, le cause e le conseguenze di quella guerra sono però, oggi, totalmente rimosse nella coscienza collettiva dell’Europa e, in misura forse minore, dell’Africa.” – per avvenuta amputazione dell’organo infetto.
“… non rinuncia al suo erotismo felice nel ricordare le belle tette della moglie Agnes.” – ed è meglio tenere tra le mani quelle naturali sporgenze che tutti gli orrori esistenziali.
“… e un sacco di bambini con la pancia grande e le gambette da zanzara…” – che non possono più spiccare il volo, né succhiare alcunché. “… una nuova lurida città nata da questa guerra senza senso…”.
Gli “uomini pancia”, miserevoli, “li avrebbero seppelliti con grande preghiere e avrebbero chiesto a Dio di accoglierli in Paradiso.” – cristianamente? “E la loro cliente è la morte.” – Amen e Così Sia! “Cominciai a piangere piano piano, piano piano”, e: “la testa mi risuonava come un tamburo, come un tamburo, come un tamburo”, e: “lo stomaco girava e girava e girava”… – l’eterno ritorno delle minutaglie umane.
“… Io mi metterà soltanto a correre e a correre e correre e correre e correre…”; nell’originale é: “I will just run and run and run and run and run…”.
Tua (quasi) conclusione: “Sembrerebbe che dall’inferno della guerra non ci sia, come per Dante, un purgatorio di passaggio e un paradiso di felicità”: costerebbero troppe vite umane, che normalmente sono gratis. non amoris Dei: che quello è impegnato al Nord Ovest.
Mia (quasi) conclusione: cercherò quel libro, dovessi andare fino a Castel Goffredo!
Ultimo capitolo, defaticante pare, essendo di una ventina di pagine, pare soltanto: Cesare Cases e la didattica della letteratura. Secondo Berardinelli, è “ingenuo e volgare”, cosa?, vedere le telenovelas?, no!, “è leggere un romanzo per acquisire conoscenze su un paese in cui si andrà in vacanza o a lavorare.” – e mi pare che anche andare in vacanza e, soprattutto, lavorare può essere definito in tal modo. Quel che conta è la disamina critica. Per Fortini, “proprio della parola poetica è rivolgersi a tutto l’uomo, non all’uomo ‘poetico’, di essere una allegoria di totalità che parla a una totalità…” – per capire il mondo, non (solo) il mondo dell’arte: così traduco il pensiero di Schiller, “per cui l’educazione estetica ‘dell’uomo è educazione è ‘educazione mediante l’arte’ non ‘educazione a capire l’arte’” – l’arte è un arnese domestico, un pentolino, ma qualora sia un e-book, si trasforma in un elettrodomestico. Secondo il poeta Roversi, “… la poesia non va interpretata, essa stessa è interpretazione della realtà da parte dell’autore: la poesia è un ordine chiuso di segni, ha una fragilità sostanziale e al contrario una perseveranza di fondo che può sembrare durezza tanto che si rende disponibile a tutti fuorché a coloro che si ostinano a sfrugugliarla col proposito di coglierne il significato ultimo ed estremo…”.
Una poesia è complessa? Anche noi lo siamo. Se noi siamo rigidi e parnassiani, anche lei lo è.
“Leggere poemi e romanzi non porta a riflettere sulla condizione umana, l’individuo e la società, l’amore e l’odio, la gioia e la disperazione, ma su nozioni critiche, tradizionali e moderne.” – e questo lo assicura il solito Todorov, a cui risponderei che sulla condizione umana mi induce a riflettere anche lo zappare una presa dell’orto (quando le endorfine mi ballano in tondo).
“… la letteratura parla solo di sé”, “insegna solo a disperare” – non so, forse, ma non la giudico un atto di natura divino, ma assai umano, limitato, a volte infimo, paragonabile a un piccolo botto, che avviene normalmente dopo aver mangiato a sazietà. Secondo Baricco “leggere è come un volo”, per cui non occorrono note, tanto c’è il pilota che pensa a tutto (lui). Mi paiono due concezioni opposte e ugualmente necessarie, ugualmente fallaci. Per Baricco “… le note non servono perché interrompono il volo…” – causando un atterraggio di fortuna su una pista ahimè sabbiosa.
Mi fa ridere e quasi gemere una frase di quel nobile e a me sconosciuto scrittore: “Lenin, capo dei comunisti, non permetteva che gli artisti facessero i fatti propri.” – e chi faceva i suoi? E quelli di Baricco, a cosa recheranno? Lo scrittore è essenzialmente un uomo che si esprime, non un privilegiato. Kafka e Morselli, che lo sapevano bene, ne pagarono il fio. Il critico, quando va bene, è un insegnante di sostegno che aiuta a capire, e quando va male è un preside che chiama bestioline i discenti. Scrive Cases: “Fai leggere più testi possibile e tra i più significativi, purché non troppo ardui per un determinato livello…” – e qui quasi m’opporrei: per (mal) capire un autore occorre fraintendere il suo predecessore. Ed è dalla non totale comprensione dell’Altro che muore il seme che ti fa rinascere. Je est un autre, vero Arthur Rimbaud?
Cases continua: “Parti sempre dal testo. Se gli studenti strillano come bambini buttali in acqua senza saper nuotare, lasciali strillare.” – la poesia è un chaos, un abisso, un vortice, un seno materno a cui attingere prima di precipitare altrove.
“Puoi evadere nella storia, in quella delle teorie letterarie…” – ma “devi badare a che tutto riconduca al testo e non diventi puro sfoggio di dottrina” – e questa parola mi ferisce perché mi ricorda gli anni in cui andavo a dottrina dalle cape di pezza, come le chiamano laggiù, fra i più purganti periodi che abbia mai patito. E ancora qualche mio organo ne risente. Mi dispiace di aver forse fatto confusione su questo e su altri autori, ma la lettura cos’è, se non disordine, se non euforica entropia? Ed eterna, nonché magica progressione…
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Donatello Santarone, Il caviale e i fichi, Edizioni Bordeaux, 2023