“La vita comune” di Tzvetan Todorov: l’uomo è un essere sociale
L’uomo è un essere sociale. Lo è sì, sociale, anche se a volte corredato da un inquietante punto interrogativo.
Il saggio “La vita comune” uscì in francese nel 1995. Leggendo alcuni particolari della biografia di Tzvetan Todorov, un riferimento a Canetti mi sorge spontaneo. Entrambi sono bulgari di nascita, ma vissero gran parte della loro vita in nazioni lontane, ove scrissero in lingue altrui (Elias in tedesco). Posseggono entrambi una grande vivacità espressiva, quando dicono le cose in modo che paiono reali perché di fatto lo sono; non si perdono nelle quisquiglie, perché non ne hanno da gettare nell’aia ai volatili; arrivano dove devono arrivare: al nocciolo della questione; con loro non si perde mai del tempo, perché sembra mancare anche a loro; sono intriganti come pochi, anche quando dicono banalità, nel senso indicato da Salvatore Patriarca ne Elogio della banalità, a partire dalle quali sanno descrivere la parte centrale e più succosa della questione affrontata.
Nell’Introduzione leggo: “L’antropologia, così come viene praticata comunemente oggi, non è mai ‘generale’: si occupa delle singole società o della loro cultura.” – e mi viene da pensare: grazie tante, ma è ovvio, si esamina una tribù alla volta, mica tutte insieme! Però a tutto questo non ci avevo mai pensato.
Todorov cerca di utilizzare questa branca dello scibile, col suo secondo significato, quello sotteso: “di ‘conoscenza dell’uomo’, per indicare l’idea che ciascuno di noi si forma dell’essere umano.” – ognuno di noi ha l’antropologia che si merita, dopo averci pensato (e forse anche penato) su. Infatti, si dice che anche Manzoni, a chi gli chiedeva come avesse potuto concepire un romanzo ampio e complesso come I promessi Sposi, si limitò a rispondere: Ci ho pensato su…
Questo è il meno misterico segreto di chi intende scrivere alcunché!
Capisco che sia assai banale quello che vado dicendo, ma perché il discorso mi è sorto leggendo questo saggio, e non l’altrettanto splendido Eros e Civilità di Marcuse? Principalmente per due motivi, uno dei quali lo ignoro. L’altro è che mi pare che questo quasi sconosciuto (a me, non al mondo accademico) filosofo stia sviscerando ora, mentre lo sto leggendo, la questione principale: perché Aristotele disse che l’uomo è un animale sociale? Attenzione, però… Cecilio Stazio disse Homo homini deus est, si suum officium sciat. A integrarlo fu poi Erasmo da Rotterdam, col suo Homo homini aut deus, aut lupus. In seguito toccò a Bacone a sviluppare il discorso con un rinnovato: Iustitia debetur, quod homo homini sit Deus, non lupus. Fu poi il turno di John Owen col suo: Homo homini lupus, homo homini deus. Hobbes infine santificò, for ever, si fa per dire, il concetto, col memorabile: Homo homini lupus. Fu quasi una telenovela tipo Dallas, con parenti vari, alcuni buoni, altri meno buoni e altri ancora decisamente ombrosi.
Scrive Todorov che l’antropologia “si nutre dunque delle osservazioni e delle descrizioni che trova nelle scienze umane, anziché limitarsi a ridicolizzarle per la loro ingenuità filosofica. Perciò l’antropologia è al contempo concreta e generale, ed è questa sua dualità a renderla oggi tanto necessaria”: poiché bada amorevolmente al contenuto mentre lo va accrescendo. Le altre discipline “umane” paiono all’autore “serrature come le altre”, non essendovene una che passi dappertutto; nonché “discorsi da interpretare e non il senso ultimo di tutti gli altri discorsi.”
E qui mi pongo la storica domanda, che di fatto è un’incomprensibile banalità, micidiale arma umana santificata una volta per sempre dal Patriarca: perché mai io leggo soprattutto letteratura e saggistica moderna e non quella antica come l’editor di Oubliette Magazine che insiste a dire che, come Platone, nonché Plotino (come dire Cip e Ciop) non c’è alcuno? Chi è il lettore col minor torto? E qui Todorov mi risponde: “… se la letteratura non ci insegnasse qualcosa di essenziale sulla condivisione umana non ci preoccuperemmo di tornare talvolta su testi vecchi di duemila anni: e che se la verità letteraria non si lascia ridurre ai modi di verifica in uso è perché possono esistere molti tipi di verifica.” Il perché vale questo resta un mistero. Potrei abbozzare un’ipotesi: la lingua umana, come la filosofia, come l’arte, è un’invenzione recente. E non ha ancora sviluppato un’esatta capacità critica. La scienza, invece? Bah! Il mistero rimane… Non conta tanto l’argomento che fu detto, ma chi e come lo pronunciò, e perché. Si tratta di concetti che paiono eterni, che non temono finora l’usura.
“… i testi sono più intelligenti dei loro autori e le interpretazioni che ne siamo lo sono più di noi.” – noi possiamo, e dobbiamo, leggerli e capirli per quanto ci sia dato, interpretarli come si fa con un oracolo. Il primo capitolo è Uno sguardo alla storia del pensiero.
“La socialità è la vita reale, ma l’ideale, e dunque la verità profonda della nostra natura, è la solitudine…” – che è “la prima grande versione della concezione individualista sottesa alle nostre rappresentazioni della vita umana.” – ognuno sta solo sul cuor della terra, ma per arrivarci ha dovuto prendere il biglietto e fare la fila, come usa di domenica alla pasticceria Izzo di via Manfredi. Il mondo è soltanto il luogo ove sorgono i conflitti: un ego vs nos, ma anche un nos vs ego.
Per Pascal: “L’unione fra gli uomini è fondata soltanto sull’inganno reciproco.” – ed era un cristiano! Gli altri ci vogliono bene, come noi ne vogliamo a loro: si faccia però l’esame di coscienza. Se coabitiamo insieme è perché non riusciamo a scorgere “alcun’altra forma di esistenza possibile” – che non sia quella, obtorto collo, condivisa.
“Gli altri sono necessari perché la virtù possa manifestarsi (Aristotele: ‘Per noi il benessere comporta qualcos’altro oltre a noi’), e non perché ogni singolo soggetto senza di loro sarebbe incompleto.” Secondo l’ateniese Dei e animali possono vivere da soli (senza esprimersi però sui lupi), l’uomo no: “è irrimediabilmente incompleto, ha bisogno degli altri”.
Rousseau “utilizza una distinzione terminologica tra ‘amore per se stessi’ e ‘amor proprio’”– essendo la prima caratterizzata dal “semplice istinto di conservazione”; la seconda è invece dettata dal mutuo confrontarci, in modo negativo e invisiodo, con gli altri, che non sono da meno di noi. Noi evitiamo gli altri, pur cercandoli, anche disperatamente, avendone bisogno per sopravvivere.
Per Adam Smith “il desiderio di gloria non va confuso con la vanità, né il desiderio di essere buoni con la soddisfazione di ricevere complimenti.” – non capisco se sia un gioco di parole o di concetti. Penso sia soprattutto un istinto di sopravvivenza, dove questa aspettaiva pare immotivata. A volte mi chiedo che ne rimarrà di Dante, Leonardo, Michelangelo e Shakespeare una volta che sarà terminato il carburante della stella a noi più vicina. Che ci è stata data in accomodato gratuito, ma non ci appartiene. Secondo Adam, “tanto l’etica quanto l’estetica non possono nascere che in società”: la location ideale delle soap opera.
Poi Todorov parla di Hegel nell’“interpretazione di Kojève”, che spesso la ripittura un po’, per cui la fonte è detta “Hegel-Kojève”. Secondo questa simbiosi di filosofi, l’uomo, procacciato il cibo come qualsiasi animale, dopo “aspira a un riconsocimento del proprio valore che può venirgli soltanto dallo sguardo altrui”. Ed “è in questo senso che l’uomo non esiste prima della società e che l’umano è fondato sull’interumano”. Ed è per questo, caro Tzvetan, che amo dialogare con l’autore, anche se questi non potrà mai più replicare se non con un’altra sua opera. Sintetizzo il tuo pensiero: Rousseau deplora “la condizione umana”, Hegel “si limita a descriverla”, come secoli dopo tentò di fare Malraux, mentre Saroyan parlò di Commedia. Secondo Hegel-Kojève, “Ogni desiderio è desiderio di un valore.” – come se si stesse tutti quanti a giocare a Monopoly.
Diventa un vero e proprio Purgatorio questo ambiente sociale in cui esistono solo due attori, ancorché confusi tra la folla: il futuro vincitore e il futuro vinto, due bestie che soffrono (ognuno a modo suo), in attesa di un verdetto dopo di cui inizia un nuovo conflitto: chi riconosce chi. Ho forse troppo sintetizzato, Tzvetan?
“Il ‘signore è riconosciuto da qualcuno che egli non riconosce…’” – il che non aiuta la convivenza tra “un vincitore” e “uno sconfitto”, che rimarranno antagonisti per sempre. Segue poi un discorso fragile, in cui si distingue fra cuccioli umani e bestiali, in parte vero e in parte manchevole. Ti consiglio, Tzvetan la lettura del saggio Dalle lucertole all’uomo di Michael Tomasello e L’animale culturale di Danilo Mainardi. Un’ipotetica scarsa conoscenza dell’etologia è il punto debole che mi pare di cogliere nel tuo saggio. Anche se non l’ho ancora letto tutto.
È accertato che l’uomo sia il più culturale degli altri animali. Vi sono però gradazioni di conoscenza che gli autori che tu citi nemmeno si immaginano. Prova a vedere, se Colà ti è consentito, sui vari social i filmati di cani, gatti e simili e sarà per te chiaro quanto bisogno di riconoscimenti c’è nei mammiferi, ma mi dice la già citata editori di Oubliette Magazine: anche nei pappagallini e forse anche nelle tartarughe di terra, i chelonidi che più hanno praticato l’homo sapiens tremens, e che ignorano, per loro s-ventura, Descartes.
“Il neonato desidera lo sguardo della madre?” – e la madre quello del figlio? Capitava anche ai cani di un mio amico. Ti cito però un esempio drammatico. Una gatta della mia infanzia aveva partorito, e qualche assassino prese tutti i suoi neonati per recarli chissà dove. Lei li cercò dappertutto, disperatamente per un paio di giorni. Dopo di cui smise di farlo e non so se anche di pensarci.
Se un umano è cieco “subentrano altri sensi” – così capitò al gattino orbo Lucilio, che di notte, quando pareva a lui, saliva sul mio lettino e mi sedeva col sederino appiccicato al mio naso, finendo inevitabilmente per svegliarmi.
“Molto più tardi può crearsi una rivalità tra genitore e figlio” – forse deve. Nel Cilento dicono quannu su muortu tinni fai nu tianu, cioè un tegame: mi mangerai. I giovani hanno sempre cannibalizzato i vecchi, scavando là dove quelli hanno costruito, giungendo a distruggere fin le fondamenta. Partendo sempre da esse però. Tutto nasce dalla pretesa del bambino di essere riconosciuto come individuo.
Dici che, secondo Freud, un bimbo è un sadico e un cannibale nato, ma non credo lo sia stato né il Divino Marchese, né l’antropofago australoide: lo diventarono per motivi sociali, ognuno per il motivo che si meritò. Aggiungi che Adler spiegò come la collaborazione e la rivalità siano caratteristiche umane, dimostrando di non essere nemmeno lui un etologo. Il suo valore è nella distinzione che sa fare “tra reale e ideale”, cioè fra intenzione e adattamento, “da un lato la sete di potenza, l’aspirazione alla superiorità, dall’altro il sentimento di comunione umana.” – diversamente egli avrebbe solo pensato e non esercitato una professione, né scritto una riga.
Bataille risulta piazzato tutto su un lato, insieme al suo Sade, quando dice: “L’uomo vero sa di essere solo e accetta di esserlo.” – si può essere (magari soltanto ad hoc) veri sciocchi, nonché falsi filosofi: ognuno contiene in sé il seme della propria scemenza, che può anche produrre capolavori, oppure opere orrende. Secondo Bataille “l’uomo è di per sé doppio”: due nature, “una sensata, il cui senso è dato dai fini utili, di conseguenza subordinati”, mentre l’altra sfugge “alla coscienza”.
Ora ti poni delle domande etiche, le solite, che dà noia il ripeterle, e tu ammetti: “non sono in grado di dare una risposta definitiva”, ma prometti di fare “alcune riflessioni che tali domande hanno suscitato in me”.
La domanda base è: È nato prima l’individuo o la specie? Se si aggiunge un sua, la risposta non può che decadere: ogni individuo nuovo di gene, all’origine è una specie. Tu poni altre questioni.
La prima fa sorridere (sorriso amaro però): “gli autori di queste narrazioni sono uomini e non donne”, lascio al mio eventuale lettore il compito di commentare, limitandomi a dire che pare che gli uomini (Hegel in testa) poco capissero della procreazione. Questo libro sta diventando a poco a poco un Todorov-Pioli.
C’è poi “l’attrattiva della semplicità” – ma cui occorrerebbe chiedere ai biologi che speravano che “l’ameba, organismo strutturalmente semplice, fosse anche all’origine della vita sulla terra.” Si tratta di “cecità”, la più assurda delle quali è “la compenetrazione di concetti filosofici e concetti morali: la confusione tra isolamento ed egoismo da un lato, e tra relazione e generosità dall’altro”
Tu hai un grande sospetto che si tratti ogni volta di “una pia menzogna”. Dalle mie parti c’è un detto che è un misto di italiano e di arşân, quando un prete predica, all’assemblea dei credenti: orate per me e per chiêter se gh n’ē!
“Il nostro attaccamento all’uguaglianza come ideale politico fa sì che noi proiettiamo modello anche sulla realtà sociale.” – per poi proiettare il tutto sul “modello economico come mezzo per rappresentare l’interazione umana: convertire tutto in merce ci permette di eliminare (di ignorare) le differenze gerarchiche tra le persone.” Gli egoisti uomini “sono pronti a confessare qualunque cosa piuttosto che la loro dipendenza, il loro bisogno degli altri; raggiungono lo scopo che si sono prefissi considerando la relazione con gli altri puramente facoltativa.”: e che dire del rimbaudiano Je est un autre? Eppure Arthur confidava nella Commune de Paris!
“In questo modo il contenuto di una teoria garantisce il valore di colui che la formula.” – chiamalo se vuoi solipsismo. Il secondo capitolo è Essere, vivere, esistere.
Pulsioni: “erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più grandi”; “di morte, che si oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico” – e la prima si muove, l’altra giace. Due tendenze, che si possono definire cosmiche: “Questa stessa tendenza non agisce in ogni essere e addirittura in ogni materia?” – e mi viene da pensare alla frase: ti amo da morire! A Rèş as dîs, di un ingrediente di una pietanza, l ē la só môrt, è la sua morte, quello che rende unico quel cibo: Bacco e Thanatos.
“Victor Hugo diceva: ‘Gli animali vivono, l’uomo esiste’” – mi domando se il grande francese abbia mai posseduto un quadrupede domestico, o uno Psittacus. Ci sono varie intensità di esistenza, dal pappagallino a cui tanto ero affezionato da adolescente, alla mia gatta meticcia, a Kierkegaard, a Sartre, ad Heidegger. Mi chiedo anche se questa distinzione fra i verbi sia giustificata, oppure soltanto funzionale a capire quel che ci circonda.
“Partiti dalla distinzione freudiana tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, siamo così giunti a una tripartizione: tra essere, vivere ed esistere.” Come ti definiresti, oggi, sei anni dopo quel tuo mesto evento, Tzvetan? E Omero, cosa ne pensa oggi di quel che fu, di come visse, esistette e scrisse?
“Questi tre livelli, cosmico, animale e sociale, non sono riducibili l’uno all’altro, anche se si potranno sempre notare alcuni casi limite.” – come se fossero i tratti che differenziano tre classi di oggetti, tre tribù distinte. Chissà che ne penserebbe Edward O. Wilson, che si definiva sociobiologo, autore di Le origini profonde delle società umane, che aveva un rapporto così veracemente affettivo con formiche, tèrmiti e api?
“Il primo spartiacque si situa dunque tra essere e vivere, tra stabilità e cambiamento, tra identità con l’io e trasformazione.” Un’altra affermazione di poche righe è ancora più micidiale: “‘Questi tre livelli, cosmico, animale e sociale, non sono riducibili l’uno all’altro, anche se si potranno sempre notare dei casi limite.” – che inducono a pensare che tali confini si possono percorrere in entrambi i versi, nella medesima direzione.
“Il secondo spartiacque fondamentale separa vivere ed esistere. L’esistenza di questo spartiacque è negata da numerose scuole di pensiero che si potrebbero definire biologiste.” – gli ismi, com’è logico, appartengono sempre agli altri, i nemici.
“Noi tutti nasciamo due volte, una volta nella natura e una nella società.” – e una nei sogni degli altri, mi verrebbe da dire. Mio figlio Michelangelo acquisì il suo nome tre anni prima della sua nascita, essendo sorto in un discorso casuale fra me e colei che sarebbe stata un anno dopo la mia compagna, che avevo da poco conosciuta. Io avrei preferito un altro nome: Leonardo. È ovvio che vinse la futura e quel dì ancora quasi sconosciuta con-sorte.
“La relazione con l’altro non è un mezzo…” – bensì “uno scopo che noi perseguiamo per poterci rendere conto della nostra esistenza…”. L’altro cessa in tal modo di essere un fine per lui, ma assurge al ruolo di utile domestico psciologico: come la serva che serve, diceva Totò.
“Spesso rinunciamo ai piaceri sensuali, il cibo e il godimento sessuale, per ricercare dei piaceri ‘simbolici’, quale l’approvazione altrui o il consenso di una parte della nostra coscienza.” – e il mio pensiero corre a Van Gogh, a Modigliani. Come definirli? Martiri psico-nevrotici? Senza fare nomi di viventi, ma solo di un personaggio della letteratura, tu parli di “vanità”.
“Gli animali domestici ricercano intenzionalmente il riconoscimento umano…” – ma “nella maggior parte dei casi negli animali la vita ha la meglio sull’esistenza.” – la frase è tanto forte quanto priva di consistenza, nel senso di non comprovata etologicamente.
“… i poveri, notava già Adam Smith, sono coloro che nessuno nota, coloro che non riescono a esistere agli occhi dei loro concittadini”: invisibili, uomini da niente, nullità.
“Anche la vecchiaia è una diminuzione, non soltanto delle forze vitali, ma anche dell’esistenza” – se diventassi cieco e sordo, rinuncerei a libri, e-book e audiolibri, e mi rimarrebbe, fino all’eventuale demenza senile, la chance della scrittura braille. Per scrivere, necessiterei di un dittafono.
“Esiste una ‘solitudine del morente’” – su cui preferirei sorvolare.
“Una pluralità di solitudini non crea una società.” – incisiva come frase. Al che vado a coricarmi, essendo l’ora esatta di farlo.
Anche il pupo umano che cerca latte di chiunque, mamma o di balie nutrici (oggi esiste ancora e si chiama milk sharing), è una “evidente dipendenza biologica” che “è servita a per troppo tempo a mascherare un’altra dipendenza che è invece sociale: il bisogno di esistere e non soltanto di vivere.” – che nel bambino poco si discosta l’una dall’altra.
“Il bambino è predisposto alla società sin dalla nascita, ma questo dispositivo di interazione diviene sempre più complesso e sfumato, almeno fino all’ingresso nell’età adulta.” – in un complicarsi la vita per fini esistenziali. Il genitore serve sia quando è presente che quando è assente, lasciando libero l’infante di svilupparsi, anche nell’“acquisizione del linguaggio”.
La metamorfosi: “il bambino non si accontenta più di guardare il genitore, cerca di attirare e di cogliere il suo sguardo”. Intrigante la differenza fra primati e uomo: “la scimmietta dà sempre segni di contentezza quando la madre riappare dopo un’assenza, il cucciolo d’uomo sceglie spesso di ‘fare il broncio’, cioè di punire il genitore del fatto di essere stato assente” – si può dire che l’umano è, fin dai suoi esordi esistenziali, come si dice in Campania, curto e male ‘ncavato, piccolo e mal disegnato.
“L’interazione permessa dal linguaggio – la conversazione – è a tal punto superiore a tutto ciò che l’ha preceduta, tanto in sottigliezza quanto in efficacia, che diviene l’attività umana per eccellenza, influenzando a sua volta tutte le altre forme di comunicazione.” – essendo talvolta la più distruttiva.
Primo stadio: “contatto”: secondo stadio: “sguardo”; terzo stadio: “manipolazione”; quarto stadio: “memoria”; quinto stadio: “linguaggio”: e ora tutte le armi sono disponibili al conflitto. E il discolo-discente potrà finalmente dire: “Non sono più un bambino, smetti di fare la mamma!” Provare per credere: “l’amore ‘riuscito’ del genitore ha l’effetto – doloroso – di allontanare da sé il figlio.”
Poi spieghi come “dopo qualche tempo la madre scimmia non distingue neppure i suoi piccoli dagli altri.” – e questo, se non erro, capita ai pigmei della foresta equatoriale, dove gli anziani sono gli zii di chiunque.
“Il figlio può avere soltanto un padre e una madre; gli adulti possono avere questo figlio e un altro.” – avendo la sua ragione il detto chi figli, chi figliastri. Poi, “il dramma della vecchiaia non è non avere più bisogno degli altri, ma che gli altri non abbiano più bisogno di voi.” – e questo talvolta non è vero, poiché in questa società plutocratica, dove ogni soldo è necessario per pagare i debiti, quando i genitori lavorano entrambi, i nonni, come la suddetta serva, servono eccome, spesso fino all’ultimo, come accadde a mio padre, deceduto a quasi 87 anni, dopo di cui sorsero vari problemi di gestione d’infanti. Altre volte si pensa: come vorrei vedere quel tale amico, ma poi pensi che finché sopravvive quel genitore, a cui egli deve badare…
“Ogni resistenza è un riconoscimento.” – che è il più bel complimento che si possa fare a un altro individuo, quello che a te serve in quell’istante per sentirti esistere.
Ci sono molti modi per catturare l’attenzione altrui: “il fisico o l’intelligenza, la voce o il silenzio.” – la scrittura, anche una banale (sempre nel senso indicato da Patriarca) recensione.
“Scelgo dunque i miei vestiti in funzione degli altri…” – capita anche con gli aggettivi. È spesso l’avverbio che fa lo scrittore, così garantiva Umberto Eco, come l’abito fa il monaco. E ora citi un detto di non so quale etnia umana: “l’uomo si compone di tre parti: anima, corpo e vestiti…”, e di anacoluti, mi verrebbe da dire: io speriamo che esisto!
Se un uomo cessa di lavorare, se cessa di scrivere, o di dipingere (celebre è l’immagine di Matisse che disegna, stando coricato, con una matita lunga quanto lui), “ha semplicemente l’impressione di non esistere più in nessun modo” – può accadere, ma non sempre. Accadde a mio padre dopo 47 anni di militanza nel medesimo stabilimento industriale
Sul tavolino in cui ho posto i volumi urgenti da leggere c’è Il conformista di Moravia. Quel tipo d’uomo “è apparentemente più modesto del vanitoso, ma il bisogno del riconoscimento è lo stesso in entrambi.”
Siamo talvolta auto-sprezzanti, e secondo Adam Smith: “Preferiamo dir male, piuttosto che non parlar affatto di noi stessi” – e lo stesso pensava Oscar Wilde: “dite quello che volete di me, ma parlatene”: ho cambiato di poco il suo detto celebre, e questo perché, se non per spargere un po’ di me sulle spalle di quell’inclito autore?
Due accidenti che possono recare del male: “il rifiuto, o la mancanza di conferma, e la negazione, la mancanza di riconoscimento.” – avverso la prima si può inoltrare ricorso, alla seconda occorre iniziare un attacco a sorpresa contro il nemico che ha osato trascurarti: anche qui adopero metafore mie, perché voglio intrufolarmi fra le tue righe, caro Tzvetan.
“… essere solo significa non essere più” – ancora ognuno sta solo sul cuor della terra; ma di fianco c’è un plantigrado che lo è ancora di più.
Pare che i “buddhisti”, i cultori del “Vangelo”, chi è illuminato da qualche luce superiore, ci vada criticando, per la nostra “eccessiva preoccupazione per il benessere del proprio io”: ma che si facciano il loro miserabile sé!, verrebbe da dire. Loro attribuiscono la ego-tudine al loro Capo, a un Dio o a un Principio che manco possiede il codice fiscale! E mi viene da dire che tót i cajòun a gh an la só pasiòun! Quel che importa è il rispetto, che dev’essere però reciproco, sennò m’inalbero! – (eufemismo) – e sparo ignobili miscredenze.
Secondo Jouber, “il talento di Chateaubriand è immenso.” – ma è troppo succube del proprio successo, nonché timoroso di eventuali fiaschi. Al che ricordo le parole del mio (nel senso che m’identifico, assurdamente, in lui) Carmelo Bene, secondo cui l’uomo di talento fa quel che vuole, l’uomo di genio quel che può: e che perciò deve. È un essere limitato, ma infinitamente sé stesso. Lui non odia i negri, come disse una volta, lui odia l’uomo: e tale lui si reputa a fatica. Lui è soprattutto, ma non solo, ed è il suo dramma!, altro, come Arthur Rimbaud: un autre.
Parliamo degli idolatri di un complesso musicale che fa scalpore, oppure di un divo del cinema. Avverte La Rochefoucauld che “Lodare di vero cuore le belle azioni è in certo qual modo parteciparvi” – è suonare la chitarra insieme al celebrato Slow Hand, e se non sai chi è, devi consultare zio Google. Quel fatto aiuta a “sentirsi parte di un gruppo.”
Per quanto attiene la “richiesta di riconoscimento”, “l’orgoglioso” non me la chiede affatto, poiché “non ammette la propria debolezza”. Invece “il vanitoso”, più cordiale, “mi dimostra continuamente che ha bisogno di me”. L’orgoglioso pretende la mia presenza, in carenza della quale mi odia (anche qui sintetizzo, mutando, nei particolari, il tuo discorso). Poi c’è chi ambisce al vittimismo: “Lo statuto di vittima può essere esteso anche a gruppi all’interno di una società, o a popoli…” – la cui infamia odierna pare giustificata da quella che patì nel passato, anche remoto.
“La vittimizzazione di sé implica necessariamente la colpevolizzazione dell’altro: se il testimone è l’unico altro che si presenta, sarà lui a doversi assumere questo peso.” – anche se pure lui è parte lesa. All’eventuale, ma non accertato colpevole, conviene sempre la contumacia.
“Questo ‘fare la vittima’, se spinto all’estremo, porta alla distruzione di sé e dell’altro.” – quasi un atto sacrificale, un donare l’agnello al proprio (D)io.
La soluzione che prospetti è lo “scambio di ruoli (tour de rôle)”: lasciar sfogare l’altro, fingendo la massima attenzione e intanto ripassare la propria lezioncina, che di fatto può diventare un non ascoltare o un farlo così, per far ‘a parata, come si dice ad Amalfi. E il giochino spesso funziona.
“Alla base di ogni dialogo c’è un contratto di reciprocità” – soprattutto quello che si è stabilito illo tempore fra due con-sorti. Attenzione, però: “Lo scambio di ruoli dev’essere reinventato e ricominciato in ogni momento.”
Ora ci rechiamo a visitare il capitolo che illustra la Struttura della persona, ove colgo che “l’essere umano non è soltanto incostante, cangiante (nella diacronia), è anche multiplo (nella sincronia).” Anche Borges lo è: “Perché se la nostra anima fosse conoscibile, occorrerebbe una seconda anima per conoscre la prima e una terza per conoscere la seconda.” Poi tocca a Samuel Beckett che, “nel suo breve racconto intitolato Compagnia”, parla “di una voce che arriva a qualcuno nel buio”, ed “ecco che io sono due”. Ma “vi è anche un’altra persona, quella in cui si uniscono la voce e l’ascoltatore.” – e il fenomeno assomiglia a una sorta di mitosi. Poi quattro, cinque, ad libitum, sperando che non diventi un ad nauseam.
Leggendo, nel saggio di critica letteraria II caviale e i fichi di Donatello Santarone, a proposito del valore di Franco Fortini, esimio traduttore, capisco perché, non dico più facile, né sempre possibile, ma è più immediato scrivere che tradurre.
La tua traduttrice Chiara Bongiovanni scrive: “Utilizzerò il termine io (soi)…” – e, nella nota 8, spiega: “Traduco soi con ‘io’ piuttosto che con ‘sé’ perché tale termine corrisponde qui per Todorov al self di William Jones, reso con ‘io’ dai traduttori italiani del filosofo.” – ed essere traduttor di traduttori, come Ugo (Foscolo) chiamò Vincenzo (Monti) non è mai picciol cosa.
Io amo davvero la tua scrittura, perché amasti così tanti autori, e li conoscesti nell’intimo delle loro più preziose opere, per esempio Proust, come descrivi a proposito di un episodio che non riporto perché la mia traduzione impoverirebbe sia Marcel, che te, che Chiara. Ma qualcosa debbo pur dire. In chi compie il male, per esempio la proustiana “signorina Vinteuil”, “vi è una distanza che separa il suo essere dal suo atto, che può dunque essere assimilato a un’opera.”
“Gli altri” ci assistono, quando non ci massacrano, dalla più tenerà età, essendo i testimoni firmanti del nostro mistico rogito, da cui non possiamo mai prescindere: “In questo senso il poeta ha proprio ragione, io è un altro.” – Arthur, ben più del nativo di Dovia di Predappio, ha (quasi) sempre ragione. Ognuno poi ha il censore che si merita: “Freud gli dà il nome di ‘Super-io’”: per alcuni è una persona in carne e ossa, un genitore, un con-sorte, un vicino di casa. Ma il vero censore vigila, ammucciato, e covando, dentro di noi.
Tre personaggi in cerca di autore: “l’io, il padrone del riconoscimento e l’oggetto del desiderio” – solo tre ma non è detto che Colà dove ti trovi tu non ne abbia trovato un Quarto. Ognuno di quei tre, può “essere diviso in due, quello buono e quello cattivo, quello positivo e quello negativo”.
Interessante è la considerazione, maturata meditando su quell’episodio della Recherche, che ora provo a sintetizzare: il passato può essere perfetto quando è de-ceduto; oppure im-perfetto quando ancora sta figliando, tornendo la sempre abbozzata e in fieri “immagine che gli altri si fanno di noi”.
“L’io ideale” è “l’immagine che ci facciamo dei nostri eroi.” – a cui vorremo assomigliare, ma il condizionale non diventa mai un indicativo, che è segno di perfezione.
“L’io positivo può dunque giocarci brutti scherzi, come l’io negativo”: così pure l’attrazione gravitazionale, che ogni tanto assume la forma lugubre di un buco nero; come l’entropia, con la sua cieva volontà di disordine.
Romain Gary spiega che “quando si è ricevuto molto nel corso dell’infanzia, tutto il resto della vità può sembrare una delusione.” – un’esistenza tutta in salita. E non si sa cosa augurare al figlio che ancora si agita in noi e che vediamo come riflesso nello sguardo dei nostri figli. Le norme sociali che, secondo Smith, assorbiamo durante l’infanzia “non mi riguardano in quanto individuo, ma come membro del gruppo” – ma ci peseranno addosso per tutta la vita. Romain si uccise nel 1980, quando era di poco più anziano di me: “L’impossibilità di amare e di desiderare perché l’oggetto del desiderio è in realtà cattivo, la coincidenza tra oggetto di amare e oggetto da distruggere è assurda e viene percepita come un’impossibilità di esistere…”: “quando gli antagonisti (o personaggi negativi) hanno la meglio sui protagonisti (o personaggi positivi), non si è lontani dalla malattia mentale.”
Jung chiama “persona” cioè “maschera”, lo “io di facciata”: ogni personaggio occupato a recitare la sua commedia dell’arte. E ognuno ha il canovaccio che si merita.
“Una società repressiva favorisce, evidentemente, il diffondersi dell’ipocrisia.”
Nulla scappa all’occhio condiviso, poiché “Tutta l’esistenza umana è sociale…” Sto ora pensando a quel sant’uomo che da oltre quindici anni vive in una grotta, senza orologio, né cellulare (non so se anche senza computer, but I think so) il cui volto sorridente che m’apparve giusto ieri nelle notizie di zio Google: era in posa davanti al fotografo.
L’ultimo tratto di strada da percorrere insieme è: Coesistenza e realizzazione, dove leggo che “la realizzazione è ancora più estranea al mondo animale di quando non lo fosse il riconoscimento.” – e su questa affermazione io stenderei un velo canino. Konrad Lorenz, in L’anello di re Salomone, descrisse il profondo senso di colpa che ebbe il suo cane quando, partitogli un embolo assassino, sgozzò un’oca che l’aveva proditoriamente aggredito. Dove c’è senso di colpa non può certo far difetto il senso di realizzazione.
“… l’artista è solo al momento della creazione, anches e prima e dopo comunica con i suoi contemporanei” – informazione, espressione e comunicazione sono tre momenti del medesimo atto.
“L’autore che leggo riesce a esprimere con le parole quello che sentivo ma non sapevo dire” – le più grandi soddisfazioni al cosiddetto recensore è quando l’autore gli confessa che, leggendo la sua reazione, ha capito qualcosa che ancora gli sfuggiva della propria opera. – a me lo disse una volta la scrittrice Emma Fenu.
Il lettore sceglie i propri genitori letterari e, se gli va bene, i figli: e la scelta è sempre necessaria.
“In solitudine non si smette di comunicare con i propri simili, si scelgono soltanto determinate forme di comunicazione rispetto ad altre; gli incontri distanzati nel tempo o indiretti possono compensare per intensità quello che perdono in frequenza o in facilità.” – e il nostro strambo e fortuito connubio ne è una prova provata.
“La dipendenza non è alienante…” – lo è se è vissuta con volontarietà ed eroismo, sempre tenendo presente quello che diceva Marx e ribadì Marcuse: la sudditanza, che è la forma di dipendenza più diffusa, è una tragica alienazione. Andando in quiescenza, si prova talvolta rimpianto per alcuni colleghi, che però si possono frequentare da amici, non più da correi. Così capitò a me: mi discono che m’invidiano tanto, eppure mi vogliono bene, come io ne voglio a loro.
“… l’esistenza in sé non si misura in termini di bene e male ma di felicità e infelicità.” – due stati quantici assai fugaci (specie la prima che ho scritto).
“Dal punto di vista politico l’egoismo è dannoso, l’altruismo e il sacrificio di sé è invece auspicabile”: vogliamo parlare ora di quello di Padre Kolbe e di Salvo D’acquisto? Chissà quale fu la spinta a cui non desiderarono opporsi! Ogni fraintendimento è concesso!
Vorrei tanto dicorrere con te di vari argomenti, mio caro Tzvetan, che deriva dal bulgaro cvetan, fiorito! Ma ce ne sar occasione, quando ci vedremo in quel bistrot, insieme ad Arthur, Carmelo, Karl, Herbert e speriamo che venga lui, Alessandro, coi Renzo e Lucia! Stamattina, passando presso il tuo giardino, ho visto dei nuovi germogli, şèt in arşân, getti, ma anche bótt, botti, di nuove colorate e misteriche bellezze. Chissà come son chiamati, ora, nella tua salvifica lingua!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Tzvetan Todorov, La vita comune, Raffaello Cortina Editore, 2023