“La lucina” di Antonio Moresco: piccola storia di un colpo di fulmine
In un luogo segreto, ma non distante, stavo pensando che la paura (della vita, della morte, del nulla, del tutto, di qualcosa) è segno d’intelligenza, ma lo è di più cercare di superarla, il che non è un’impresa da poco.
Un libro che ho in programma è Un indovino mi disse di Tiziano Terzani, un uomo che si rapportava con quel mistero da vivo, non da morituro. Ne parlerò meglio dopo averlo letto. Di domande ne inventiamo quotidianamente. Necessitiamo ogni tanto di risposte.
“Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto in cui sono l’unico abitante.” – che mi si creda o no, nessuno di noi è un dio in cui professare alcuna fede, e il carattere più mistico della precedente frase, pronunciata da quell’io narrante de La lucina di Antonio Moresco, è la timida virgola: ,.
L’atmosfera e il carattere del protagonista mi ricordano quelle di un romanzo che, letto decenni fa, mi perseguita come neanche L’idiota di quel russo, né Lo straniero di quel Pied Noir, ma non ho mai avuto la voglia di far simili classifiche. M’intriga e mi spaventa ancora, quel romanzo di colui che, dopo averlo scritto, tirò giù la saracinesca e mai più l’aprì, dissipandosi. Dissipatio H.G. di Morselli finì con la richiesta telefonica di un fumoso amico, se ben ricordo.
Dice ora l’io narrante: “Guardo il mondo che sta per essere inghiottito dal buio.” – ed è un’illusione, perché la luce c’è anche se non ci si vede. I fotoni continuano a girare come pazzi di livello in livello, come dei birichini. Ma danno concretezza al mondo.
“… il corpo nero di un bombo…” – e in un primo istante avevo letto bimbo – “… mentre viene inghiottito da una rondine” – diventando parte di quel passeriforme, che vola all’unico scopo di fare benzina. Che sarebbe una soluzione al fabbisogno di carburante, se si avesse un’auto che, andando, si nutre da sé.
“… il silenzio è tale che riesco persino a sentire il clangore del suo corpo che continua a soffrire stritolato e smembrato…” – e poi ricomposto, salvo una parte che viene emessa dallo scarico – “… dentro il corpo dell’altro animale mentre risale inebriato nel cielo”: ogni omicidio è un atto, ogni atto è un omicidio. Chi vivrà ucciderà.
“… ogni notte, sempre alla stessa ora, si accende improvvisamente una lucina.” – una chimera.
“… questo piccolo borgo dove non è rimasto nessuno…” – e chi non c’è più, ha perso tutto, tranne il suo nome. Nei tumuli è indicata, per vera convenzione, il nominativo del morto, alcune date e poco altro.
“… nessuno oltre a me, in tutto l’universo, sa che esiste” – ed è la prima balla cosmica che viene narrata a chi deve affrontare un viaggio costoso: nessuno vedrà, come capiterà a voi, tanta bellezza, sarete i primi, nonché gli ultimi! Il Bardo Tödröl insegna a diffidare le pur care ombre che simulano d’essere vive.
Io vorrei essere il perenne ennesimo, con la fila dietro che sta cucciando affannosa, nel senso arşân di cucêr, spingere, mentre in Francia dicono pousser, pósa via! Mi viene da immaginare che cucciare in bocca col cucchiaio, diventa cucêr in bòca cól cucêr, della serie che finché c’è etimo c’è speranza, e che poi sia un vaneggiamento, a noi, che ne cale? Conta essere contenti!
“Ma il tasso non si muoveva. Continuavo a vedere quei due cerchi bianchi nel buio.” – e noi siamo abituati a immaginare che le luci provengano da due lampadine tonde, e questo non ha senso.
“Scendo ancora di più. Guardo da lontano questa piccola galassia di luci nel buio.” – un po’ fuorvianti, come quello che talora si dice che (non) accada dopo quel spaventevole viaggio.
Non si avrebbe una piena consapevolezza del buio, se non ci fossero quei “lumini accesi di fronte ai forni”, poiché “palpitano intensamente in questa notte senza luna”, in sintonia coi nostri cuori.
“… si sente gorgogliare dell’acqua…” – che è, si sa, il frutto della mistica unione fra due singoli elementi del cosmo; “… scorgo la sagoma tozza e scura di un…” – di un fratello che gracida.
Il capitolo è composto da un continuo alternarsi di parole chiare e scure, atti compiuti, suoni inquietanti: “buio”, “scricchiolii”, “rumorini secchi”, “luce”, “torcia”, “non si vede niente”, “spengo”, “torno di nuovo a letto”, “mi alzo”, “montagne nere”, “lucina accesa”: ogni cosa incombe, tranne che il silenzio, anche se “dopo un po’ mi addormento”. Riposa pure in pace.
Ora, caro innominato, chiedi a un albero “Ma come si fa a vivere così?” – e, secondo te, quello ti risponde? Siete entrambi, mi pare, ancora vivi, ma parlate linguaggi diversi: come potete capirvi?
“Forse nascono in mezzo, nell’aria, per poi esplodere come piccole strutture vegetali che chiedono vita e che chiedono morte.” – e quale sia il loro nome poco importa, come per te.
Nome ha lo stesso etimo di conoscere, e secondo te si può stabilire l’origine di quel che si sa?
Un cane ti segue, e mentre tu ne sei terrorizzato, vedi che differenza c’è fra lettore e personaggio!, mi chiedo se cane e canuto abbiano lo stesso etimo. Non mi voglio accanire nella ricerca, proprio mentre quello potrebbe sbranarti. Siamo a pagina 22 e manca ancora parecchio alla fine, per cui sono sereno. Tu no, non stai leggendo, ma respirando, con il patema d’animo di chi non sa se arriverà alla pagina seguente, e a sera. O, quando si fa sera, se terrà fino al mattino.
Il cane è ferito, e questo non lo assolve. Sempre un potenziale assassino è. Anzi, potrebbe essere ancora più predisposto alla tua esecuzione. Per vendetta…
Entri da qualche parte, sei al sicuro. Quando sei uscito di nuovo in strada, “il cane non c’era più”. Il fatto che ora tu stia dialogando con le rondini non depone bene. Né per te né per loro.
“… non c’è niente da vedere, solo questa distesa impenetrabile di schiuma vegetale che ricopre il mondo a perdita d’occhio.”
“Che cosa sarà quella lucina?” – fai forse prima a dire cosa non sarà.
“… ho visto una donna araba con la testa e il volto velati, che ammucchiava il fieno con un forcone.” – potrebbe essere la dama velata che ispirò quel tale, come si chiamava, ah, Raffaele Monti, meno male che esiste zio Google!
“… donne e uomini venuti da lontani posti del mondo, in questi paesi e in questi borghi ormai spopolati dove case e ruderi costano poco.” – e basterebbe loro una lucina, magari perpetua.
Cerchi l’uomo che forse ti spiegherà il tutto, almeno in riferimento a quel bagliore. Può saperlo, non essendo nativo di quel luogo sperduto. Infatti te ne racconta di cose, che siano attendibili, chissà.
Noti un “disperato pullulare di vita e morte attraverso il tempo, lo spazio, questo disperato fantasticare…” – e non ti è d’aiuto chi ti può dire che si tratta di immagini mentali, e nulla più.
In quella “casa”, “c’era dentro un bambino in calzoncini corti…” – come ne portavamo noi negli anni ‘60, anche d’inverno, e mai ho capito perché ho dovuto a aspettare la prima media per avere un paio di braghe lunghe.
“Non li mettono più i calzoncini corti, da un bel po’ di tempo, i bambini!” – solo d’estate, in vacanza, non nei mesi di scuola.
Quel creaturiello lo ammette: “Ho paura del buio.” – anch’io, ma solo se non c’è più nemmeno quella famosa lucina.
Fai un’urgente domanda alle lucciole, portatrici di verità che capiscono solo loro, ma il senso della domanda “loro non lo sanno. E, se lo sanno, non mi rispondono.”
Il bimbo non ha tempo. Deve fare i compiti. Deve andare a scuola.
La scuola è serale. Ma non esistono, in quel paese, le scuole serali.
Il quesito è da porre al bambino. La sua risposta è normale, essendo la scuola diurna “per gli altri bambini”, cioè?, “i bambini vivi.”
E ti fai una domanda che solo uno stupido geniale si può porre: “Che mondo è questo?”
Tutti i bimbi, ti dici, fanno pena, pensando a quel che li aspetta, non solo quelli morti, anzi… Ormai il peggio è passato, per loro…
Il ragazzo ignora come si chiama: nomen non omen. Lo chiamano Stucco, perché quel materiale lui lo divora, fino a che è stucco, cioè sazio, non ci gioca e basta, come fanno i suoi compagni. No! Lui non è, come tutti gli altri. Lui non è il loro compagno. Lui è uno che dice: “Mi sono ucciso”, e anche: “Mi hanno fatto del male”.
Non è esistito mai un vivente, che non sia stato destinato alla morte, dopo aver patito del male prima di quel fatale momento. Vivere è suicidarsi.
Il bidello d’entrambe le scuole, diurna e notturna, si lamenta: “Finiva continuamente, dovevo sempre correre con quella caraffa di latta piena di inchiostro, per riempire di nuovo i calamai.” – mai ci pensai, fino a poco fa. Preferiamo dare per naturale il frutto dell’altrui servizio.
“Era così bambino che non sembrava neanche un bambino.” – ovvio che aveva dei seri problemi.
Il bimbo, dice il bidello, “certe volte veniva a prenderlo un animale.” – a quattro zampe e dall’aspetto torvo?
“Chissà se il cielo ha sopra di sé un altro cielo?” – domanda assurda per quanto legittima.
“… se c’è lo spazio, se c’è il tempo, non sono anche loro entro una curvatura più grande…” – il che sarebbe logico, ergo non so… – figli di “uno spazio più grande, un tempo più grande, che viene prima, che non è ancora venuto?”
Che ce ne siano ancora, di vivi, non c’è dubbio, ma perché tutto ciò, a questo infimo punto?
“È strano, questo posto è così piccolo eppure non lo conosco ancora tutto!” – come la mia stanza, la cittadina in cui vegeto, la Via Lattea, il Quasi Nulla verso cui si sta vagando tutti, in fila, silenti, come durante una processione, tutti insolubili misteri.
“Vibrazioni leggere che salivano dal profondo. Ma così leggere, così leggere che…” – ti donano quell’attimo indicibile: “Mi è parso persino di aver sorriso un po’…” – quel tanto che basta per dimenticare il proprio destino ammesso che esso ancora ci sia.
Ogni libro ti fa un regalo, il più è arrivare a coglierlo: il fuoco “non sta mai fermo”, e lo si può “guardare per ore e ore senza mai stancarsi” – lo scrittore è un banditore di banalità a cui mai si pensa.
Ora fai una sciocca domanda al bambino: “Per chi è quella casina che stai mettendo a posto?” – e la sua risposta ti raggela, infiammandoti.
“Non si può uscire perché non si distingue più dove finiscono i sentieri e dove finiscono i precipizi” – l’ennesimo chaos, che di certo non ti rassicura.
“Non si capisce se è il mondo vegetale a penetrare dentro la casa o se è al contrario la casa a proiettarsi verso l’esterno.” – sono forse un tutt’uno.
“È tutto buio. È tutto nero.” – si vede soltanto la luce?
“… le mie gambe sono piccole e i gradini alti. Molto alti.” – da che mondo è mondo, tutto è relativo.
Tu dici: “Mi sono ucciso.” – perché, chi non ha eseguito la propria condanna a morte, almeno una volta nella vita?
Qualcuno a cui chiedi: “Dove andiamo?”, ti dà la risposta definitiva, ma non fare più domande, mi raccomando.
Leggo la conclusione/inizio che l’autore intitola Piccola storia di un colpo di fulmine.
“È una storia scaturita…” – da chissà dove, chissà perché, forse per un mistero che tu stesso non sai svelare, né quasi ricordare. Poi affidi al lettore una possibile risposta, che io non ho. Né desidero.
La prima edizione è di circa dieci anni fa. Il libro fu tradotto in varie lingue, avendo ovunque, ma specie in Francia e in America, molto successo. Questo si sa di quel mistero e, forse, nulla più.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonio Moresco, La lucina, Società Editrice Milanese, 2023