“Quel che resta del giorno” di Kazuo Ishiguro: la speranza accarezza ed illude

A mia figlia Anna che mi chiedeva di La montagna incantata, dissi che le scene più memorabili erano quando Hans Castorp, il protagonista del romanzo di Thomas Mann, specie di sera, si provava la febbre e che quel tipo, dopo avermi narrato la sua storia, talvolta in modo delirante e tedioso, diventò alla fine uno dei miei più cari compagni di vita, che ogni tanto ri-chiamo alla memoria.

Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro
Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro

Accadrà lo stesso, temo, con ‘sto strambo maggiordomo, James Stevens, che tutto è tranne che strambo, secondo l’etimologia della parola, che deriva dal greco strabòs (da cui strabico), storto, obliquo. L’io narrante Stevens è l’uomo più diritto che abbia mai incontrato. Un solo umano poteva competere con lui: il padre. Non è un dritto, nel senso di furbo, ma di rettilineo. Diritto da retto, da reggere: Stevens era il reggitore della casa del suo datore di lavoro, Lord Darlington.

E questa sarebbe già una mezza recensione de Quel che resta del giorno”. La mia però è una reazione e ho ben altro d’aggiungere.

Il Prologo riguarda il 1956. I fatti narrano di eventi più antichi di vari decenni. L’ondulatoria illusione del tempo oscilla avanti e indietro per tutto il romanzo, e in tal senso si può intendere la scrittura di Kazuo Ishiguro come un omaggio a Proust. Chissà se l’autore sarebbe d’accordo… Ce la farà il nostro eroe a ritrovare il suo tempo perduto, come afferma di essere infine riuscito quel Marcel? Basta leggere il romanzo e qualcosa si capirà. L’uomo ha bisogno del tempo per sperare.

Cos’è la speranza se non il fissare lo sguardo su un Altrove che ancora non esiste? E che forse mai ti avvolgerà con le sue mortali spire? Esiste l’entropia? La domanda è un po’ disordinata e a rispondere uno rischia di disperdersi.

Una volta “Darlington Hall” ospitava decine di domestici. Il nuovo padrone, Mr Farraday, è uno yankee ricchissimo che chiede al maggiordomo Stevens di limitare a quattro, se riesce, il loro numero. Gli yankee, si sa, non hanno soldi da sbattere via, poiché la loro anima consuma un’eccessiva energia. Si dice che lo humour di questi extraeuropei sia sempre terribilmente fuori posto, come quando Mr Farraday invita Stevens a portare la moglie di un ospite poco gradito “a visitare una delle stalle che sono intorno alla fattoria di Mr Morgan. Potresti farla divertire a tutto quel fieno. Può darsi che sia il tuo tipo.”

Quando qualcuno propone a Stevens delle antifrasi, quello, se può, non risponde; se deve, lo fa usando concetti chiari e minimalisti. Se l’antifrastico insiste, Stevens sempre gli risponderà. And this is the problem: Stevens non è semplicemente una persona educata, è l’educazione fatta persona.

Non essendo affatto stupido, capisce quando è uno scherzo. La sua scelta non può essere che tacere con rispetto, oppure rispondere seriamente: tertium non datur.

È la tattica che Stevens sta ora imparando, nella sua interazione con lo yankee: “… capii doveva trattarsi di una qualche forma di scherzo e mi sforzai di sorridere appropriatamente, sebbene io sospetti che un qualche residuo del mio smarrimento, per non dire sbalordimento, non continuasse a percepirsi nell’espressione del mio volto.” appropriatamente è la parola notevole del discorso di Stevens. Ergo, “nel corso dei giorni successivi”, dice Stevens, “cominciai a imparare a non farmi più sorprendere da simili osservazioni che giungevano dal mio padrone, e ogni qualvolta individuavo nella sua voce quel tono ironico, mi limitavo a sorriderne come si conveniva.” nel passo precedente il termine più importante è padrone.

A Stevens viene concesso dallo yankee di andarsene un po’ in giro, in una sorta di vacanza, con un’inclita auto di proprietà di Mr Farraday, il quale “fu tanto cortese da rinnovare ripetutamente la sua offerta di ‘pagare le spese della benzina’.” – questi Yankee (Y maiuscola, stavolta) sono sempre disponibili a ogni sorta di Piano Marshall! Si sappia, però, che nulla di quello che fanno è gratis. Pur in vacanza, a Stevens non manca un fine lavorativo: rintracciare Miss Kenton, l’ex governante con cui ebbe a che fare in passato. Molto a che fare. E chiederle se per caso sia disponibile a tornare in servizio.

Ricordo un certo G. P., dirigente parastatale, che era così ligio al dovere che si portava spesso il lavoro a casa nel weekend. Una volta, mentre rincasava in bicicletta, i due faldoni di scartoffie che teneva in una mano, in una svoltata, gli fecero perdere l’equilibrio, per cui cadde sbattendo la testa, dopo di che dovette rimanere assente dal lavoro per un paio di settimane. Si dice che un sottoposto gli portava a casa giornalmente delle pratiche da istruire. Qualcuno dice che G. P. non era un buon dirigente, bensì un valente impiegato che aveva fatto carriera. Mi domando se sarebbe stato un buon maggiordomo. Ma nessuno potrà più rispondere, temo.

Quando Stevens raggiunge la prima città, dice che “ovunque si va da, a Salisbury, la guglia che la sovrasta risulta visibile.” – e il bravo utente di uncle Google non riesce a fare a meno di controllare on line: la città è effettivamente piccola (conta 45.000 anime), ma la guglia è davvero stupenda. Più alta e bella di quella che si staglia a Sesso e poi a Bagno, che sono (o avete frainteso?) due minuscole frazioni di Reggio Emilia, che contano in tutto 8.000 smaniosi abitanti, celebri per le loro turrite chiese (i paesi, non gli abitanti). Stevens non può fare a meno di osservare che “il panorama che si gode nel nostro paese basterebbe da solo a giustificare l’uso di tale nobile aggettivo.” – “Gran Bretagna”; specificando poi cosa sia “questa ‘grandezza’”: “la calma insita in quella bellezza, la sensazione di riserbo che essa racchiude.”

A pagina 38 il nostro amico spiega che l’onore e la fortuna di un maggiordomo è come quella di un ministro della repubblica (il paragone è più mio che suo) che oggi è valente e domani, quando sarà andata a ramengo la sua vacillante fortuna, verrà criticato da tutti, “mentre quegli stessi domestici che un tempo lo ricoprivano di elogi sembrano troppo occupati a cantare le lodi di qualche nuovo personaggio per potersi soffermare a riflettere sulla loro stessa capacità di giudizio.” – vox populi, vox dei, a volte assurda e stonata. Un maggiordomo si sente relativamente maggiore degli altri servi, ma assolutamente inferiore al suo padrone. La sua eventuale sventura può derivare dalla sua incapacità, da come girano le cose nel cosmo che lo circonda, oppure dalla disgrazia del padrone. Dire datore di lavoro è limitativo, ma dà anch’esso l’idea. Egli è come quel ministro, da minister, servo, il minus, che è da meno, che ha tutti sopra di sé e da quell’imo li dirige, faticando insieme a ciascuno di loro.

“… cercando di raccontarvi ciò che credo avesse reso così eminente mio padre, che sono in grado di trasmettervi la mia idea di che cosa sia la ‘dignità’.”

Alcune mie reazioni sono in itinere, pagina dopo pagina. Altre no, nascono dopo che ho letto tutto, sottolineato un po’ a caso, si fa per dire, e intuito quel che sono riuscito a intuire, ed è così che si fa con un noir. Ogni libro, in fondo è un thriller che va svelato; alcuni, come questo, più di altri.

Secondo una metafora collettiva, il colpevole è in genere il maggiordomo, il meno sospettabile. In realtà la faccenda è un’altra: ogni volta il colpevole è l’autore, capace di chissà quali crimini. Dico bene Ilaria Tuti, non è vero Valerio Varesi, non è così Gabriele Di Giovanni? Da cui deduco che ogni scrittore è al contempo padrone e maggiordomo ed è in tale duplicità che egli progetta, compiendoli poi ogni volta, i suoi misfatti.

Nel caso in questione è questa dignità la presunta assassina. Ora vediamo meglio, però.

Maggiordomi di minor levatura sono pronti, alla minima provocazione, a mettere da parte la sua figura professionale per lasciare emergere la dimensione privata.” Non sarei mai stato un eccelso maggiordomo, né un buon recensore. Qualcuno, e come si può dargli torto, mi riprende talvolta perché, nelle mie reazioni, cito il mio frate, la mia mamma, nonché quel saggio anglo/indiano. In effetti Padre Aldo Bergamaschi, Rosalinda Borghi e Jiddu Krishnamurti sono alcuni dei personaggi principali di quel thriller che è la mia esistenza. Come potrei parlare di me senza dire di loro? Altra accusa: io parlo più di me che del testo esaminato. È abbastanza vero.

“Per simili personaggi, fare il maggiordomo è come recitare in una pantomima.” – è davvero così. La mia scrittura è un mimare le scene, a volte anche zufolando, a vote sbattendo le mani su un tamburo, o un paio di clavi su una botte sfondata (lo vidi fare, nella piazzetta di Pixuntum, durante la Celebrazione estiva di Sant’Agnello, a un orchestrante di Enzo Avitabile).

“I grandi maggiordomi sono grandi proprio per la capacità che hanno di vivere all’interno del loro ruolo professionale e di viverci fino in fondo; sono individui che non si fanno sconvolgere da eventi esterni, per quanto sorprendenti, allarmanti o irritanti questi possano essere.” Ogni esempio che il reo-scrittore (mai Reo confesso, eh, Valerio?) riporta sarebbe da raccontare, per cui scelgo di non dire nulla a proposito, così il mio eventuale lettore, se interessato, deciderà di leggere il romanzo.

Stevens è un po’ xeno-critico quando afferma: “Gli europei non sono in grado di fare i maggiordomi, perché come razza non sanno mantenere quel controllo emotivo del quale soltanto la razza inglese è capace.” – e pensare che, nonostante quel cognome, da principio credevo che il signor Poirot, così flemmatico, fosse inglese e invece era nativo del Benelux!

In una lettera inviata a Stevens, l’anormalmente british Miss Kenton scrive, tra l’altro: “Sebbene non abbia la minima idea del modo in cui riuscirò a colmare utilmente quanto rimane della mia vita…”, e poi, “analogamente, in un altro punto scrive: ‘Il resto della mia vita appare come una lunga distesa vuota davanti ai miei occhi.’” – e tanto significa, per me, l’ansia di quel vuoto, che scopo della mia esistenza è di non badarci più di tanto e di riempirla di letture e scritture.

“Per la gran parte della lettera, però, come ho già detto, il tono con cui si esprime è quello della nostalgia…” – e poi anche lei comincia a parlare di un fatto di lavoro.

Non esistono, a mio modo di vedere, due persone tanto antagonisticamente simili quanto Stevens e Miss Kenton. Per entrambi il lavoro è un dato esistenziale, per lui è il maggiore, se non l’unico; per lei, è uno dei più cogenti. Non so se che dire del mio, si fa per dire, G. P., con cui una volta questionai, e che un mio collerico collega finì quasi per prendere a botte, limitandosi ad alzarlo dal suolo, come se fosse un bimbetto, un muscoloso canoista in lite con un malandato travet. Io credo che G. P. fosse un uomo colmo di dignità, per quanto urtante. Ecco che sto ricadendo nel mio autobiografismo!

Come dissi all’inizio, come Stevens figlio c’era solo Stevens padre: personaggio unico veramente, per quanto il suo horcrux fosse trasmigrato in toto nel suo consanguineo, che lo fa assumere, sebbene sia ultrasettantenne e non più idoneo. Stevens figlio non riesce però a capirlo del tutto, e qui abbozzo un’ipotesi: lo ama terribilmente.

Il dramma si compie dopo una serie di errori compiuti dall’anziano “vice-maggiordomo”, che Miss Kenton sente il dovere (nonché il maligno piacere) di riportare a Stevens figlio, da cui lei si sente entangled da un feeling quasi soffocante, con la brutta caduta dell’anziano, da cui mai si riebbe. Miss Kenton scriverà nella citata lettera al suo maggiordomo: “Non vogliatemene se quanto sto per dirvi costituisce un ricordo doloroso, ma non dimenticherò mai la volta in cui entrambi rimanemmo fermi a guardare vostro padre che camminava su e giù davanti al padiglione estivo che era in giardino, gli occhi fissi a terra come se sperasse di ritrovare un gioiello prezioso che aveva perduto in quel punto.” – e questo accade a pagina 62, è rimembrato dall’io narrante a pagina 63 e ancora a pagina 83. Ormai l’entropia sta compiendo il suo malefico e circolare corso.

“Ma se mai qualcuno desiderasse postulare che nel corso della mia carriera venga rivolto al convegno del marzo del 1924, il momento nel quale per la prima volta dimostrai di possedere una simile qualità.” Non dirò quasi nulla di quell’orrido convegno, in cui accade l’episodio a cui Stevens si riferisce, in cui alcuni titolati suini orwelliani si prendono gioco del maggiordomo, che rimane imperturbabile, ripetendo, come un automa la frase: “Spiacente, signore, ma non sono in grado di venirmi in aiuto in questo problema.” – con quegli odorosi maiali che sghignazzano come anitre!

I rapporti fra Stevens e Miss Kenton sono antagonistici: tanto lei cerca di infiltrarsi in ogni modo nel di lui cosmo, tanto quel cosmo cerca di schivarne gli effetti. E gli affetti. Ne dico un’altra: mentre lui pare immobile, lei cerca d’incalzarlo, senza tregua. Eppure mai riesce ad avvicinarsi. Anche lo spazio è in fondo un’illusione, non solo il tempo.

È lei innamorata? Che domanda inusuale, tipica di Pioli, che non sa tenere a freno la lingua. È Stevens innamorato? Ma cosa vai a dire, ragazzo? Lui è unicamente un maggiordomo! Mi chiederò sempre come fosse strutturata la madre di Stevens figlio, e come Stevens padre l’avesse accalappiata. Una cosa so di questa mitica figura: nella narrazione di quel filiale io, lei brilla per la sua assenza.

Papà Stevens ora sta male, e il figlio dice: “… io rimasi un po’ incerto circa il modo in cui avrei dovuto procedere; poiché mentre mi appariva come cosa non desiderabile che lasciassi mio padre in simili condizioni, di fatto non avevo un solo momento da perdere.” – quella congrega di razzolanti nimê, che a Parma si chiamano gozé, avevano bisogno della sua magistrale opera. Ci penserà Miss Kenton a vegliare il morituro, mentre quelli vanno grugnendo sotto lo sguardo attento di Stevens.

“È possibile che voi non abbiate l’abitudine di prendere questa piccola precauzione per evitare di bussare in un momento altamente inopportuno, ma io l’ho sempre avuta, e posso garantire che si tratta di una consuetudine comune a numerosi professionisti come me.” – che non sarebbe altro che questo: “stavo per bussare alla porta, ma prima di far questo, come è mia consuetudine, mi fermai un secondo ad ascoltare fuori dalla porta.” – tradotto in comuni parole è origliare dignitosamente.

In uno spicciolo di tempo, ce la fa a parlare col genitore moribondo, che gli dice: “Spero di essere stato un buon padre per te.” – e la risposta del figlio è meravigliosa: “Sono davvero felice che vi sentiate meglio adesso.”; al che il papà insiste a dire: “Sono orgoglioso di te. Un bravo figlio, spero di essere stato un buon padre per te. Ma forse non lo sono stato.”; pronta replica dell’erede: “Mi dispiace che abbiamo così tanto da fare in questo momento, ma potremo parlare anche domattina.”

E io, Pioli, credo… verbo allucinante… temo di aver fatto di tutto per deludere professionalmente il mio pur amato genitore, anche se in ultimo non ci riuscii: anche lui, dopo mille patimenti che gli causai, divenne quasi orgoglioso di me. E ancora fa capolino questo becero autobiografismo…

“Mi dispiace tanto, Mr Stevens. Vostro padre è spirato circa quattro minuti fa.” E il figlio non può che replicare: “Capisco.

Lei cerca di esprimere la sua con-doglianza, ma non ci riesce, essendo la sua attenzione mirata altrove, ai porci, per cui non può al momento andare a salutare la sua origine: “Sono molto occupato, in questo momento, Miss Kenton. Tra poco, forse.” – lei, per fortuna, ottiene da lui il permesso “di chiudergli gli occhi”. Lui glielo concede, per poi dirigersi immediatamente in quel ciûş mardlèint (in quel porcile aulente). Amen, RIP. Etc… ma ora non si deve perdere più tempo. Tiremm innanz!

Sintetizzo il pensiero dell’attualmente unico Mr Stevens: per i maggiordomi di una volta, quel che contava era il “fatto che il loro datore di lavoro avesse o meno un titolo nobiliare”, mentre i suoi contemporanei badavano più “allo status morale” del loro Dominus. Per questo, dice che “eravamo una generazione dotata di molto maggiore idealismo”. Intanto, nel suo mistico viaggio, Stevens sta raggiungendo Taunton, Somerset.

Nello scambiare due chiacchiere con degli indigeni, Stevens si accorge della carenza di facezie che egli è in grado di produrre nella conversazione e se ne duole: eppure, si confessa al suo lettore, “mi ero sforzato di aggiungere una simile competenza al mio bagaglio personale, allo scopo di soddisfare con fiducia tutte le aspettative di Mr Farraday relative agli scambi di battute scherzose.

Ogni tanto si adattava a leggere dei romanzetti sentimentali in quanto: “simili opere erano generalmente scritte in buon inglese, erano ricche di dialoghi eleganti che per me erano di grande utilità pratica.” – ed evitava “un testo più ponderoso. Uno studio erudito ad esempio…” – scritto con termini “di uso più limitato nel corso del quotidiano scambio verbale con gentiluomini e signore.

En passant faccio notare che, per il nostro, anche parlandone in terza persona, Lord Darlington era sua signoria, mentre Farraday è soltanto un Mr. Qualcosa sta cambiando? Eh, sì.

Tornando ai tempi che mai più torneranno, Stevens specifica: “… il mio dovere in quel caso era abbastanza chiaro, e dal mio punto di vista non vi sarebbe stato assolutamente nulla da guadagnare nel fare irresponsabilmente mostra di tali dubbi personali.” – il suo compito era di ubbidire agli ordini di sua signoria, senza porsi il problema della loro giustezza, anche se palesemente fallaci, come per il licenziamento di quelle due dipendenti ebree, in quanto appartenenti a quella negletta genia. Il fatto non andava giù a Miss Kenton, che minacciò addirittura di andarsene per esprimere la sua condanna per quell’iniqua decisione. Il duello verbale fra la governante e il maggiordomo è tutto da leggere, ma non da riportare. Chi lo desidera dia un occhio al romanzo da pagina 179 a pagina 183. Nel diverbio che sorge, Stevens non manca più volte di fare “una risata”, anche se, dopo che il suo stesso padrone ammetterà d’essersi comportato con quelle due giudee in modo non giusto, egli pure concede a Miss Kenton: “L’intera vicenda fu per me motivo di grande preoccupazione, di grande preoccupazione davvero. Non è certo una di quelle cose che mi fa piacere veder accadere in questa casa.” Al che lei non gliele manda a dire! Si leggano a proposito le pagine 185 e 186.

Quando lui dice: “Era naturale disapprovare quei licenziamenti. Si sarebbe detto che la cosa fosse abbastanza ovvia.”elementare, dottor Watson, soleva dire l’allucinato Sherlock. I due continuano a bisticciare (anche nelle pagine seguenti) ed è un antifrastico piacere starli ad ascoltare!

Lo scopo della vita di Stevens? “… la mia carriera non sarà del tutto completa fino a quando non avrò fatto tutto ciò che è in mio potere al fine di vedere sua signoria raggiungere i grandi obiettivi che si è prefissato.” – e soltanto quando egli sia in grado di riposare sugli allori, contento di sapere di aver fatto tutto quanto nei limiti del possibile gli si poteva chiedere di fare, soltanto quel giorno, Miss Kenton, potrò definirmi, come voi dite, un uomo appagato.” Che sia un infinito attimo intriso di un unico, incommensurabile, Nirvana?

Kazuo Ishiguro
Kazuo Ishiguro

Muore la zia di Miss Kenton e qual è la sorpresa del maggiordomo quando si accorge “che, proprio in quel momento e a pochi centimetri di distanza da me, Miss Kenton stesse davvero piangendo. Il pensiero fece sì che una strana sensazione sorgesse dentro di me, facendo in modo che me ne rimanessi lì, esitante, nel corridoio, per alcuni minuti.” Non riuscendo a esprimerle il suo cordoglio, dice: “me ne tornai al mio lavoro.”

Cos’è dopotutto la dignità? “La dignità non è una cosa riservata ai signori…” – essendo a disposizione di chiunque la cerchi. Il compito di ognuno, dal maggiordomo all’ultimo degli inservienti, è individuare la propria strada, il Tao. A volte ho quasi l’impressione che l’autore sia mezzo orientale (mezza piolata, anzi, intera). Un pensiero notevole: “Può difficilmente ritenersi colpa mia se la vita e l’opera di sua signoria si siano rivelate, agli occhi del momento presente, un triste spreco – ed è abbastanza illogico che io debba provare, da parte mia, alcun rimorso o vergogna.” E qui parzialmente obietto, onorevole Stevens, io che non confido nel Fato Assoluto ma che tento di operare nel Destino Cosmico. Anche noi offriamo, nel nostro essere ben misera particella, il nostro infimo contribuito a quel terribile disordine che incombe anche e non solo su di noi. L’unica certezza è che non ci è concesso di evitare la nostra sorte, qualunque essa sia, ma che possiamo collaborare a crearla. Il discorso è quasi incomprensibile, purtroppo.

La quarta giornata del viaggio prosegue in Cornovaglia, dove “fuori piove dirotto” – la pioggia è talvolta catartica, pur recando umidità. Cosa significa “non togliersi i panni di dosso in pubblico”? – lo chiede un tale a Stevens, la cui risposta è: “La dignità, signore.”

Illo tempore, la sferzante Miss Kenton aveva tentato di ridicolarizzarti, Stevens, per cui, passata la rabbia, venne a chiederti scusa, dicendoti: “Mr Stevens, sono stata molto sciocca poca fa.” – e tu le replicasti da par tuo: “Vogliate scusarmi, Miss Kenton, ma in questo momento non ho tempo per fermarmi a parlare.” Lei poi si dava ancora della sciocca e tu: “Non sono affatto rimasto male per nessuna cosa che voi possiate aver detto, Miss Keaton. Anzi, non ricordo neppure quale sia la cosa alla quale voi possiate riferirvi…” – ben più gravi disgrazie incombevano allora sull’Europa, sul Mondo, per badare alle minutezze.

Questo tu ricordi nella Quarta giornata, poi, ignorando di dire alcunché della quinta, passi direttamente alla Sesta giornata – Sera, a Weymouth, dove finalmente incontri il tuo amore.

Spiegami ora perché continui a dire in terza persona “Miss Kenton” mentre, nel rivolgerti a lei, la chiami “Mrs Benn”. Lo ricordi o no che è sposata? Ovviamente non ti è consentito che rimembrarlo a ogni istante, mentre discorri con lei. Ora le parli di quel vuoto a cui accennava nella lettera, e lei dapprima non ricorda, oppure finge, chissà. Poi abbozza una spiegazione: “Beh, magari ci sono delle giornate nelle quali mi sento così.” – e ora la sua esistenza si sta riempiendo nientepopodimeno che di un “nipotino”. Ora tocca a lei a cercare di far parlare l’atarassico che è in te:E che cosa mi dite di voi, Mr Stevens? Che cosa ha in serbo il futuro, per voi, ora che tornate a Darlington Hall?” Sintetizzo, anzi, singolarizzo la tua risposta: “lavoro, lavoro e poi ancora lavoro”. Ed entrambi ridete come pazzi! Come vi ammiro!

Lei, ammette che è stata una gran fatica, ma che ora ama suo marito e che “dopotutto ormai non si può più mettere indietro l’orologio”. Lei ora pensa a un’assurdità, che la fuga da Darlington Hall fosse “un altro stratagemma, Mr Stevens, per farvi arrabbiare. Fu uno shock arrivare qui e ritrovarmi sposata.” – per tanti di noi lo è stato!

“… mi scopro a pensare al tipo di vita che avei potuto avere con voi, Mr Stevens.”una vita da governante, I suppose.

Tu sei un filosofo, my friend, quando dici:Tutti quanti noi, come voi dite, dobbiamo essere grati di ciò che realmente abbiamo…” – anche se Miss Kenton non ha detto esattamente così. La tranquillizzi dicendole che, ora che Mr Benn convolerà a una giusta pensione, le cose andranno sempre meglio per tutti, anche per “i nipotini in arrivo”.

Sei rimasto solo, maggiordomo! No, ora ti metti a conversare con un signore molto saggio. Un uomo che “sino a qualche momento fa era seduto qui, su questa panchina, accanto a me, e con in quale ho avuto una curiosa discussione”, riesce a convincerti che “per un gran numero di persone la sera rappresenta la parte migliore della giornata, la parte che attendevano con maggiore piacere.” E ora pensi che il tuo errore non è stato aver servito un uomo che ha errato nelle sue scelte. Allora qual è stato?

Errare humanum est, anche nel senso di andare colà, dove ti conduce quel muscolo cardiaco che batte ogni istante dentro di te, donandoti infiniti aneliti di vita.

Quell’uomo ti disse: “Smettila di guardarti indietro continuamente, altrimenti non puoi far altro che essere depresso.” – a che e a chi serve tutto ciò? A niente! A nessuno!

Stevens, lo sai che gli amici mi chiamano Steve? E che sono uno che ama dire le piolate, eppure, ti giuro, io sono un uomo serio, anche mentre le sparo.

“… mentre li ascolto, li sento rivolgersi una battuta dietro l’altra…”.

Un’ipotesi che stai vagliando: “che in tale scambio di battute si trovi il segreto del calore umano”.

Spero di sì, sennò, quanta energia avrei scioccamente sprecato!

E tu sorprendi il tuo ciarliero lettore quando dici: “… quando il mio padrone tornerà a casa, sarò in grado di fargli una piacevole sorpresa.” – mi raccomando, non tutto in una volta, ma giorno per giorno, aumentando ogni sera la dose…

Leggendo il tuo libro ho rimandato il suo commento perché non riuscivo a spiccicare parola. Non ce la farò amai a reagire, mi dicevo. Infatti… sono ormai a 4.000 parole. Non sono stato a contarle, il mio fido domestico l’ha fatto per me.

Ogni volta che termino una reazione, ancora prima di rileggerla, mi dico che questa è la più bella che ho scritto!, anche stavolta è stato così. Com’è sublime illudersi! Quando invece non mi va benissimo, non mi dico nulla, anzi, chiudo un occhio, anzi due. Ogni volta salvo il file.

E ora mi accingo a partire per la prossima avventura. E che il dio della lettura me la mandi buona! Se esiste.

Varesi, aspettami! Anche tu, Ilaria! Pure tu, Gabriele (ma il quinto M. M. lo stai scrivendo o no?)!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Kazuo Ishiguro, Quel che resta del giorno, Einaudi, 1991

 

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