“La spartizione” di Piero Chiara: tre sorelle, un unico Destino
Potrei iniziare con lo scrivere: “La spartizione” è uno dei libri più profondi, acuti e meravigliosi che abbia mai letto. Lo è e non sarebbe spiaciuto a Pirandello e a Sciascia, tanto per tirare in ballo due autori a caso, casualmente siculi. Piero Chiara è però di Luino, Varese.
Il genio è tale ovunque sbocci, a prescindere, come diceva Totò, che era a casa sua a Napoli, anche se forse era anche un po’ di Bisanzio. Ma adesso devo calmarmi, sennò poi ha ragione chi dice che ci metto troppo me stesso nelle razioni, e che parlo sempre del medesimo frate teologo, della stessa madre, dei soliti principi della fisica superiore, degli ormai consunti detti arşân, nonché di quei noiosi paradossi della fisica.
La scena del delitto, pardon, della storia è ambientata nella provincia di Luino. Uno dei protagonisti è Emerenziano Paronzini, originario più o meno del paese dell’autore.
La sua definizione (sto correndo un po’) la trovo all’ultima pagina del romanzo: “Il contadino di Cantévria che aveva fatto la guerra, che aveva lottato sanguinante nei gorghi del Piave riuscendo a salvezza per approdare al tavolo di un ufficio del Bollo e Demanio, aveva fatto altra strada.” – più fortunata? Nessuno saprà più rispondere. In ogni caso fu diversa da quella prevista.
“Doveva essere persona, la donna che Emerenziano cercava, natura compiuta anche se distorta, da manomettere e da sommuovere senza pietà, crudelmente, come egli pensava si dovesse operare con le donne per trarne i sapori più forti.”
Ciascuno di noi ha il suo fine ultimo dell’esistenza, ma c’è chi esagera e ne trova anche due.
Emerenziano nota tre sorelle, che non sono quelle di Cechov.
Le tre sorelle di cui dice Chiara sono tre zitelle di paese, figlie di Mansueto Tettamanzi, che non era ricco ma benestante. Una è insegnante, le altre poco più che nullafacenti. Il padre era un monomaniaco assai riservato, che, per loro (s)fortuna, morì non troppo tardi. Tre ipotetiche donne da marito. Bruttine, ma ognuna con la sua pur stagionata capacità attrattiva.
La maggiore, Fortunata solo di nome, ha un crine lunghissimo; la seconda, Tarsilla, è un po’ orrenda di viso, ma ha due magnifiche gambe; la terza, un po’ insignificante, ha due magnifiche mani. Sono tutte e tre sui trenta/quarant’anni, meno di quaranta due, una un poco oltre.
“Solo per il padre quei pregi isolati erano dei difetti, degli errori nel suo sforzo sincero per ottenere la bruttezza compiuta.”
Emerenziano non è di certo un bel tomo, pare tagliato col marrazzo, che è l’italianizzazione del dialettale marâs, che è un’accetta col manico corto, per cui, almeno dalle mie parti, tajê col marâs significa malformato, difettoso, almeno dal punto di vista estetico.
Egli è dotato di numerosi pregi, di cui dirò. Trasilla è la più sveglia delle tre bef…, delle tre ragazze, per cui è lei che adocchia il merlo. Il quale, per una grana burocratica che egli dovrà risolvere, per un po’ frequenterà la famiglia.
Poiché Tarsilla fa di tutto per coltivare questa nuova amicizia, le sue sorelle, dapprima recalcitranti, poi paiono accettare la nuova situazione che si sta creando: un uomo che frequenta la casa di tre donne nubili.
“Brutte ciascuna a suo modo di una bruttezza singolare, e consapevoli della ripugnanza che ispiravano agli uomini, avevano tacitamente soppresso l’amore, come se l’avessero seppellito in giardino per nascondere una vergogna.” – amen e così sia, per il passato, ma così non sarà per il futuro che incombe. Oggi, dopo pranzo, Emerenziano sarà dalle tre signorine.
“All’una e mezza le tre sorelle avevano levato la mensa ed erano già in attesa. Suonarono le due e successe un silenzio innaturale…” – anzi, nulla successe per un po’ – “Neppure le piante del giardino muovevano un ramo. Si era arrestata anche la caduta delle foglie che in quei primi giorni di ottobre andavano coprendo i viali con l’insistenza di una pioggia autunnale.” – era tutto precipitato in una singolarità densissima ma immota in cui ogni storia era destinata, così pareva, per l’eternità. Ma si sa che prima o poi qualcosa entra e qualcosa addirittura esca da qualsivoglia black hole.
“Alle due e dieci minuti si mosse il lungo filo che congiungeva il tirante esterno a un grosso campanaccio fissato sulla facciata della casa.” – e altre cose accaddero, tutte memorabili, ma chi le vuol sapere è tenuto a leggere il libro.
“Restavano in mostra, mobili e sfrontate come due seni scoperti, Tarsilla, la quale cambiava gamba ogni cinque minuti lasciando vedere in un baleno l’attacco della coscia”.
Per quanto attiene Camilla, “disimpegnava l’ospite della tazzina. Del tovagliolo e del piattino dei biscotti mettendo sempre in vista le sue mani diafane, lunghe e delicate proprio come quelle delle contesse.”
Non avendo messo in evidenza alcunché, a parte i capelli che si esibivano da sé, “mentre Tarsilla era così delusa”, Fortunata “sembrava soddisfatta di come era andato il pomeriggio.” – mentre “Camilla aveva detto proprio le parole che aveva preparato lei” – e forse s’era illusa di essere la prescelta dall’ospite, il quale le salutò sbarrando “gli occhi” e portandosi “il cappello che aveva in mano davanti al petto per fare il più piccolo ma il più espressivo dei suoi inchini.”
Alla fine accadde che Emerenziano fu invitato a pranzo. Addirittura!
Nel frattempo una delusa Tarsilla decide si provare un piano B: accetta la corte di tale Paolino, un donnaiolo senza un soldo, con un’attività commerciale che sta dando gli ultimi. E l’infame zitella a un tratto “si immaginò moglie del Paronzini e nello stesso tempo amante di Paolino. Provò anche ad immaginarsi moglie di Paolino e amante del Paronzini, ma la cosa non funzionava.” – un amante poteva essere senza un soldo, un marito era meglio di no.
Paronzini pareva tanto costumato! Paolino, no! Due esseri antitetici, quei due…
A pagina 79, Paronzini si dichiara a… Fortunata, con un linguaggio burocratico, al che lei rispose con un certo ritegno, “faccia bene i suoi conti e rifletta”.
Vorrei far notare una scenetta: “Fu allora che egli posò una mano sulle sue, come fanno i mediatori di bestiame quando uniscono insieme le mani di chi vende e di chi compra.”
La transazione sta andando in porto e i due piccioncini si sposeranno entro pochi mesi.
Ma prima di tutto ciò riporto la scena clou del romanzo: Paronzini, ormai ospite fisso alla domenica, scelse “una mela e la pelò tutto in tondo facendo un solo nastro di buccia. la mela era marcia per due terzi. il Paronzini fece un cuneo del terzo buono e lo posò sulla tovaglia.” – poi fece altrettanto con una seconda mela, marcia in modo similare. Ne prese una terza, che si rivelò buona per metà, per cui: “Tolse dal buono quanto bastava a comporre una mela intera con l’aggiunta dei due terzi che aveva messo da parte…” – e si pappò quegli amabile resti con studiata e al contempo naturale lentezza e Piero Chiara non ci dice a chi spetti il residuo commestibile della terza mela. Né di chi possa essere l’ipostasi: della serva Teresa?
“Erano gli anni in cui con grande ritardo finiva a Luino, e forse anche in altri posti, l’Ottocento, ma anche alcuni scampoli di Settecento e di Seicento”.
Intanto Tersilla, stava vivendo una tresca erotica con Paolino, sempre più esaltante e sempre meno soddisfacente. Lei era diventata un’“orrenda delizia” per Paolino.
A Fortunata non andava granché meglio, non essendo lei nata per il matrimonio, né per le attività annesse e connesse, e ne soffriva molto. Camilla restava in attesa della sua prima occasione.
Nel frattempo non succede di tutto, ma qualcosa sì. Paronzini, forse deluso dal suo menage erotico, diventa amante di una cognata e poi di entrambe. Non mi si chieda come, lo si domandi a Piero Chiara, che è un vero talento della scrittura. Ma non so se e quando risponderà.
“Eredi della sensibilità paterna, le tre sorelle custodivano tranquillamente la loro bruttezza quasi sapessero che sarebbe arrivato un giorno o l’altro l’intenditore.” – uno e trino, mi viene da dire.
Statemi a sentire, anzi, più che me il narratore: “Con la primavera, quasi ogni sera l’Emerenziano usciva al braccio della moglie seguito dalle due cognate. Arrivato in piazza dava il braccio a Tarsilla fino in fondo al lungolago. Al ritorno veniva il turno di Camilla, e dalla piazza a casa Fortunata riprendeva il suo posto d’onore al braccio del marito.” – un triangolo rettangolo isoscele, dove il quadrato dell’ipotenusa etc etc.
“Non sbagliava mai: una notte da Tarsilla, quella successiva dalla moglie, poi da Camilla, quindi ancora da Tarsilla e ancora dalla moglie. La domenica riposo. Lunedì ricominciava con Camilla.”
Tralascio la scena dell’illusoria ma non concreta morte di Paolino perché fa troppo ridere: è lì, nel libro, e non scappa mica. Arrivo ora a ben più tragico evento.
“Padrone incontrastato di casa Tettamanzi, il Primo Archivista Emerenziano Patonzini oscillava come un metronomo da una stanza all’altra, al punto che per Teresa era diventato un orologio e un calendario.” – in assenza di cellulari, egli funzionava in maniera infallibile.
Una sera, “guidato dalla sua lampada era entrato come un’ombra nella stanza di Tersilla.” – e Teresa poco dopo dormì, più o meno serena.
“Quando si risvegliò, dopo poco più di mezz’ora, lo vide che sostava con la sua lampada accesa davanti alla porta di Camilla.”
E ora “la Teresa non dormì più”. Mezz’ora dopo “lo vide uscire con la luce puntata verso terra diretto alla porta della moglie.” – dopo di cui Teresa s’assopì ancora. Sembra quasi che stia affrontando un lungo viaggio notturno, chiusa nello scompartimento di un treno.
Non si sa perché, forse per via di un vizio cardiaco sorto nel corso della Grande Guerra, qualcosa va in fumo nei piani di tanto stallone, che all’improvviso venne a mancare: “Emerenziano era per terra e illuminava un forma che alla Teresa…” – ancora svegliata per via di non so quale ansia – “… parve il fianco di un uomo disteso.”
Teresa gridò e le tre anziane giumente “accorsero l’una dopo l’altra”. Il dottor Raggi, chiamato da Tersilla, non poté che constatarne il decesso.
“Tersilla, rimasta sola col morto, lo guardava freddamente e si chiedeva quanto sarebbe durato il soggiorno di Emerenziano nella casa…” – troppe ore ancora! “Un giorno intero, un’altra notte e ancora una mattina.” – e lei “ormai si vedeva davanti una vita di silenzio e il distacco da ogni desiderio. Sentiva che la sua carica vitale era finita e il suo calore estinto.”
Paolino era in trasferta in Francia, come aveva minacciato e a cui era stato obbligato per via dei troppi e troppo esosi creditori. Non vorrei essere cinico, anzi equino, ma secondo me la Signorina Bellecosce ha puntato sul cavallo sbagliato. E ora si trova sola, a meno che… che quel tanghero di Paolino non torni, magari quasi abbiente, al paesello natio!
Le tre consanguinee “tacevano e stavano a testa bassa sotto il peso di un avvenire che si annunciava opaco…” – e che aveva forse cessato di annunciarsi.
E ora ho finalmente capito a quale altra spartizione si riferisca l’autore: delle reliquie del Santo Emerenziano Paronzini, che ognuna delle tre sorelle, appena può, s’accaparra e va a nascondere nella propria cella monacale. Non c’è il rischio che escano, come per certi santi, tre femori o tre mani o tre gomiti, in quanto il corpo era stato debitamente sepolto, avvolto da una camicia nera, poiché le ultime parole del morente erano state: “La camicia. Fuori la camicia…”.
Le tre sorelle non si amavano granché, e non so se e quanto si volessero un po’ di bene. Senz’altro si disprezzavano l’un l’altra.
“Una sola cosa le salvava dall’odio reciproco: l’essere tutte Tettamanzi, cioè tre porzioni di un solo corpo o tre frammenti di un tutto che il feroce Mansueto aveva disseminato lungo la sua strada.” – tre pezzi di mela, non si sa per quanto ancora commestibili.
Alla fine di questa non lunga ma densa epopea (180 pagine), non si può non proclamare Emerenziano Paronzini come un eroe sui generis, un uomo che volle ex-agerare, uscendo da quegli argini che lui stesso, con infinito scrupolo, aveva delimitato, pagando con la vita quell’estremo conato.
Non m’è stato molto simpatico, né sono sicuro di ammirarlo almeno un po’, ma Piero Chiara è riuscito nel suo intento di esaltarne le gesta, con la sua prosa ironica e assai accattivante.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Piero Chiara, La spartizione, Mondadori, 1970