“Le due mogli di Manzoni” di Marina Marazza: un colpo di fulmine letterario

Nel 1827 Teresa Stampa, née Borri, rimane folgorata dalla lettura della prima edizione de I Promessi Sposi.

Le due mogli di Manzoni di Marina Marazza
Le due mogli di Manzoni di Marina Marazza

La donna ha molto amato il romanzo ma sente di volere bene anche a chi lo ha scritto: Alessandro Manzoni è fatto suivant mon coeur, confida rapita alla madre. Un’affinità spirituale nata pagina dopo pagina; Manzoni vi svela un’anima che piace a Teresa. Le piace tanto. Ella ha quasi ventotto anni; giovanissima è rimasta vedova del conte Decio dal quale ha avuto un unico figlio, Stefano, e mai avrebbe immaginato che quella folgorazione letteraria sarebbe stata coronata dal matrimonio con don Lisander dopo la morte prematura della prima moglie, Enrichetta Blondel.

Nel monumentale romanzo storico Le due mogli di Manzoni (Solferino, 2022, pp. 477) Marina Marazza dà voce a Teresa la quale ripercorre il quarto di secolo vissuto accanto all’illustre marito di cui ci fa conoscere l’aspetto intimo, domestico e le fragilità. Narra di sé, Teresa, di don Lisander e della famiglia ma poi lo sguardo si dilata e abbraccia la storia di Milano, del Lombardo-Veneto scosso da fremiti indipendentistici, del nascente Regno di Sardegna.

Marina Marazza non inventa quasi nulla: il romanzo è già stato scritto dai protagonisti, i quali hanno fissato frammenti della loro vita nei nutriti carteggi e nei diari; a questo grandioso corpus si aggiungono cronache, resoconti locali, articoli di giornale. Tante fonti, tanti temi: Le due mogli di Manzoni non è tuttavia un romanzo farraginoso ma vivo, vivace e animato.

Nel Natale 1833 Milano è coperta da un candido manto di neve; la vita sembra essersi fermata in un insolito silenzio, quasi a rendere omaggio a Enrichetta, mancata alle otto di sera. Teresa si era già spinta sotto la casa di via del Morone nella speranza di scorgere Manzoni ma, vinta dal pudore, era sempre tornata indietro; la visita alla salma le offre l’occasione di varcare quella soglia e di entrare nel mondo di lui. Il pensiero della donna è rivolto solo a lui, gli occhi frugano nella stanza in cerca di tracce di lui; poi un grido straziante trapassa le pareti e, aggrappato allo stipite, i capelli incanutiti in poche ore, appare don Lisander.

L’autore de I Promessi Sposi in quel momento è solo un uomo che si sente tradito da Dio, il suo dolore è uno scoppio d’ira contro il Cielo. Teresa vorrebbe prenderlo tra le braccia ma riesce a pronunciare solo poche, timide parole e a stringergli la mano; la perdita di Enrichetta è solo l’inizio di altri tradimenti di Dio verso don Lisander che, nel settembre 1834, si trova a piangere la primogenita Giulia.

Teresa, che non ha mai smesso di pensare al proprio amore letterario e di chiedersi come egli abbia continuato a vivere senza Enrichetta, patisce quel lutto come fosse suo.

Marina Marazza - Photo by Luca Fazzolari
Marina Marazza – Photo by Luca Fazzolari

Alessandro Manzoni è nell’iperuranio: è vicino eppure lontanissimo; Teresa ne è consapevole, coltiva dentro sé il sentimento e intanto vive. Al suo fianco è sempre presente Tommaso Grossi, trait d’union tra lei e lo scrittore; egli è un amico di Teresin ma è anche un corteggiatore tutt’altro che riservato: non ha mai nascosto di accarezzare il sogno di sposarla. Ella è assillata dai dubbi, non è più una ragazzina e certe emozioni non si addicono a una donna della sua età, vedova e con un figlio; eppure, proprio perché è una donna sola, e sola da troppo tempo, sentirsi desiderata riaccende una fiamma dentro di lei. Teresa si scuote dal torpore di una vita ormai priva di slanci, compressa tra le regole del decoro e il ruolo di madre; è certa che Grossi non sarà mai suo marito ma lo accetta come amante: gli concede il corpo ma ha consegnato l’anima a Manzoni, al punto di invocarne il nome durante un incontro con Tommaso. La donna sente il dovere morale di confessare a quest’ultimo quel segreto inconfessabile; ama Alessandro ma sa che il suo è un amore impossibile: egli vivrà per sempre nel ricordo di Enrichetta in un’eroica solitudine.

Grossi è scisso da un dualismo sentimentale; nutre un affetto fraterno per Manzoni e sente un profondo trasporto per Teresa. Ama entrambi e l’amore lo spinge a sacrificarsi; il 23 febbraio 1836, in occasione della prima alla Scala, Tommaso combina l’incontro tra i suoi due amici: Teresa Borri Stampa e Alessandro Manzoni iniziano quella sera il loro cammino insieme.

Pochi giorni dopo don Lisander si presenta a casa Stampa e chiede la mano di Teresa; le nozze vengono celebrate il 2 gennaio 1837 in vesperis.

La vita come signora Manzoni si rivela irta di difficoltà: l’idillio con donna Giulia, che vorrebbe fare di lei un simulacro di Enrichetta, è di breve durata; la nuora non è malleabile, è adulta e rivendica con fermezza la propria identità. Teresa è sempre accanto al marito, pronta a consigliarlo, sostenerlo e confortarlo: lo incoraggia a portare avanti l’ambizioso progetto di ristampare I Promessi Sposi revisionati e si prodiga molto in questa impresa nella quale è la prima a credere; segue l’ossessione di Manzoni per la purezza linguistica e la sua caccia agli “esecrandi dittonghi”, passa ore a redigere un glossario di vocaboli fiorentini per dare il proprio contributo che è anche un atto d’amore, condivide i lutti che continuano a funestare la famiglia.

Il 1844 è un annus horribilis: Teresa perde la madre poi, cocente, le piomba addosso il disinganno; l’uomo fatto proprio come il suo cuore voleva aveva messo a nudo le proprie debolezze ma Teresa ne ha accettato luci e ombre: così è l’amore. Ma quello stesso uomo custodisce una verità che si abbatte come un macigno su di lei: durante la vedovanza egli ha avuto un figlio illegittimo da una ricamatrice. Manzoni non ha infranto alcun voto matrimoniale e non è questo il motivo del furente dolore di Teresa; brucia apprendere che quel marito aureolato di sublime sofferenza e romantica nostalgia era solo un’immagine commovente ma irreale. E ferisce gli occhi e l’anima il crudo nitore della verità: quel matrimonio concluso in gran fretta serviva solo a preservare don Lisander dalle tentazioni; con una moglie rispettabile avrebbe formato una nuova famiglia rispettabile e confermato la caratura morale che trapela dal suo romanzo.

Teresa si concede a Tommaso per disperazione, per vendetta, per punire sé stessa, per dimenticare, per ricordare.

Soffre l’anima, soffre il corpo; i disturbi fisici sono inequivocabili ma ella rifiuta l’idea di una gravidanza: partorire il figlio di Tommaso, il figlio della colpa, è intollerabile ed è perfino felice quando le viene diagnosticato un tumore. Ella si convince di essere malata, vuole esserlo, deve esserlo; accade invece l’incredibile: ignara di essere incinta e ormai prossima all’età critica, dà alla luce due gemelle, figlie di Alessandro, ma non le stringerà mai tra le braccia perché le neonate non superano la notte.

Il 1848 è segnato da fermenti rivoluzionari; Milano viene liberata in cinque gloriosi giorni di lotta e Manzoni viene ormai considerato un patriota che nelle sue opere ha celato una denuncia del giogo straniero e un inno alla libertà. Dopo la sconfitta di Custoza le armate piemontesi ripiegano verso Milano; si parla di armistizio, una sciagura per la città che verrebbe invasa dalle truppe di Radetzky.

Le due mogli di Manzoni - Photo by Tiziana Topa
Le due mogli di Manzoni – Photo by Tiziana Topa

I Manzoni si trasferiscono a Lesa, fuori dei confini del Lombardo-Veneto, dove Alessandro viene raggiunto dalla proposta di diventare deputato a Torino; egli rifiuta. Un vecchio deputato balbuziente e irresoluto? Inconcepibile: è come invitare uno zoppo a una festa da ballo. La vita di Manzoni è costellata di lutti non solo in famiglia ma anche tra gli amici più cari; dopo Federico Confalonieri, cui era legato da un debito di riconoscenza, nel 1853 viene a mancare Tommaso; dopo Giulia, Sofia e Cristina anche Matilde, l’ultima figlia superstite, soccombe a una estenuante malattia: don Lisander ha raggiunto il limite della capacità di sopportare il dolore. Il suo spirito è flagellato, il corpo stanco; egli sfiora la morte ma dove si arrende la Medicina vince l’ostinata dedizione della moglie, che lo riporta tra i vivi. Teresa è sempre stata ipocondriaca ma il parto tardivo, gli affanni e l’età hanno minato il suo fisico: la malattia ormai non è uno spettro ma una realtà. Le gambe non le obbediscono, il cuore è affaticato, non è più in grado di camminare; soffre ma mette da parte la propria sofferenza, non vuole essere un peso, non vuole destare apprensione e piange in silenzio.

Prigioniera del proprio corpo, si rafforza come vestale del culto del marito, nominato senatore del Regno; Teresa ne asseconda la cecità spirituale e finge serenità, perfino allegria. Finge anche l’ultimo giorno quando, in una Milano assediata dall’afa, Manzoni la saluta prima di partire per Brusuglio; lo lascia andare pur sapendo che non lo vedrà mai più. È ora: Tommaso è venuto a prenderla, la aspetta in cortile, come ai vecchi tempi; la aiuterà a salire a bordo della carrozza poi partiranno al galoppo. Dalla strada arriva il suono di una romanza, quella scritta da lui; canta di una rondinella pellegrina.

Nella vita di Teresa il matrimonio con Manzoni è una parentesi che racchiude un’esperienza reale, eppure sfuggente e quasi onirica; ella entra in fretta in quella famiglia ma altrettanto in fretta viene rimossa appena smette di respirare. Non riposa a Brusuglio, insieme alle altre donne di don Lisander, ma a Lesa, accanto a Decio; in limine vitae è Tommaso a farle visita: i suoi uomini, quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. Teresa ha dato anima e corpo ad Alessandro, a Manzoni e ai Manzoni; ma egli è stanco, svuotato e per lei versa solo poche lacrime; nessuna epigrafe dalla sua mano: non ha più voglia di intingere la penna nel dolore del lutto. La sua assenza al funerale della seconda moglie urla.

Tiremm innanz” risponde Amatore Sciesa agli austriaci che lo conducono al patibolo; anche Teresa si impone di andare avanti, di non voltarsi mai: non vuole, non può. Se si guardasse indietro dovrebbe ammettere ciò che intimamente sa ma che mai e poi mai ammetterebbe: che ha sbagliato a seguire le ragioni del cuore, che quelle ragioni erano radici affondate nella sabbia, fragili, labili.

“Ero la moglie di Lot trasformata in statua di sale perché aveva osato guardarsi indietro a guardare. Eppure avevo cercato di non farlo. Avevo cercato di tenere a mente solo la parte più positiva, solo la gioia di aver convissuto con l’oggetto del mio amor fou, di essere riuscita a diventare la moglie di Manzoni. Non mi guardavo indietro, oh, cercavo con tutte le mie forze di non pensare a come sarebbero potute andare le cose diversamente.

Manzoni non è anaffettivo, è piuttosto un analfabeta sentimentale: ama come può, come sa, ma non è capace di esprimere quell’amore. La sua forza nasce sempre da quella di una donna: della madre, di Enrichetta, di Teresa. Don Lisander, come don Abbondio, non possiede coraggio e dunque non può certo darselo; allora scappa, anche fisicamente, dai guai, convinto che, se si ignora una cosa, essa non è mai accaduta.

Enrichetta e Teresa accompagnano Manzoni per un quarto di secolo ciascuna; in realtà la prima moglie non se ne è mai andata: c’è stata, c’è, ci sarà. È viva nei rimpianti di donna Giulia, quasi lamentazioni funebri; se ne indovina la presenza nei pensieri del marito, tradita da una luce nello sguardo; siede a tavola, la sera del matrimonio di Alessandro e Teresa, a mangiare la carsenza ordinata nella sua pasticceria preferita. Una figura eterea ma ingombrante, la prima moglie; ma è proprio da lei che la seconda impara come si fa ad amare quell’uomo, imperfetto nella sua perfezione. Enrichetta insegna a Teresa che essere donna significa darsi in sacrificio, come un baco da seta, per generare il prezioso filo che tiene unita la famiglia.

 

Written by Tiziana Topa

 

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