“Timore e tremore” di Søren Kierkegaard: comprendere l’angoscia di Abramo
“Se l’uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo d’ogni cosa ci fosse solo una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d’oscure passioni; se il vuoto senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione?”[1].

Già nelle prime pagine di “Timore e tremore” opera fondamentale del pensiero kierkegaardiano e della filosofia occidentale, l’autore Søren Kierkegaard, in forma di domanda, ci pone dinanzi un’asserzione assiomatica del suo pensiero, senza la quale non è possibile comprenderne gli sviluppi.
Al centro di quest’opera c’è la figura di Abramo in tutta la sua drammaticità, data dalla prova alla quale Dio lo sottopone, una terribile prova.
Dio vuole che Abramo sacrifichi suo figlio Isacco.
Abramo era un uomo di fede e per fede fece tutto. “Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una cosa, la sua ragione terrestre, e un’altra ne prese: la fede”[2].
Ma questo non bastò e Dio gli diede una prova assai dura da superare, una prova disumana.
Tuttavia Abramo non si tirò indietro: egli credette.
Credette senza dubitare istante per istante, fino a che Dio fermò la sua mano prima che potesse compiere il sacrificio.
Da questo episodio biblico nasce da parte di Kierkegaard una riflessione che è solo in parte etica: è, in realtà meta-etica nella sua valenza teologica e, allo stesso tempo, esistenziale.
Anzitutto, chi davvero può comprendere l’angoscia che ha attanagliato il cuore di Abramo?
Questa angoscia nasce da una contraddizione insanabile. Infatti, moralmente parlando, “la condotta di Abramo si esprime dicendo ch’egli volle uccidere Isacco; e dal punto di vista religioso, dicendo che volle sacrificarlo. È questa la contraddizione angosciosa capace di produrre l’insonnia e senza questa angoscia, tuttavia, Abramo non è l’uomo che è.”[3].
Al centro di questa contraddizione, la fede, mancando la quale, Abramo non ha nulla più di un uomo che vuole uccidere il figlio.
E per la fede, la vita di Abramo diviene un paradosso.
Per fede, Abramo credette “per assurdo, perché non si poteva trattare di un calcolo umano. E l’assurdo era nel fatto che Dio, domandandogli quel sacrificio, avrebbe revocato la sua esigenza un momento dopo.”[4].
Di fronte a tutto ciò, Kierkegaard dichiara di non poter comprendere Abramo.
Non può comprenderlo perché animato da una fede alla base della quale sta l’assurdo e il paradosso.
E colui che ha veramente fede convive dentro di sé con tutta la terribile contraddittorietà di essa. Eppure, questo “cavaliere della fede”, come viene chiamato dall’autore, ha un aspetto esteriore che non tradisce affatto ciò che ha nell’anima e non ha niente “che riveli quella rara e altera natura alla quale si riconosce il cavaliere dell’infinito”[5]; tuttavia “vuota nell’infinita rassegnazione la melanconia profonda della vita. Conosce la beatitudine dell’infinito. Ha provato il dolore della totale rinunzia a quanto si ha di più caro al mondo.”[6].
Eppure, con questa rassegnazione, con questa sua rinunzia, ha potuto avere tutto grazie all’Assurdo.
Questo cavaliere della fede si trasfigura in un amore “che ha per oggetto l’essere eterno, che certo ha rifiutato di esaudire il cavaliere, ma l’ha, nondimeno, tranquillizzato, dandogli la coscienza eterna della legittimità del suo amore, sotto una forma di eternità che nessuna realtà può strappargli.”[7].
La rassegnazione di cui sopra è il passo che precede la fede, poiché si comprende l’impossibilità dei criteri umani: il cavaliere sa che può essere salvo soltanto grazie all’Assurdo, concepito e accettato per fede.
Da qui, Kierkegaard espone alcune domande che inevitabilmente nascono, la prima delle quali è: “Esiste una sospensione teleologica della morale?”[8].
Premesso che la morale, come scrive Kierkegaard, è il Generale, ossia è valido per tutti e considerando che la fede è “quel paradosso per cui l’Individuo è al di sopra del Generale e nondimeno (cosa importante) in modo tale che il movimento si ripeta, e che, di conseguenza, l’Individuo, dopo essere stato nel Generale, si isoli ormai come Individuo al di sopra del Generale”[9], allora con Abramo si ha una sospensione teologica della morale: egli, infatti, agendo in virtù dell’Assurdo, si pone come Individuo al di sopra del Generale.
Altro problema che Kierkegaard affronta è se esista un dovere assoluto verso Dio e la risposta è affermativa: in questo dovere, l’Individuo si relaziona in modo assoluto con l’Assoluto, perdendo, di fatto, l’istanza intermedia del Generale. Il cavaliere della fede si trova, dunque, dinanzi all’Assoluto, senza intermediari di ordine morale.
Il terzo e ultimo problema che l’autore si trova ad affrontare è se sia moralmente giustificabile il silenzio di Abramo con Sara, Elizer e Isacco.

Anche qui ritorna l’oltrepassamento della sfera morale di cui si parlava poc’anzi: il silenzio, per Kierkegaard, sarebbe motivato proprio dal rapporto diretto con l’Assoluto. “Abramo tace; ma egli non può parlare. In questa impossibilità consistono la sofferenza e l’angoscia. Perché se, parlando, non posso farmi comprendere, io non parlo, anche se peroro giorno e notte senza posa. Questo è il caso d’Abramo; egli può dir tutto, eccetto una cosa, e, quando non può dirla in modo da farsi intendere, non parla.”[10].
Che cosa non può dire Abramo, nella sua sostanziale solitudine dinanzi all’Assoluto?
Che si accinge a sacrificare suo figlio.
Quanti sarebbero in grado di comprendere l’angoscia di Abramo?
E, soprattutto, quanti sarebbero disposti ad accettare e accogliere l’Assurdo nella propria vita?
Di certo non coloro che si rifugiano nelle belle parole, nelle prediche senza anima.
Non coloro che si rifugiano in una fede a tinte pastello, una fede edulcorata e finta.
La fede, per Kierkegaard, ha in sé qualcosa di grandemente drammatico: del resto, Gesù non è una “pietra di inciampo”, una “pietra di scandalo”, come scrive san Paolo nella Lettera ai Romani[11]?
Terribile è trovarsi con se stessi dinanzi all’Assoluto.
Una terribile mistica. Senza mediazioni.
Ma lì è la salvezza dell’Individuo.
Written by Alberto Rossignoli
Note
[1] Søren Kierkegaard, Timore e tremore, Mondadori, Milano 2008, p. 13.
[2] Ibidem, p. 14.
[3] Ibidem, p. 24.
[4] Ibidem, p. 29.
[5] Ibidem, p. 32.
[6] Ibidem, p. 34.
[7] Ibidem, p. 37.
[8] Ibidem, p. 46.
[9] Ibidem, p. 47.
[10] Ibidem, p. 99.
[11] Romani 9,32-33