“Il velo dipinto” di William Somerset Maugham: un’essenziale e necessaria illusione
“… Il velo dipinto
di coloro che il vivere
chiamano Vita…”
A pagina 10 de Il velo dipinto di William Somerset Maugham intuisco la zona di origine del traduttore, un tale dal nome inclito, Elio Vittorini, siracusano che scrive, a proposito di certe finestre: “Chiuse erano, col chiavistello”.
E qui sorge l’usuale e non verificabile questione: sto leggendo l’opera di un insigne autore straniero, oppure la sua traduzione effettuata da un altrettanto grande scrittore italiano? Lascio sospesa la vana domanda e provo a reagire a questo piccolo gioiello di cellulosa.
Kitty è una bella ragazza, più della sua quieta sorella, ma non ha ancora trovato “l’uomo più adatto”.
Sono reduce (e, come lettore, so bene che ogni libro è una guerra a sé) del più recente A suitable boy di Wikram Seth, pubblicato nel 1993 e ambientato nell’India del 1951. Il romanzo di Maugham uscì a puntate tra il 1924 e 1925 e narra di eventi occorsi dapprima in Inghilterra e poi in Cina. Un quarto di secolo è passato, insieme a una guerra mondiale, e qualcosa, ma non tutto, è cambiato.
Che sia o no l’uomo adatto, “Walter Fane le offriva una liberazione da tutto questo…” – un salvifico tran tran in attesa delle imminenti nozze della più giovane e meno fascinosa sorella, per cui Kitty accetta l’invito di sposarlo (luna di miele in Italia!) e di andarsene sufficientemente lontano da tutto e da tutti per un bel po’.
“Kitty era rimasta sconcertata nell’accorgersi quanta capacità emotiva egli possedesse, in realtà. Se il suo riserbo fosse dovuto a timidezza o a lungo studio, essa non sapeva…” – lei poi osava ridergli in faccia di certe sue puerilità che gli si manifestavano, all’improvviso, nei momenti di intimità. E questo non aiutava a cementare il rapporto. Se poi lui non parlava con lei era solo “perché non aveva nulla da dire”. Due umanissime bestie che soffrivano in silenzio, senza comunicarsi altro che l’incomprensione. “Ma non si poteva mettere in dubbio che egli l’amasse alla follia. non esisteva cosa al mondo che non avrebbe fatto per lei”: erano programmati con linguaggi e con silenzi diversi, non compatibili ma nemmeno antagonisti.
Fra le consuete attività del buon britannico egli brillava solo nel bridge, nel resto valeva davvero poco: “Oh, al diavolo il bridge, cosa credeva che contasse?” tornando a casa prima del tempo, Walter scopre i due amanti (Kitty e un fascinoso vanesio di nome Charles); riesce però a non farsi scoprire. I due hanno sentito degli strani rumori e poi più niente, ma Kitty confesserà poi al suo Charlie che li deve aver scoperti: “… per la prima volta, da quando siamo marito e moglie, non mi ha dato il bacio della buona notte”.
Marito e moglie giungono a chiarire la loro posizione: lui le dice che sapeva da tempo che era “una sciocca e frivola donna dalla testa vuota.” – però l’amava e questo gli bastava. A lei “le vene delle tempie le si gonfiarono”, cominciò a perdere la testa e a tentare di ferire il coniuge tradito, il quale mantiene la calma, imperturbabile. Lui ha una soluzione: o lei l’accompagna in una zona infestata al colera, oppure divorzia assumendosi le colpe, con la promessa scritta di sposarsi in breve tempo con il suo amante, con il parere favorevole della sua attuale moglie. Lei ne è felice, ama tanto il suo Charlie, il quale però non ha nessuna intenzione di sposarla e non vuole coinvolgere la moglie, per cui le consiglia serenamente di partire in quell’avventura tanto pericolosa quanto affascinante. Lei ne è affranta. Comunica al marito che è pronta ad andare con lui, dov’egli vorrà. Il commento del consorte (il quale aveva già programmato l’ameno epilogo del dramma) è: “Ho già detto io alla tua amah quello che occorre prendere…” – essendo egli un uomo che sa il fatto suo, anche se preferisce parlarne il meno possibile.
In quel luogo disgraziato, Kitty fa amicizia con Waddington, un uomo saggio e buono, che le dice senza mezzi termini, parlando di Charlie: “… so che in cuor suo egli non si cura che di se stesso”. E poi c’è la moglie: “Quella sì che è abile. Ha una testa salda sulle spalle e il suo consiglio vale sempre la pena di seguirlo.” – grazie a lei, anche un mediocre egoista come Charles Townsend “arriverà fino in cima, ve lo garantisco.” Grazie a questo nuovo amico, Kitty comincia ad aprire gli occhi sul popolo cinese: “era come se le avessero sollevato davanti il lembo di una cortina a lasciare un attimo intravedere un mondo ricco di colore e di vita del quale sino allora non aveva mai sospettato l’esistenza.”
Anche per Waddington la figura di Walter è un mistero; cosa ci fa in quella landa miserabile un batteriologo di fama? Cosa lo spinge a rischiare la vita sua e quella della propria moglie?
“Passarono sotto l’arco fiammeggiante di tramonto, e cominciarono a discendere il pendio della collina. Come arrivarono al muro di nuovo videro il cadavere del mendicante. Ed egli le prese il braccio, ma essa se ne sciolse. Si fermò.”
L’avevano scorto anche poche pagine prima: “… disteso in terra sul dorso con le gambe divaricate, e le braccia rovesciate di sopra al capo…” – era solo un mendicante, a vederlo a com’era agghindato.
“Orribile, no?
“Che cosa? La morte?”
“Sì. Rende così volgare tutto il resto. Lo vedete, non sembra un essere umano. Quasi non vi potete persuadere che sia mai stato vivo. Non vi riesce di pensare che pur non molti anni fa era un bambino che scorrazzava per la collina con un cervo volante” – si joca a strummulu (alla trottola) ed è subito sera. A thing of death is a question for ever.
I rapporti di Kitty col marito si stanno evolvendo: “Ora essa non l’odiava, né gli portava rancore, ma era perplessa e piena di timore. Non poteva non ammettere com’egli possedesse qualcosa di stranamente e sgradevolmente grande in sé…” – ma “non riusciva lo stesso ad amarlo”, poiché “ancora amava un uomo della cui indegnità era perfettamente consapevole…” – le suore invece gli volevano bene, a quell’atarassico dottore. Mistero!
Egli compirà il suo capolavoro romantico, quando dirà alla moglie che non disprezza lei, quanto se stesso, per poi spiegarsi, “con aria riflessiva”: “per averti amata.” Fu allora che sopraggiunge il miracolo: lei medita di donarsi, a modo suo, alla missione del marito, contribuendo per quanto può a combattere il male che aveva colpito quella povera gente.
La vezzosa ragazza ha ormai deciso: aiuterà le suorine francesi; ogni tanto ne muore qualcuna e c’è bisogno di una mano in più. A lei sarà affidato un compito non duro, ma intenso: occuparsi dei bimbi i cui genitori sono morti o morituri.
Ormai le ore passano liete alla nostra eroina, che un bel dì si sveglia con l’impeto del vomito. No, non è colera. È soltanto incinta. Di chi non si sa o forse è giusto che non si sappia.
Marito e moglie finalmente, pur senza intendersi, iniziano a parlarsi. A un certo punto lui esclama: “Oh! Lasciamo stare il futuro!” – la cosa tragica è che “aveva una stanchezza di morte nella voce”.
Waddington parla di Tao a Kitty: “Alcuni cercano la Via dell’oppio e altri in Dio, altri nell’alcool e altri nell’amore. ma è sempre la stessa via che non conduce in nessun luogo” – come quel cancello ghiaioso, verso Capo d’Orso, sempre chiuso, eppure sono anni che io e lui ci vogliamo bene, forse perché non reca che a se stesso, e il mare è azzurro cobalto, e le montagne del Cilento lontane, oggi magicamente s’intravedono, l’aria è tersa più che mai. Walter, spirando, le dice: “Non è morto che un cane”, e lei rimane “come impietrita.”
A pagina 200 torna in scena il cadavere del medicante: “… Io ne rimasi spaventata, ma non perché fosse morto, sibbene perché pareva che non fosse mai stato un essere umano. Era un animale morto. E ora anche Walter pareva una macchina che avesse finito di funzionare.”
E a Waddington non rimane che di parlare della “Via col Viandante”. Tutto è illusione, peggio: è finzione. Come lo è questo romanzo, e l’ultima frase di Walter era soltanto “l’ultimo verso dell’Elegia di Goldsmith.” – nulla di più, nulla di meno; ma era tantissimo per un un lettore come l’imperturbabile scomparso.
Kitty, ora si sente rinforzata da tanta filosofia e dagli ammonimenti della Superiora: “La sola cosa che conti è l’amore del dovere; fate che amore e dovere siano tutt’uno in voi, e allora sarete in stato di grazia e godrete di una felicità che sorpassa ogni intendimento.”
Kitty incontra quel vanesio di Charlie e gli si concede un’ultima volta, e non sa nemmeno lei perché. Ma sì, perché quell’atto la inebria, e per null’altro. O forse perché “le passà davanti agli occhi la visione del mendicante che giaceva morto contro il muro di cinta del bungalow, coi cenci azzurri che lasciavano qua e là vedere la nuda carne delle menra emaciate.” – sic transit gloria mundi.
“Poi, abbattendosi col capo sulle braccia, pianse amaramente. Vergogna, vergogna! Non sapeva che cosa l’avesse presa. Era orribile. Odiava lui, odiava se stessa. Era stata un’estasi… Odiosa estasi!” – qualsiasi estasi lo è, odiosa, allorché ha termine.
Lei spiega all’amante perché si sente una bestia, lui fatica a capire, è troppo ipocritamente umano per comprendere la sua assurda animalità. Muore anche l’altra bestia familiare, la mamma, che tanto l’aveva amata, protetta e invasa. L’animale padre, da sempre negletto da moglie e figlie, se ne andrà ora alle Bahamas, in qualità di “Presidente del tribunale”. Kitty gli chiede il permesso di seguirlo. Lui pare dapprima restio, ma poi accetta la sua richiesta. E tutto, al momento, finisce benino.
Dice l’ormai biblica Kitty: “Il passato è finito. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti…” – e chi vivrà ancora un po’, ancora un po’ vedrà.
“… distinguo vagamente un disegno, un profilo e indovino un’inesauribile ricchezza…” – in cui c’è posto per il Viandante, Dio, la Via, quel mendicante che mai cesserà d’esser morto e la restante collezione di veli dipinti. E anche quell’intimo e sublime verso di Shelley, che fa da esergo a quest’ultimo, ormai svelato, romanzo, a cui seguono tre racconti né brevi né lunghi, che altro non servono che a rivelare quel che già del tutto velato non è più.
A corredo del romanzo “Il velo dipinto” l’autore, lo svelante William Somerset Maugham, offre al lettore tre perle dipinte, i cui svelati titoli sono: “Rosso”, “Quel fallito di Edward Barnard!” e “MacKintosh”.
“Rosso”:
“… era una danza barbara, selvaggia e primitiva, rapida, una danza nella quale spiccavano vivi movimenti delle mani e dei piedi, contorsioni del corpo; era sensuale, sessuale anche, ma sessuale senza passione.” – cosa significa? Non c’era amore. Un dare se stesso all’altro, ma solo un mutuo prendersi quel che conviene a entrambi?
“Era animalesca, istintiva, magica senza mistero, insomma naturale, e si sarebbe potuto benissimo chiamarla infantile” – questo significa che bimbi e bestie sanno essere se stessi senza falsificazioni, senza adornare il proprio comportamento di sottintesi culturali?
“Le palme da cocco arrivavano, scendendo dalle colline, sino a dove batteva l’acqua, e non in file, ma spaziate con simmetria. come un corpo di ballo di vecchie zitelle, vecchie ma vivaci, stavano in atteggiamenti studiati di grazia smorfiosa d’altri tempi” – di cosa è capace l’uomo, anche di dare una psiche a quel che sarebbe immoto se non ci fosse una forza che trascina tutto verso quell’unico, mistico e irrinunciabile punto!
Per Neilson, lo svedese, i libri, anche in quell’orifizio nascosto del mondo, sono una compagnia fedele come poche altre. A volte mi chiedo come mi sentirei all’interno di un carcere deserto, ma non priva di quei magniloquenti messaggeri di mistero, nonché, ovviamente, di un premuroso secondino disposto a tutto ma non a farmi morire di fame e di sete.
Un ospite inatteso: un capitano di una nave apparsa all’improvviso, così differente da lui eppure così attento alle sue parole.
Il capitano: “un uomo grande e grosso, alto più di sei piedi. Il viso aveva rosso e pustoloso…” – ma poco importa com’era fatto, era ormai un anziano un po’ obeso, che aveva bazzicato per trent’anni quel groviglio di isole, che ora chiede a Neilson perché sia lì, e da quanto?: è un quarto di secolo ormai. Lo svedese era venuto a morire in quel piccolo paradiso, perché i suoi polmoni ormai non ce la facevano più. Ed ecco che, dopo tanto tempo, ancora la sta raccontando.
Neilson racconta al capitano la penosa storia del “Rosso”, di come quello “fosse il più grazioso essere umano mai visto”. Viene quasi da gridare dallo sconcerto quando insiste a dire che egli “era unico sulla terra. Mai si era visto un essere più perfetto, sulla terra…” – e una miriade di altre vane lodi estetiche, nulla dicendo però della di lui intelligenza. Neilson mai l’ebbe visto, ma conobbe la di lui fanciulla. Ovvio che: “Non potete immaginate quale deliziosa creatura fosse…” – ed è del tutto inutile descriverla, per cui basti dire che era un essere dotato di una rara perfezione animale: “Era troppo bella per essere reale.” – capita ai vivi, ai morti un po’ meno. Lei era sui sedici, lui sui venti, e parevano destinati a quella joy for ever a cui talvolta accennava Keats.
Tót à fîn, dicono i saggi: se una cosa inizia, bene o male, finirà, in un qualche modo.
“Eppure Rosso, senza saperlo e senza che la fanciulla lo sospettasse, aveva forse già in sé il seme da cui sarebbe nata un girono la sazietà.”
Rosso fu attratto dalla notizia dell’arrivo nel porto di una baleniera inglese, che forse poteva offrirgli la possibilità di fumare del “vero tabacco”: egli era un americano e pensava di potersela intendere con quelli che, appena lo videro, così forte e rigoglioso, lo ubriacarono, lo legarono e lo imbarcarono di forza, sparendo per sempre dall’orizzonte.
La ragazza fu come uccisa da tale avvenimento. Dopo un aborto spontaneo e tre anni di ben più terribili dolori, decise di accettare la corte di Neilson e di diventare la sua donna. Panta rei.
“I canacchi sono bella gente, ma la loro bellezza è di solito bellezza di ben fatti animali. È vuota.” – Neilson cercò invano di riempirla. Ora era una vecchia sgraziata e sformata, orba ormai di tanta illusoria bellezza.
Il capitano e l’anziana donna di Neilson si scorsero di sfuggita, senza affatto riconoscersi.
Alla domanda da parte dello svedese di quale fosse il suo nome, egli rispose indicando nel proprio nome il significato della storia: in quel Rosso tutto brucia, essendo ricco di energia, ma poi ogni effetto svanisce. Anche lo svedese se ne va, dice, a trovare un fratello malato. chiede la sua donna: “Resterai via a lungo?”
Riposta: “Egli si strinse nelle spalle”.
“Quel fallito di Edward Barnard!”
Edward Barnard s’innamora di una ragazza dalla “fragile bellezza”, di nome Isabel. Amore ricambiato. Succede però un fatto. Il padre di lui, tutt’a un tratto, “si ritrovò ridotto in rovina” – e, “ritiratosi nel suo studio, si tirò una revolverata.” – ancora una volta questo micidiale panta rei, ma quando la smetterà di sparare disgrazie!
“… Edward Barnard, pallido e stravolto in faccia, si presentò a Isabel e le chiese di restituirle la parola…” – ormai non poteva più garantirle un futuro radioso. Ma lei l’ama così tanto! Lui anche, ma ora, in quell’attimo tragico, deve recarsi per un paio d’anni a Tahiti, dove un amico lo aiuterà a “cavarsela nei vari rami del commercio.”
Lei gli promette di aspettarlo e lui è felice di questa sua promessa. I due si scriveranno regolarmente. Ma ora qualcosa di strano dà da pensare a Isabel e al miglior amico di entrambi, Bateman Hunter, anch’egli segretamente innamorato della ragazza. Edward, nelle sue lettere, non accenna a un ritorno, anche se i due anni sono ormai conclusi. Inoltre Bateman ha scoperto che l’ormai distante amico è stato licenziato: “Dicono che si dimostrava pigro, svogliato e incapace”.
Bateman Hunter decide di andare a Tahiti per vedere chiaro in quel garbuglio di notizie allarmanti. Lo incontra e l’impressione che ne ricava è di un uomo che è sufficientemente contento della sua mediocre posizione sociale ed economica.
Dice Arnold Jackson, zio di Isabel, che è colui che sta ora aiutando Edward: “Capita assai di rado di trovarsi dinanzi al bello. Guardatelo bene, Mister Hunter, perché quanto vedete oggi non lo vedrete più. Il momento passa, ma quello che si conserva in cuore non muore mai. Voi stringete un legame con l’eternità, in questo istante.” – che è soltanto un attimo indivisibile e imperscrutabile, dicono i fisici e i filosofi, che a volte tirano un po’ a indovinare.
Jackson è un simpatico pregiudicato che ama la vita e che è riuscito a trasmetterne il sentimento a Edward: l’esatto contrario di Bateman, il quale è sempre assillato da pensieri etici e sociali.
Chiede Edward a Bateman: “Arnold Jackson è un uomo cattivo che fa delle buone azioni o è un uomo buono che ha fatto delle cattive azioni? È una questione difficile da risolvere. Forse nella vita si distingue troppo fra un uomo e un altro. E forse i migliori tra noi sono dei peccatori e i peggiori dei santi, chi può dirlo?” – Bateman no, io neppure.
In quell’isola, dice Barnard: “ho imparato a leggere per il piacere di leggere. Ho imparato a parlare. Sai tu che parlare è uno dei più grandi piaceri della vita?” – la comunicazione ti fa sentire collegato a qualcosa di immenso, di eterno, anche se fugace. “Ma richiede tempo. Richiede che uno sia in ozio.”
Di Isabel era davvero innamorato: “Credevo che fosse la migliore creatura della terra.” – ora nei suoi pensieri c’è la giovane Eva, figlia di Arnold, di fatto cugina di Isabel, che “è come un bel fiore esotico che bisogna tenere al riparo dal vento.”
Edward non si sente “affatto un fallito”, ma un amoroso giardiniere della propria esistenza: “Trasformerò un deserto in un giardino”. Egli cerca la felicità, e pensa di non essere lontano dalla meta: “Non serve a nulla conquistare l’universo se ci si rimette l’anima. E io la mia anima credo di salvarmela.”
Bateman torna dalla sua amata Isabel, a ritrovare la sua, rinvenendola dov’era sempre stata, e del tutto gemella, come si suol dire. E tutti vissero per anni e anni felici e contenti, ognuno a modo suo.
“MacKintosh”
Walker era uno strano tipo che era “scappato a quindici anni di casa per amore del mare” e che aveva per tutto un anno fatto lo spalatore di carbone. Era quello che si dice “un soldino di cacio e gli uomini dell’equipaggio lo presero a voler bene, ma il capitano, per qualche sua ragione, non poteva soffrirlo.” – per fortuna, però, nei libri Maugham e a volte nella vita succede l’imprevedibile: Walker vince alle corse “una somma che superava le mille sterline”.
Al che l’intraprendente ragazzino compra la nave, caccia a calci nel culo il capitano che tanto ce l’aveva con lui e diviene il nuovo capo da rispettare.
Quando vede tutti i libri di MacKintosh gli chiede “Perché diavolo vi siete portati dietro tutta questa chincaglieria”; al che lo scozzese ammette che ama i suoi libri e che non può fare più a meno di loro. Walker non va tanto per il sottile, quando prende a male parole MacKintosh: gli dà del “cretino matricolato” perché quello non ama i romanzi polizieschi, e poi gli dice con scherno: “Per far accorgere uno scozzese di uno scherzo ci vuole un’operazione chirurgica!” – un’offesa che può essere trasmettibile a ogni genia di umani.
Questo ex bambino difficile, ora potentissimo amministratore dell’isola, tratta i suoi abitanti come si fa con gli animali da soma e coi cani: “Non era uomo da resistere alla tentazione di infierire contro il vinto e se gli presentava l’occasione di umiliare entro l’amarezza della loro vergogna gli abitanti di Matautu non se la lasciava scappare. Li riduceva così alla disperazione, li avviliva.”
Per uno scozzese come MacKintosh quell’isola era un carcere: “C’era un sole spietato che gli faceva agognare la pioggia, pur sapendo che la pioggia non avrebbe portato nessuna frescura, che avrebbe reso anzi l’aria più calda, più soffocante.”
Walker, pur vedendo uno a uno tutti suoi ridicoli difetti, voleva bene a quell’uomo che, dal canto suo, “avrebbe voluto ucciderlo! Sì, ucciderlo!” – tanto era insopportabile. “Walker si mise a schernirlo, provocando piccole risa soffocate.” – e quello “covava rabbia”.
Qualcuno che ne cova ancora di più e che è più deciso dello scozzese, colpisce a morte Walker, il quale riesce ancora a sparare qualche battuta: “Siete un buon diavolo, Mac, sì un buon diavolo… Solo che non bevete!…”
Dopo averli martoriati in ogni modo, raccomanda a Mac quei selvaggi: “L’importante è che li trattiate con benevolenza. Sono dei bambini… Siate fermo, severo, ma buono. E siate giusto. Io non ho mia profittato d’un soldo con essi…” – Uhm! Sarà!
E tutto è bene quel che scorre bene! È morto Walker, viva MacKintosh!
“Il velo dipinto” e questi tre racconti sono collegati da un medesimo filo che purtroppo è sepolto da così tanti veli che faccio fatica districarlo. Ecco, forse ne ho individuato un capo, che purtroppo risulta mozzato. Alla fine ne trovo altri tre, tutti recisi in un punto; ormai sono soltanto fili senza più alcun rapporto con la loro funzione originale.
In ogni racconto c’è chi ama i libri e chi disprezza chi li ama. Sarà capitato anche all’autore (a me sì)?
È strano che i destini (alcuni casuali, almeno apparentemente, altri fortemente voluti) di queste maschere, di queste persone, di questi individui si compiano per lo più lontano dalla madre-patria (non si capisce a quale dei genitori principalmente si riferisca l’espressione). Usciti dal grembo materno cercano Altrove la loro Storia, che inevitabilmente rinvengono nella polvere.
Accade che s’innamorino e che quell’amore si riveli quello che, più di ogni altra passione, è fondata sull’illusione, che è bene velare, ma se sei curioso, per vedere, quale sarà la pur provvisoria fine di ciascuno di loro, dovrai sollevare quel velo…
No! Non farlo!
Fallo! Non temere!
Né dovrai contare sull’eternità di quel folle sentimento, ché esso si spegnerà al più presto, prima di qualunque altro, per poi riaccendersi di lì a poco. E allora perché confidarvi ancora? E perché no?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
William Somerset Maugham, Il velo dipinto, Mondadori, 1964