“White mirror” di Gian Mario Anselmi: le serie TV nello specchio della letteratura

“… ogni narrazione, anche la più dura, prende avvio da lì, da quella sera e da quel mattino, nessuna tenebra potrà mai spegnere le stelle che si sono accese all’inizio dei tempi.” – dai, speriamo che sia così!

White mirror di Gian Mario Anselmi
White mirror di Gian Mario Anselmi

Se tutto nasce da quel conflitto, esso sarà sempre teso verso l’illimitato, non infinito, cosmo che, avvolgendoci, ci pervade, di cui un esempio è la miriade di opere che, nel primo capitolo, sicuramente affaticandoti, ti sei divertito, a indicare al piccolo fruitore che sente che mai sarà in grado di leggerle o vederle tutte, racchiuse in un libro o proposte in uno schermo. Abbiamo tutti “bisogno di ‘sognare’ ancora, non per mera evasione ma all’opposto per ansia di libertà” – che è in fondo il vero bisogno di evasione, non dalla realtà, ma dalla paura che ci trattiene, facendoci fremere, ora che le vecchie ideologie e religioni hanno dimostrato non le loro falsità (che sarebbe già un successo), ma le loro criticità, per cui potrebbero sul serio caderci in testa da un momento all’altro, come una fitta pioggia di meteoriti. Una confessione: ho sempre amato la letteratura d’evasione, quella vera, di Papillon e di Felix Milani. In Il forzato lessi che, tatuata sul petto dell’autore, era la scritta Mon droit forçé. Al che io aggiungevo mentalmente: Mon droit liberté!

“… il ‘gioco’, straordinario e imprescindibile percorso di formazione del bambino si accampa come una nostra precipua cifra antropologica…”attività seria e responsabile, nonché doverosa, l’unica concepibile in un mondo libero, l’unica che ci possa far fantasticare che possa esistere tale mondo. Che sia poi illusione o realtà lo si scoprirà solo giocandoci.

“Chi racconta manda segnali…” – si esprime, comunicando una parte di sé all’Altro. Premetto che, dopo un’infanzia passata a trastullarmi col pallone, a giocare a nascondino e a guardare la televisione, a un certo punto ho cessato di compiere queste azioni, rifugiandomi nella lettura di fumetti e di libri, attività che rientra tuttora nel mio sforzo di comprendere il cosmo e i suoi abitanti, che amo compiere da solo, senza alcun homo sapiens tra i piedi. Vivendo per lo più (non del tutto, diciamo abbastanza) solo da alcuni anni, non guardo né la Tv, né vado al cinema, preferendo frequentare il prossimo in ambienti dove si possa conversare amichevolmente, ma non più dove si assista a proiezioni di film o rappresentazioni teatrali; con qualche eccezione, che ogni tanto mi concedo anche al fine di ricordarmi com’era il mio passato di fruitore di film e cartoni animati, di quand’ero padre di ancor teneri virgulti che mi facevano vedere cicli interi di storie di Barbie o di Shrek. Bei tempi? Sì, e cessati per sempre. A meno che… chissà! Ogni tanto però, la prole ormai cresciuta si alterna a obbligarmi a vedere con loro dei film che li hanno appassionati. Da solo non li degnerei di uno sguardo, ma insieme a loro è un piacere a cui non so rinunciare. Quando leggo, quei miei consanguinei cessano di esistere, salvo poi resuscitare se mi chiamano al cellulare per informarmi che sono desiderosi di vedermi o che necessitano di un passaggio in auto. Dopo tale risveglio torno a essere, sia pure a tempo determinato, un padre. Preciso che anche quando leggo li amo ancor più che me stesso, pur essendo un po’ distratto dall’autore di turno.

La domanda che ora pongo a me stesso: cosa cambierà del mio comportamento al termine della lettura di questo saggio? Ogni avventura letteraria muta per sempre il percorso esistenziale di chi l’ha affrontata, nonché di chi l’ha creata, come dall’illusorio nulla. Chi vivrà, scriverà, leggerà, penserà, si trasformerà e poi vedrà (forse uno schermo).

Dimenticavo di dire che il presente saggio (White Mirror) me l’ha donato (o solo imprestato, la faccenda non è stata ancora chiarita) mia figlia Anna che l’ha acquistato dopo aver assistito alla lectio magistralis di Gian Mario Anselmi, definito dalla discente come un formidabile affabulatore di vicende letterarie.

“… siamo nel mondo e al tempo stesso fuori del mondo…” – e qui individuo la differenza tra Fato e Destino. Il primo è il Dominus che c’ingiunge a scorrere dove ha deciso Lui, il Reggitore del Mondo, in cui noi stiamo espiando l’immeritata condanna d’esistere. Il secondo ci permette di dire la nostra, dopo averci avvisato dove, secondo lui, siamo destinati a finire. In genere vincono le sue previsioni, ma fin all’ultimo non è detto.

“La potenza ‘immaginativa’ (il concetto era già chiarissimo a Dante e a si suoi contemporanei)…” – beati loro! – “… ci porta oltre ogni limite e in quei mondi ci perdiamo felicemente, come accadde al Vate nell’ultimo canto del Paradiso.” – e io con lui, non secondo ma ennesimo fra cotanto senno.

Il romanziere “ha l’arma più antica e efficace di tutte: la scrittura; con le sue pause, i suoi scarti, l’insinuante precisione delle parole, la potenza evocativa dei periodi collocati…” – e qui spunta dal Nulla un’atroce Verità: “… secondo una disposizione che corrisponde a regole narrative tanto inderogabili quanto ‘invisibili’ per il lettore se lo scrittore è così abile da non esibircele artificialmente.” – e qui casca l’asino, cioè il Pioli, che ogni volta cerca un entanglement, un impigliarsi reciproco, quando gran parte dell’azione letteraria è fondata sulla mistificazione, sull’imbroglio, a volte neppure consapevole da parte dell’autore, figuriamoci del lettore.

“L’autore ‘rappresenta’ e la realtà rappresentata è sempre e comunque una ‘finzione’ o ‘gioco’…” – e mi domando se sia un giogo a cui l’autore costringe il suddetto fruitore. L’autore è sempre il Deus Dominus e il lettore è l’(in)fedele servo (a volte però hegeliano!) che ha tutti i diritti di ribellarsi, e di rintuzzare la volontà dominatrice di chi gli dice: bada bene che qui il gioco lo conduco io! E l’altro: Sì, ma prima o poi toccherà a me!

Io non so scrivere recensioni, né critiche, limitandomi ogni volta a reagire alla lettura, come fa una tigre quando il domatore usa la frusta, sbattendola irato sul pavimento, per inquietarla e quella ogni tanto ruggisce e talvolta finisce per sbranarlo. Di buono c’è questo di me, che come reagente sono un vegetariano che si nutre dell’autore che legge, ma senza che lui se ne accorga, specie se è Volato Via Colà da alcuni secoli. 

“… nessuna rappresentazione può sostituirsi (tantomeno, ad esempio, la stessa fotografia) alla realtà che è irrevocabilmente ‘altra’ come noi possiamo rappresentarla…” – è come se noi, nel vedere un laghetto alpino (il mio preferito è quello di Carezza), gridiamo Quanto sei unico!, e l’eco della nostra voce torna indietro, tanto che ci pare che sia il lago a rispondere che siamo unici anche noi. Aristotele attribuì al teatro un “effetto catartico”, che tu, Gian Mario, traduci con “rigenerativo” e che io, bastian contrario, ma per gioco, definirei “trasformativo”: E = mc2, in uno scambio fra energia e massa che mai cesserà.

Ho tralasciato la tua descrizione dell’idea di Kantche noi non sapremo mai accedere alla ‘realtà in sé’…” – in quanto quel filosofo mi ha sempre dato a che fare per la sua critica nonché logica, più re-stringente di un limone, per cui preferisco rimembrare l’insoluta domanda che Hilary Putnam si pose in Ragione, verità e storia: quanta certezza ho che il mondo esterno esista fuori dalla mia vasca mentale? E qui, dato che ormai ti conosco, a te (oltre che a me) non potrebbe che scappare un’allusione al ciclo di Matrix

“… per Aristotele (e poi per Luigi Pirandello!) il teatro ci ‘cura’…” – per cui “‘riconosciamo’ nell’arte il mondo, le creature, la direzione del senso stesso del nostro esistere…” – finendo perciò per donarci quel che la nostra limitatezza individuata da Kant ci negherebbe.  

Caro, ora mio, oltre che di mia figlia, docente: io amo contraddire i docenti. Anche per vedere di nascosto l’effetto che fa. Tu dici che il capitalismo “ha vinto la battaglia definitiva ovunque…”essendo assodato che l’1% della popolazione mondiale possiede quasi il 50% delle ricchezze. Obietto solo su quell’aggettivo: nulla è definitivo nel cuor di ‘sta terra, essendo tutto trafitto da un raggio di sole, per cui, se sarà sera a casa mia, lo sarà anche a casa degli altri. Per cui non cesserò mai di sperare che il mondo scorra, prima o poi, anche se mai definitivamente, in direzioni più eque. Sono però d’accordo con te sul fatto che, in ogni caso, “le analisi di Karl Marx sulla natura ultima del modello di produzione capitalistico siano inattaccabili.”

“… l’uomo non può ‘non sognare’, non può reggere il peso della vita e dell’essere ‘gettato per la morte’ senza nessuna ‘narrazione’ che lo conforti, che lo trasporti fuori dal mondo, che lo faccia almeno ‘giocare’ con la sua fantasia in una sorta di nuova veste dell’utopia come ansia di libertà.” – e io ora ti ringrazio, caro docente, che, mentre sto qui, abbarbicato al tuo testo, ho per la prima volta l’impressione che anche il romanzo più indegno che sia mai stato scritto, Le 120 giornate di Sodoma, opera per fortuna gravemente incompiuta, sia stato il disperato conato da parte di quel da me odiato Divino Marchese di sentirsi immortale, il cui sogno s’infranse un bel dì nel misero ospizio di Saint-Maurice, esattamente in data 2 dicembre 1814. RIP, finalmente! Era quasi ora!

“… è il vissuto di ogni singolo (più che quello collettivo) che ci testimonia e ci intriga nella fatica sempre crescente di ognuno di rapportarsi a tutti gli altri singoli…”ho appena terminato di leggere Il mondo del sesso di Henry Miller, l’autore che ho più amato, e che più ha mischiato verità e finzione, anche sconvolgendo, a suo stesso dire, l’ordine temporale degli eventi effettivamente successo, come già nella Recherche di Proust, da te citato, a pagina 15, quale autore del “romanzo forse più bello e ‘infinito’ di ogni tempo.” – come capita (talvolta) a me, tu ami usare (spesso) queste iperboli, nel definire le opere che hanno segnato la tua (nonché la mia) vita. Forse non è professorale, ma è umano, che se permetti è un termine dotato di una qualità superiore a tanti altri (ma non a tutti!). Anche nella mia scrittura, come nella tua, abbondano gli !.

“… il narratore è una ‘bussola’ ma il lettore/spettatore è al timone insieme al narratore.” – e qui, credimi, sfondi un lettore che più spalancato non può essere. Ahio! Dicono che solo la prima volta faccia male! Sarà vero?!

Gino Ruozzi
Gino Ruozzi

“Il passato ci intriga da quando sono nati i consorzi umani come tali: ogni civiltà anche la più remora aveva miti e leggende ‘fondativi’ e a quel passato riconduceva la propria identità.” – il che è tanto vero quanto drammatico. Riusciranno i nostri eroi a leggere tutto quanto è stato scritto dagli umani? Un giorno espressi questo mio angosciante interrogativo a un certo Gino Ruozzi, uno studioso che mi pare che tu conosca bene, e lui, con la sua (quasi e forse un po’ simulata) atarassica seraficità, che non so se ammirare o giudicare insana, mi fece capire che non era un problema: ovviamente non lo disse in maniera evidente, ma si limitò a un’impercettibile piega del viso.

Nelle ultime pagine del primo capitolo, intitolato Ciak! Si narra, tu mi colmi di una così ingente cifra di opere letterarie e filmiche, nonché di fumetti (di cui sono un avido lettore) che ormai non mi ci raccapezzo più. Mi avvolgi con tutto quel khaos narrativo, quel “patto finzionale” e quella “sospensione dell’incredulità”, su cui medito mentre precipito nell’abisso, salvandomi per un pelo, come capita talvolta a Tex Willer, che riesce sempre a penzolare da un salvifico ramo, grazie alla saggia decisione di riporre il volume e di rifugiarmi tra le tiepide braccia di Morfeo.

Il secondo capitolo è Serie TV e letteratura: nuove frontiere narrative.

“Come è ormai evidente a tutti, siamo avvolti, nel nostro tempo, accentuati negli ultimissimi mesi della pandemia, da due imponenti fenomeni globali…” – che sintetizzo: uno è la “perenne colonna sonora che ovunque ci raggiunge…” – specie se in macchina convivo con un consanguineo di giovane età; l’altro è “l’estensione straordinario delle serie cosiddette TV…” – che potrebbe entrarci in corpo “da ogni possibile device digitale…”. Inoltre: “è entrato definitivamente in crisi il modello delle ‘forme brevi’…” – e prima o poi sarai costretto dirlo a quel Gino Ruozzi, che è lo strenuo difensore di aforismi, favole, apologhi etc, che tu citi, e che o si adegua o si adegua!, non avendo più scelta, oppure, in alternativa, può fare come me che, mentre decido sul mio futuro, continuo a operare delle scelte personali e sacrosante, ma rischiose. A volte uno si sente appartenere a un altro mondo. Quale dei due sia distopico, non si sa. Tutto è ormai smisurato, come l’animale più lungo che ci sia, che non è la balenottera azzurra, come credevo fino a qualche tempo fa, che supera di poche spanne i trenta metri, bensì la Cyanea capillata, una medusa i cui tentacoli superano a volte i quaranta (a dire la verità non più di 36/37 metri, ma l’aggiunta, si sa, la danno anche i macellai!; la giùnta la dàn ânch’i pchêr). A parte gli scherzi. Non è però una novità: Sentieri, la soap opera che tanto piaceva a mia madre, esordì alla radio nel ‘37, giungendo in TV nel ‘52, dove terminò il suo iter nel 2009. Aspettando il domani iniziò nel ‘51 terminando 35 anni dopo, mentre in Italia durò soltanto dall’‘82 al ‘94: sic transit gloria novellae. Un posto al sole, imitazione italica che tu citi, e che io guardai essendo convolata a giuste nozze (antifrasi) con un’amalfitana, dura dal 1996 (4 anni dopo il mio matrimonio) e zia Wiki mi dice che al 23 dicembre 2022 le puntate trasmesse sono 6.095. O tempora o soap operae!

“I risvolti economici sono evidenti. Gli editori cercano sempre di più di pubblicare romanzi di cui poi si possano vendere i diritti per produzioni filmiche o teelvisive a puntate.”Kafka non ce l’avrebbe fatta a pubblicare alcunché, men che meno Borges, Proust sì, Joyce sì, qualcosa, non tutto. Non so Henry Miller o Kerouac, ma Bukowski, che tu citi a pagina 19, secondo me sì. A ripensarci, Kerouac sì, magari con la regia di Peter Fonda. Ferlinghetti di Her (me lo imprestò negli anni ‘70 il buon Gino) no, Perec no, Celine qualcosa, ma ho qualche dubbio. Secondo me, anzi, ne sono certo, Zafón. Quattro quinti della produzione mondiale di capolavori sarebbe rimasta inedita. D’ora in poi ci si dovrà adattare a ‘sto bieco andazzo.

Ti suggerisco, per un’eventuale riedizione del saggio, Vikram Seth autore indiano di un libro meravigliosamente quasi interminabile: Il ragazzo giusto, che solo all’ultima puntata, pardon, nelle ultime pagine, il lettore scopre chi diavolo egli è: agathachristianamente il meno sospettabile! E non era manco il maggiordomo!

Mia figlia, che tanto ti ha ammirato nella tua lectio, sta monitorando la mia lettura ed è rimasta contenta quando le ho detto che, fra Introduzione e primo capitolo, ero arrivato a oltre due pagine di reazione. Un po’ meno quando le ho confessato che il secondo capitolo mi ha leggermente tediato, non perché la tua scrittura sia stata noiosa, ma lo è stato attestare senza ombra di dubbio quanto sono ignorante, quando tu sei così edotto. Ma come fai a trovare il tempo a seguire tutto? Ti giovi della collaborazione di alcuni attendenti, I hope, oppure sei uno stakanovista sia della lettura che della visione filmica/televisiva? Io gioco l’ultimo rublo zarino che ho sulla seconda ipotesi. Grazie a te scopro, socraticamente, di non sapere quasi nulla di quanto viene proposto nei vari canali televisivi e negli streaming, che sono in genere di origine straniera e fondati su un budget che pare simile al cosmo in cui esistiamo: senza limiti e sempre in crescita. Non t’offendere per quanto ho scritto. Sono contento di aver letto il capitolo, di averlo concluso e di transitare ora al terzo.

Ti faccio una confessione. Da ragazzino (Gino lo può confermare) non ero troppo normale, ma normalmente seguivo la TV e andavo spesso al cinema, mentre ora non più. Non vedo più nemmeno le partite di pallone; anche se tu m’insegni che sono tutte storie diverse e intriganti i vari match di calcio, di pallacanestro, di pallavolo, di pallanuoto, di hockey su prato, su ghiaccio, su rotelle, di tennis, di ping pong, di boccette, di bowling etc… (come vedi anch’io so compilare lunghi elenchi, come fai tu). Per quanto riguarda i Mondiali del Qatar (affettuosamente avvisato da zio Google), mi sono collegato in data 17 dicembre 2022 con lo stadio Lusal, giusto in tempo per assistere agli ultimi quattro rigori che hanno sancito la vittoria dell’Argentina di Borges sulla Francia di Mallarmè, non di Rimbaud, che era impegnato Altrove: Je est un Autre, soleva dire quell’epoux infernal.

Due serie ho seguito con sincera passione quando il germe della lettura aveva già invaso le mie prime vie respiratorie: Startrek, nella sua prima, sensazionale (anche io amo esagerare!) edizione col capitano Kirk, iniziata in U.S.A. nel ‘66, da me vista a metà degli anni ‘80; e Kung Fu, con David Carradine, girata negli anni ’70 e da me amata sul finire degli ‘80. Dentro di me mi sentivo parte dell’equipaggio dell’Enterprise, nonché allievo della scuola shaolin. Non mi sentivo però né Spock (che tanto ammiravo, più di tutti gli altri), né il fin troppo mite e assai duro nel colpire, Kwai Chang Kaine, forse in assoluto il mio eroe preferito della (mia) Storia, a pari merito con l’invincibile Tex Willer, di cui posseggio tutti gli albi, come pure di Dylan Dog, del “geniale” Sclavi, che tu citi tre volte! Per questo, alla fine, ho quasi amato questo tuo secondo capitolo, così interminabile e sovraccarico di informazioni. Ah, dimenticavo. Ero sotto la naja, nel 1979, a cui sopravvissi più o meno serenamente anche grazie a Fonzie di Happy Days, che riuscì persino ad addolcirmi la lettura di Soviet Marxism di H. Marcuse: che saggio pesante che era! Mica come il tuo, moooooolto di più!

Ovviamente il terzo capitolo, La storia e le storie, mi ha fatto quasi stramazzare, per cui subito dopo la sua lettura a sûn turnê a durmír, in arşân, bello quella particella clitica, eh?, su iutu a curca, in pixuntianu, so’ iuto a cuccà in amalfitano. Dopo aver ronfato per circa sette ore e mezza a m sûn scetê (participio passato sorto dalla contaminatio dei suddetti idiomi) e ora, più che vispo, sono pronto a reagire.

“Appoggiarsi perciò alla Letteratura consentiva di irrobustire e sperimentare i linguaggi televisivi avendo a fianco straordinarie partiture narrative ‘sicure’ e capaci di coinvolgere pubblici numerosi nell’eterno gioco dell’immaginario e dello storytelling…”che è l’arte di narrare di Dickens, che era uno storyteller senza saperlo, come quel personaggio di Moliere che scoprì a tarda età di saper parlare in prosa.

In ‘na mescaa Francesca, che ad Amalfi ho sentito dire mischia Francischia, ma forse non ho udito bene, fra queste “nuove potenzialità narrative digitali e radici letterarie”, oggi si può ri-scrivere di tutto, anche quello che non fu non solo mai scritto, ma nemmeno immaginato, sempre facendo riferimento all’assodato e mai vecchio, anzi, sempre arzillo e funzionale umano pensiero. Ricordo due generi del passato: quelli che il mio Carmelo Bene, che tu citi a pagina 73, definiva i vostri stupidi sceneggiati, per esempio La cittadella, E le stelle stanno a guardare, I Fratelli Karamazov, etc etc, e il teatro del venerdì sera, che i miei guardavano e che mi costringeva ad andare nella mia camera da letto a leggere gli smilzi albi di Capitan Miki e di Blek (allora c’era a casa un solo televisore).

Due sceneggiati mi avevano catturato e angosciato: Il segno del comando e, ancor di più, Jekyll, trasposizione del romanzo di Stevenson, anzi, dello strepitoso romanzo cult del geniale (ormai anch’io dispenso lodi sperticate come se fossero cagnetti) Robert Louis Stevenson, interpretato da uno fenomenale Giorgio Albertazzi. Ma chissà perché quella y? Tu senz’altro lo sai. Ancora ricordo quella ragazzina, forse mia coetanea, che tremava come una foglia dopo che aveva incontrato in strada quel mostro sgorbiesco, quello sgorbio mostruoso, e aver provato un terrore primevo.

Dopo aver prodotto alcune centinaia di reazioni a testi letterari, ho notato che tendo a trasformare il mio stile affabulatorio in base a quello adottato dall’autore. Leggendo Miller divento milleriano, leggendo Barrie divento Peter Pan. Un po’ come accadeva al mio Woody (Allen) in Zelig (1983). Sembra che ti stia prendendo in giro, ma in realtà ciò è vero solo nella misura del 18%. Non vorrei inoltre che tu pensassi che il sottoscritto, che si recò 3-4 volte all’ateneo bolognese, e poi si disse che non valeva la pena perdere tempo con viaggi in treno e studi accademici, quando aveva a casa tanti libri da leggere, osi prendere in giro una persona come te, la cui quasi infinita cultura lo sta letteralmente seppellendo (e quasi soffocando). Solo nella misura del 12%, massimo 13, ti giuro. Pensa che ora mi sto accingendo a sconfessare le parole di un letterato dallo scarso talento come Orazio, precisamente il suo detto che tu riporti a pagina 73-74: “Ut pictura poesis”, che “significa alla lettera ‘come nella pittura così nella poesia’ la poesia è come un quadro e viceversa.” In realtà, più che falsificarlo popperianamente, lo integro con un avverbio temporale: talvolta, anzi con due: interdum, saepe.

Il poeta che scelse me come suo umile devoto è Arthur Rimbaud, il più simbolista della storia (altra mia esagerazione), che forse pensava che gli altri più che capire le parole dovevano innanzi tutto vederle. Ebbene, anche lui non era sempre immaginifico (appellativo che poi si attribuì a D’Annunzio). Il suo verso che preferisco è: Asse vu, la poesia che più amo è la pur breve Départ: “Assez vu. La vision s’est rencontrée à tous les airs./ Assez eu. Rumeurs des villes, le soir, et au soleil, et toujours./ Assez connu. Les arrêts de la vie. –  O Rumeurs et Visions!/ Départ dans l’affection et le bruit neufs!”

E certo ammetterai che sarebbe difficile riprodurre filmicamente o anche pittoricamente queste sue visioni, ottenimenti, ri-conoscimenti, questi suoi satori parigini (chi sto citando? ma Kerouac, ovviamente!). Tieni presente che, prima di addormentarmi, io talvolta penso a les mains de Jeannie-Marie, come se fossero lì, pronte a stringere le mie! E a chissà quale altra putrida azione! Certo che se Arthur e Orazio s’incontrassero… e magari proprio ora sono seduti Colà, a sorseggiare assenzio, nel medesimo e celestiale bistrot!… In cui ci vedremo un giorno, tu, Gino, Arthur, Orazio e il sottoscritto. Henry no, perché sarà andato di certo, per caso, a f…!

Una mia amica scrittrice, Paola Ranzani, mi disse che amava le mie reazioni, anche se o forse per il motivo che amo levarmi in alto nei cieli, per poi sprofondare quasi subito dopo nel fango, così disse!, al che le risposi che anche il fango, che in arşân si dice pliccia-e-ploccia, ha un suo valore: Adamo non fu forse creato utilizzando della mota del Lazib?

Tu spieghi che non si tratta di “una semplice sommatoria ma una nuova modalità di raccontare storie attraverso la peculiarità dei due linguaggi.” – questo per tornare al discorso di prima che avevo colpevolmente, per un paio di minuti, abbandonato a se stesso. Raccolgo come un bene prezioso le elargizioni che mi fai, a partire da pagina 78, relative all’uso televisivo “di alcune peculiari tecniche cinematografiche per altro in parte anch’esse derivate da particolari formule narrative della letteratura.” Nelle pagine precedenti trattavi del “primissimo piano”, citando come “maestri insuperabili e insuperati di questa tecnica Jane Austen, Marcel Proust, Lev Tolstoj, Vladimir Nabokov, David Foster Wallace”, ma anche poetesse e poeti come Emily Dickinson, Alda Merini, Umberto Saba…”. Ma soprattutto lui: Proust, autore di un’opera che nessuno, finora, “neppure Visconti, è riuscito a trasporre” in un film. E nessuno forse ci riuscirà mai, nemmeno con un cartone animato o con un graphic novel. Forse: mi aspetto di tutto ormai.

Le tecniche che ora esamini sono il “piano/sequenza” e “la ‘dissolvenza’”, citando, come esempi letterari, per la prima, la Austen, Tolstoj, Dostoevskij e Proust, ma anche Foster Wallace, che purtroppo ignoro; e, per la seconda, l’Ariosto e il Manzoni. Poi parli della musica ma, essendo io un incolto nel genere, preferisco consigliare al mio eventuale lettore di leggere le pagine 79, 80 e 81 del tuo mirabile saggio.

Interessante è la questione dell’autore unico, non più esistente ormai, nonché questa figura che non conoscevo, lo “showrunner”, che è il Dominus, a quanto ho capito, “il responsabile primo del procedere del lavoro”, carica rivestita spesso da chi opera nel team “di sceneggiatori/scrittori”.

Ancora: “le Serie TV oggi più che mai amano giocare coi ‘tempi narrativi’”, cioè col “flashback”, il quale, pur talvolta “davvero estenuante e fastidioso”, conduce alla “narrazione infinita”, la quale “tutto permea e tutto si intreccia grazie soprattutto allo sviluppo impressionante dei nuovi media e della Rete e al rimescolamento degli stessi generi nel ‘gioco della letteratura’” – poiché vi è contrasto fra “la brevità e velocità fino al limite della pura enunziazione” dei vari social, “che nulla ha a che spartire con l’eleganza della ‘forma breve’ per eccellenza ovverlo l’aforisma (su cui si vedano i tanti studi ed edizioni per cura di Gino Ruozzi)…” – a proposito dello studioso testé citato, non credo sia tecnologicamente possibile concepire un social a cui egli si senta in dovere di accreditarsi… Ah no, che stupido sono, uno c’è: Whatsapp!

Alla fine del paragrafo, tu parli del “vero melting pot narrativo”, a me piace di più crogiolo, che meglio crucia nel fuoco, “di linguaggi fra loro in continuo scambio”. E poi citi, non a caso, Quentin Tarantino, e i “suoi film (o metafilm?)”. Nulla ho da dire in riferimento alle pagine seguenti del capitolo, a parte un breve accenno al serial coreano Squide Game, che ebbi la (s)ventura di intravedere grazie a mia figlia, precisamente la sequenza in cui a un bieco carceriere viene tolta la maschera, per cui egli si rivela un giovane innocente, che potrebbe essermi figlio! Che orrore, altro che Jekyl! Ma chissà perché, mi chiedo ancora, quella y!

Il primo libro che lessi, a sette anni, per obbligo scolastico, fu Pinocchio. L’anno seguente toccò a Cuore. Un decennio dopo, lessi quindici volumi di Salgari, su richiesta di mio padre, che mi promise una bici al trentesimo, al che, dopo il 15esimo, dissi a papà che preferivo andare a piedi tutta la vita piuttosto che continuare in tale folle avventura. Qualche anno dopo, lo stesso amorevole genitore riuscì a convincermi a leggere L’idiota, impresa che iniziai obtorto collo, e che mi fece conoscere una delle tre o quattro opere che cambiarono la mia vita, poiché mi convinsi che quell’idiota ero io: le Prince Myskyn c’est moi! Poi lessi i suoi, di papà, ma che poi divennero miei, Martin Eden e L’uomo che ride. Tutte opere di un passato, per me, lontanissimo. Anni fa lessi I ching e, tre anni fa, La storia di Genji di Murasaki Shikibu, autrice giapponese dell’XI secolo, dell’epoca Hejan, che chissà chi era poi… Eppure l’ho letto, apprezzato, reagito.

Mi chiedo ora se i coetanei dei miei due figli sappiano chi sia Anna Magnani, che un po’ assomigliava, nella verve, a mia suocera.

Scrive Luciano Floridi in Etica dell’intelligenza artificiale: “Le generazioni future non sapranno mai com’era una realtà esclusivamente analogica, offline, predigitale. Siamo l’ultima generazione che l’avrà vissuta.” – quello e tanto altro (tipo rincorrere in estate le lucciole). Chi saprà ancora gioirà per lo sketch di questo è… (un ombrello) di Totò?

Sono felice di aver fatto conoscere a mia figlia (o è stata lei a propormelo?) la serie di telefilm che tanto, nella mia infanzia, m’inquietavano già a partire dalla sigla: Ai confini della realtà (The twilight zone, del 1959). Ne abbiamo visti insieme cinque o sei, uno più distopico dell’altro.

A pagina 109 citi la “famosa serie britannica Black Mirror (2011-2019)”, anch’essa distopica, a quanto dici. Quello specchio cosa riflette, il buio? E il tuo, la luce? Preferisco il tuo, almeno per ora. Io amo i colori, ma anche l’oscurità. La cosa migliore mai rinvenuta è la Luce nell’oscurità, tanto per citare una silloge di testi di Gloria E. Anzaldúa.

Tu sei un ottimista, che vede il bello anche nella più tremenda angoscia, quella che reca un panico che sale dal deretano (allegoria dantesca, dai!) e così concludi il capitolo: “Davvero allora l’intreccio di nuove, infinite (grazie al digitale) potenzialità narrative arricchite da vivaci tradizioni letterarie e romanzesche ci lascia intravedere la rivoluzione in atto nelle modalità del nostro stesso discorrere del mondo.”Amen e Così sia!, espressione tipica del Kit Carson bonelliano.

Hai capito che intendo? Sono tutti così bravi e così in tanti in grado di costruire nuovi mondi, riassestando quelli vecchi, che nessuno ha più il tempo di vedere com’era stata concepita originalmente la Capanna dello zio Tom! Tu sì, mio Prof, ma quanti Gian Mario Anselmi (o suoi Avatar?) ci saranno in futuro, quanti ricercatori del passato, nonché sognatori del futuro, ma così meticolosamente ingarbugliati al presente? Non nel senso di ingannati, ma come si può imbrogliare il filo di una matassa.

Il quarto capitolo discetta della Divina Commedia quale fonte ispiratrice degli horror. Riferendoti al Purgatorio, scrivi che “certe topiche interpretazioni in chiave sostanzialmente ‘idillica’ di questa cantica andrebbero – credo – rivisitate dalle fondamenta.” – anche da più in basso forse. Ma chi avrà ancora il (sempre più maledetto) tempo?!

“… poi Hannah Arendt darà piena dignità filosofica, della ‘banalità del male’” – come insegna il Professor Salvatore Patriarca in Elogio della banalità, essa rappresenta il modo più sonoro di dire il vero, derivando da banal (francese), ban (germanico), bannum (latino medioevale), da cui il bando, che era il modo del signore feudale di diffondere la sua norma, la quale, una volta acquisita, diventa banal, cioè comune, a disposizione di chiunque.

Il male è utile, tanto che a volte lo si definisce necessario. Il dolore è un sintomo che aiuta il medico a curare l’ammalato. Non credo esista un male fine a se stesso, semmai può essere irragionevole. Come pure un bene eccessivo, se ci pensi.

Senza un conflitto fra questi due estremi, non può sorgere una collaborazione fra gli stessi. Il mondo va avanti, panta rhei, grazie alla collaborazione locale e temporanea delle due forze antagoniste: gravità tendente all’ordine ed entropia tendente al disordine. Senza il conflitto, nessuno scriverebbe più, cessando tra l’altro di esistere.

Gian Mario Anselmi
Gian Mario Anselmi

È azzeccato il tuo riferimento alla Divina Commedia come riferimento all’horror. E anche la discesa agli inferi nell’Odissea e nell’Eneide. E io sto ora pensando a Peter e Wendy e alla sparizione dei tre figli dell’amorevole famiglia Darling! Ricordati che l’energia e la massa di un corpo sono regolate dalla già citata equazione einsteniana: E = mc2, e che panta rhei, in un senso o nell’altro. Ringrazio il linguista Raffaele Simone che un giorno mi corresse, e da allora ci aggiungo sempre questa salvifica h, la cui necessità fu confermata da mia figlia Anna. Quella r è davvero dura e intransigente!

Non c’entra nulla con ‘sti discorsi, ma com’era bella l’Odissea dei registi Franco Rossi, Piero Schivazappa e Mario Bava! La rivedrei volentieri in streaming! Come pure l’Eneide, sempre di Franco Rossi, con quel Giulio Brogi nel ruolo di Enea, ripreso per lo più di profilo, algido ed enigmatico. Mi fa sorridere attestare come quei due capolavori filmici siano definiti da zia Wiki anche miniserie televisiva, e non semplicemente sceneggiato.

In finire di capitolo citi L’urlo di Munch. Posso citare un po’ Howl di Ginsberg?

“I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving histerical naked” e poi la ricordo in italiano: “trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”. Ciao Allen, ti voglio bene! E sempre te ne vorrò!

Il quinto capitolo tratta il Narrare gli estremi confini del mondo e della paura. Bella questa descrizione: “in questo mondo dove tutto è comunicato ma poco è conosciuto davvero”, in questo mondo dove tutti, me compreso, scrivono e leggono dai cellulari. Anche, sia pure a rilento, quel Gino Ruozzi, impegnato sempre com’è in infiniti studi e convegni vari.

In questo mondo tapino e dalla sorte incerta, ha un grande valore l’affermazione: “ciò che si guarda è ciò che ci riguarda”, perché come diceva Tozzi, Umberto non Federigo, Gli altri siamo noi.

Questo mondo mi fa davvero tanta paura. Agli altri no? Pensa che tu, Gino e io non abbiamo perso nessuna guerra perché non ne abbiamo combattuta alcuna. Ma ci è sempre bastato accendere il video e ne abbiamo intraviste finché ne abbiamo volute, soprattutto quelle che abbiamo odiato.

Ricordo un’immagine della guerra del Kippur, dell’ottobre ‘73: un braccio solitario che apparteneva a chissà chi, amputato da un ordigno, immagino, lasciato a macerare nel deserto. Non è una fantastica immagine horror? Che ne era del suo proprietario? È mai tornato a riprendersi l’arto? È mai tornato da qualche parte?

Parli delle memorie di chi ha viaggiato, anche in foreste, poli ghiacciati e tundre varie. Penso sia una mia fantasia: memoria in arşân si dice marmôria. Memoria deriva da un termine greco che significa pensiero, ancor prima dal sanscrito smàrati. Marmo viene dal greco marmairō, scintillio. Il pensiero scintilla per poi mamorizzarsi nella memoria. Scrivere è far sopravvivere nella memoria, possibilmente incidendo le parole nel marmo. Scrivere è sempre salvare l’esistenza di qualcuno!

Tu citi la mia Agatha Christie, ma non il mio Cornell Woolrich. Immagino sia una dimenticanza. Pensa che anche due giallisti che ho incontrato (uno dei quali l’hai citato) parevano ignorarlo o averlo disperso nell’oblio. Roso, come dai topi, da infiniti dubbi, mi interfaccio via whatsapp, frase che mia nonna Linda non capirebbe, con Denis Ferretti, il massimo grammatico reggiano vivente, il quale mi consiglia di vedere se c’è malmôria sul Ferrari-Serra. Marmôria non c’era, ci avevo già guardato. E… c’è: malmôria, marmôria sf (arc.) memoria! Vengo tra l’altro a sapere da Denis qualcosa della sua amata nonna che mi dà da pensare, e precisamente questo:

“Siccome odiare è un verbo poco usato, oggi è talmente diffuso il ‘modernismo’ mé () ôdi, che la forma corretta antica, ‘mé j ôdiì’ stonerebbe alle orecchie di tutti. Il clitico davanti a vocale sarebbe j. Ma oggi è rimasto quasi solo col verbo avere perché è usato ininterrottamente da secoli (mé j ò vést, mé j ò fât, ecc). La semi vocale j aveva la funzione di far sentire il clitico, perché con due vocali vicine, per la nostra fonologia c’è elisione e una non la senti. Quindi il clitico sparisce. Mia nonna diceva anche mé j andêva… Oggi si sente quasi sempre me (a) andeva, come se il clitico non ci fosse.”

Il clitico andrebbe protetto dalla Lipu, essendo lì lì per estinguersi.

A lui, e a te, Gian Mario, dedico questa mia mediocre poesiola: “Mé ôdi la Storia/ Ma a gh ò bişògn/ Dl a só marmôria”.

A questo punto ti notifico un presunto refuso a pagina 18, anche se ho delle serie incertezze a proposito, e ne parleremo a voce, se vuoi.

Ma come sono belli questi ossicini che chiamiamo parole! Con quegli degli antenati possiamo persino indovinare il futuro! Verba volant, scripta manent, facendo discutere, prese in mano una a una.

In un incontro serale presso un circolo reggiano, uno scrittore da te citato ha detto che i personaggi della serie TV, ispirata ai suoi noir, parlano in modo non tanto banale, quanto dozzinale, un tanto ogni 12 pagine?, in quanto, come gli hanno spiegato gli sceneggiatori, così pretende il cliente/spettatore, qui da noi, almeno in Enotria. Altrove, non si sa. La cosa non garba granché all’autore, ma anche per lui vale il detto vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole, e più non dimandare.

Quando lessi Viaggio al termine della notte di Celine, notai con sgomento che ogni capoverso era un capolavoro. Quando lessi Appuntamenti in nero di Cornell ebbi la medesima impressione. Egli scrisse La finestra sul cortile che ispirò il fim di Hitchcock e La sposa era in nero, di cui gli fu debitore Truffault. Leggi o rileggi tutti i suoi libri (dato che hai tempo: battuta), ti prego, e parlane il più possibile. Ti scongiuro! Egli fu definito il Poe del XX secolo. Ma lui era Woolrich, nonché Irish, nonché Hopley. Soffia anche per lui il tuo spirto vital! Solo dopo aver letto, pensa te come sono messo…, De Sanctis, Gramsci e i pro-nipotini di padre Bresciani di Raul Mordenti mi sono degnato di divorare (reagendo poi come un matto) Lettere dal carcere di Antonio Gramsci!

Leggendo un autore si ri-crea ogni volta la sua esistenza, così garantisce Borges. Il lettore è ogni volta un dio, anche se minore. Però non v’è differenza di quantità, né di qualità, fra noi numi.

“… paura del male come tale…” – la paura è un sintomo che va ascoltato. Il terrore invece assorda…

“… la sua paura, che la banalità del male terribile ed efferato del mondo quotidiano porta alla luce senza redenzioni possibile…” – e io a ciò non crederò mai. Una redenzione ci sarà sempre per chi mantiene viva la speranza, anche mentre ci sta divorando uno zombie.

“… il male consiste nel nostro esserci…” – bello, vero, sacro.

“… la paura continua ancora dopo l’ultima pagina.” – anche quando si passa al successivo libro (nel mio caso sarà Peter Pan che pare, come dire?, un Autre rispetto a come lo ricordavo…)

Sono quasi ai saluti, In forma di epilogo: “… quell’unicità di ciascuno di noi e che, con linguaggio non necessariamente religioso, chiamiamo ‘anima’ in correlazione con l’anima del mondo…” – arbitariamente tolgo il punto interrogativo che tu hai messo, credo per modestia.

“… l’invasione infinita di immagini che ci determina rischia di…”di non farci scrivere più le nostre memorie! Di noi che esistamo, che brilliamo in quell’“ammasso luminoso”! Di cui siamo una particella il cui destino, non ancora definitivo, è sempre interessante!

“Non tutto il narrare infinito contemporaneo può definirsi in questa profondità”, “ma nei casi migliori”, esso “produce ‘conoscenza’, visualizza in modo esemplare l’immagine che io perseguo, anzi mi aiuta a discernerla. Allora davvero, in questa coabitazione, nasce l’‘immaginario’ che mi libera.” – e che reca in fondo al mio sentiero che si biforca borgesianamente in infiniti altri, ma che è mio, o almeno così tento d’illudermi. E “io divento libero e da libero io promuovo anche la libertà degli altri come fine ultimo dell’esistere.” – che sia anche l’unico? Non so… In non so manco se so!

Per un attimo ho avuto l’istinto (politically correct) di chiedere a Gino se volesse leggere in anteprima questa mia reazione, al fine di migliorarla. Ma politically correct non fui mai, né mai sarò. Libertà libertà, pur ‘o pappavallo l’adda pruvà, diceva un personaggio di Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo.

È il gioco dell’amore della cultura, della filosofia, che è fondato sulla possibilità, presunta e spero assunta, d’individuare il proprio giogo e d’infilarlo al proprio collo. Giogo che deriva dalla stessa semenza di yoga, che è unione, legame.

Gian Mario, io sono entusiasta della tua scrittura, che mi ha etimologicamente agitato, ispirato, smosso, incantato. Grazie a te sono ènthous, pieno di quel dio. E so che anche tu lo sei, grazie ad altri autori. Quando si tratta di dio, di anima, non ci si può capire nulla, ma soltanto affidare, confidando in Lui, che potrebbe anche esistere. E aver speranza che per Lui la parte sia omogenea al Tutto. E provare un bisogno di carità, che è la capacità di donare all’Autre quel che è in noi e quel che ci pare fuori di noi, nel resto del Kosmos, il Luogo senza gioghi, assolutamente prezioso.

Un ultimo dubbio mi assale ora: non è che per indiarsi occorra seguire tutte le puntate del serial?

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Gian Mario Anselmi, White mirror, Salerno Editrice, 2022

 

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