“Voci e altre storie” di Junji Itō: una tenerezza malinconicamente orrida
Non è stato per me possibile leggere Voci e altre storie di Junji Itō, sorseggiando le sue storie una al giorno, oppure sfogliando il fumetto ogni tanto. È un’opera che attira come una singolarità cosmica che si appresta a divorarti (e a esser divorata), e che alla fine ti porta a dire: meno male che è finita!
Ti ha però reso esausto, vuoto e dubbioso per il futuro, per cui ti alzi, ti prepari un caffè, lo sorbisci, ma prima devi assolutamente azzannare un dolcetto. Così puoi tentare di scordarti che al mondo ogni cosa è caduca, tranne il timore di esistere per un po’, all’unico scopo di svanire in quell’arcano punto che è racchiuso dal Nulla.
L’opera di Junji Itō ha un suo eccelso valore, ma conduce il lettore a un turbinio che non pare avere fine se non, per incanto, all’ultima pagina, quando tutto s’è ormai dissolto.
Sono otto storie, una più spaventevole, più desolata, più inquietante dell’altra.
Mi sono riproposto di non abbozzare alcun riassunto delle medesime, cercando di limitare il più possibile la descrizione delle scene.
Il primo che leggo illumina la mia mente su una schifosa verità: la vendetta è figlia dell’invidia e tende a infettare l’animo di ognuno. L’erba del vicino è non solo più verde, ma è anche più lunga e perciò va tagliata!, insieme all’inadempiente che se ne approfitta, non volendola curare. E questo vale per tutto, anche per la lunghezza degli arti, quando supera quella dei tuoi. La natura altrui dev’essere falciata in nome dell’umano egocentrismo.
Il secondo dà ragione al detto che ogni vendetta è un piatto che si gusta freddo. E che il carnefice di oggi sarà la vittima di domani, salvo tornare a essere, il giorno dopo (tramutato nel tremebondo oggi) il novello carnefice. La banalità può assurgere a espressione artistica: la vittima è sempre mesta, il boia sempre ilare.
Il terzo è più sconsolato ancora. Sarebbe forse doveroso che, nella prima lezione di scuola guida, si dicesse, in modo tragicamente faceto, che chi è al volante è un potenziale assassino. Quando capita l’incidente mortale, esso muterà per sempre l’esistenza del colpevole, a prescindere da quanto innocente sia, nonché della vittima, che sarà costretta a farsi ricordare, per sempre correlata, entangled. A thing of death is an eche for ever!
Il quarto, il più complesso finora, descrive la diversità che conduce a perseguitare il prossimo, quando non è in linea con le tue idee, o adeguato ai tuoi standard di vita o estetici, con l’intento di farlo sparire, pretendendo di compiere un atto di giustizia che aspira a essere divina. È una delle ragioni che conducono, legittimandola, alla guerra. E non riesco ad aggiungere altro.
Il quinto è un canto sulla diversità che rende tutti, ciascuno a modo suo, colpevoli di un misfatto di cui s’ignora l’origine. Mi si permetta il riporto di una parte del testo che conclude il racconto: “… quando qualcuno si avvicina… quel ‘guscio’ guarda fisso nella sua direzione con occhi colmi di tristezza.” – il quale chiede, pur muto, aiuto, perdono e simpatia. Non v’è odio in quegli occhi, ma un assurdo anelito d’amore.
Il sesto è l’angosciante incubo che, qui e ora, stai vivendo. La bellezza è illusoria, come lo è il resto del cosmo, e irrigidisce il giudizio umano: si parla di canoni di bellezza. E questo reca alla distruzione di qualcosa, a volte di tutto. A thing of beauty is a joy for ever, cantava Keats. Basta aggiungere una maiuscola N all’ultima parola e tutto si deteriora, per precipitare in quel Caotico Nulla che ci attende dall’Eternità.
Il settimo descrive l’insidiosità sottesa a quegli illusori canoni, che non ti salveranno dalla fine, ma che si dissolveranno insieme a te in quell’immenso quasi nulla che è la tua anima.
L’ottavo è brevissimo e l’autore lo aggiunge a mo’ di concia, come fa il macellaio per insaporire la carne. In esso è immaginata la “vecchia” Tomie, che costringe il piccolo Soichi, fragile horcrux dell’autore, ad ascoltare le sue storie oscure e raccapriccianti, che egli, con gli occhi sbarrati, andrà poi a narrare.
“Che fratellino interessante.” – dice una ragazza: “Dovresti presentarmelo la prossima volta.”
Magari!
Riporto a seguire un breve colloquio fra colui che m’ha invitato a leggere Voci e il sottoscritto.
M: Ricorda un po’ Shintaro Kago. Ma senza la genialità del disegno e senza l’ironia di Kago. È uno Kago dei poveri.
S: Dei malinconici. Più sensibile e umano.
M: … si difende a modo suo, fa storie più articolate…
S: Shintaro è più cinico e amputa più facilmente. E pare privo di scopi.
M: Sì: ha una genialità inarrivabile.
S: Soichi è un avatar dell’autore?
M: Soichi è il ragazzino fissato con l’esoterismo, è la parte goliardica di Itō.
S: M’ha commosso la storia dell’incidente occorso a quella povera ragazza.
M: Ayumi è stata uccisa dai compagni di classe, la cui anima corposa torna in vita come capita a volte a un senso di colpa. È l’essere triste, tetro, che giace, silente, dentro di noi. E, all’improviso, esplode.
S: Junji Itō mi assomiglia di più rispetto a Shintaro Kago. Lo sento più mio. Amo il suo descrivere con amore le minute quotidianità. Per questo riesco a entrare meglio nelle sue storie. Ma entrambi gli autori, terrorizzandomi, mi scuotono e provocano la mia scrittura!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Junji Itō, Voci e altre storie, Edizioni BD, 2019