“Il ragazzo giusto” di Vikram Seth: l’unico modo di elevarsi è abbassare l’altro?

Si tratta del nono romanzo in inglese per lunghezza. Nell’edizione de Il ragazzo giusto” di Vikram Seth edito da Longanesi dell’aprile 1995 si contano soltanto 400 pagine in meno rispetto all’anno di edizione (1.595), senza contare i Ringraziamenti (mezza paginetta) e il Glossario (una ventina di pagine). Se fosse una soap opera equivarrebbe a un paio di stagioni, non di più. Ma non lo è, una soap opera, bensì uno smisurato romanzo, diviso in diciannove Parti, di cui, finora, ho letto le prime tre.

Il ragazzo giusto di Vikram Seth
Il ragazzo giusto di Vikram Seth

A volte mi chiedo cosa succederebbe se uno leggesse un romanzo partendo dal dodicesimo capitolo, transitando poi, come se niente fosse, al sesto, poi all’ultimo, al primo, al quarto etc. Sarebbero esperimenti da compiersi, una tantum. Una volta, quando ero più folle rispetto a oggi e forse meno saggio, lessi I quartetti d’Alessandria di Lawrence Durrel contemporaneamente. Alla fine sentii che qualcosa m’era sfuggito, essendo occorso più di un’overwritten. Tale quadruplice lettura m’è rimasta impressa ancora più del testo letto. Sic transit gloria librorum. Ma il mio menar il can per l’aia è volto a dissimulare quel che vorrei invece esplicitare: non so se riuscirò mai a scrivere un rigo su quest’opera che si mostra così complete da parermi, alla memoria, come il secondo ostello di Parigi in cui tentai vanamente d’entrare, per cui l’amico Alberto e io decidemmo di passare una gelida notte in una sperduta stazioncina della periferia, dove componemmo direttamente al muro una poesiuola, di cui ricordo solo i versi: l’ostello è pieno/ non ci vuole affatto bene.

India 1951: “Varun chinò la testa, guardandosi i piedi con un’espressione ambigua. Stava pensando come sarebbe stato gratificante gettare il fratello maggiore, a capofitto, nelle fauci del coccodrillo più grosso.”Arun, il primo e il prediletto di mamma (vedova) Rupa Mehra ospita e tiranneggia il suo sognante fratellino, che ormai non ne può più, ma resisterà di certo, finché non scoppierà (il che accadrà prima o poi, intuisco). Più una famiglia (o una società) è fondata sul rispetto verso chi è venuto prima di te, più crescerà la voglia di rivolta nonché la necessaria repressione del tuo anelito di libertà.

“Kishen Chand Seth era un uomo con cui era impossibile convivere.” – ma anche il padre di Rupa. “L’adolescente Arun aveva minacciato di prendere a pugni il nonno” – che perciò lo stimava. Vi erano altre due sorelle: la mite Savita (neo sposa e presto neo mamma) e l’indocile Lata, che sobilla in tutti i modi Varun a ribellarsi al fratellone. Lata incontra poi un bel giovane e fa un po’ la gnorri, però, quasi quasi… La Parte Prima finisce serenamente, essendo servita a presentare l’intero bestiario umano della commedia, per il momento s’intende.

La scrittura di Vikram è così granitica che fatico a rinvenire un pertugio a cui aggrapparmi. Trovato!

“… i carri tirati da buoi, i risciò, le biciclette e i pedoni che affollavano tanto la strada quanto il marciapiede, dividendolo con barberi che esercitavano il loro mestiere all’aperto, indovini, fragili chioschi per il tè, bancarelle di verdure, addestratori di scimmie, uomini che liberavano le orecchie dal cerume…” – che servirebbero hic et nunc, quando e dove occorre prenotare una visita al CUP e aspettare alcuni mesi. Penso però anche a quei buoi, e alle loro madri sacre.

“Ci siamo già incontrati?”chiede Firoz fissando incantato la giovane Tasneem, sorella della cantante Saeeda Bai, la quale lo zittisce dicendo: “Ogni volta che mia sorella esce di casa, lo fa in purdah…” – usanza che, secondo certi estetisti, può danneggiare la pelle delle donne. Reazione dell’induista: “Di certo, pensava, anche se non ci siamo incontrati su questo piano mortale, ci siamo conosciuti in qualche vita precedente.” – ogni religione ha le sue difese mentali. “… un solo verso terrificante del Libro Sacro le tornò…” – a Saeeda Bai – “… alla mente: E Allah solo sa ciò che tieni segreto e ciò che rendi noto.” Un suo ammiratore nonché qualcosa di più, il rajah di Marh, “era venuto a compiere la sua ultima impresa, gettare le fondamenta del tempio di Shiva…” – le quali “… avrebbero poggiato sulle pietre stesse della moschea.”

Gli uomini di una certa levatura sono chiamati “Dagh sahib in segno di rispetto. Dagh è “macchia”, come nel verso: “Anche il sentiero è come una lampada per la macchia del tulipano.”

Questa Parte Seconda, che sta finendo, illustra quale dovrebbe essere il leitmotiv dell’opera: l’incontro-scontro fra queste due grandi religioni. I sikh cercarono di armonizzarle, ma non gli andò granché bene, a sentire un turbato emigrato col turbante che incontrai un giorno a Novellara.

A complicare le cose, a inizio della Parte Terza, è Pran, arguto marito di Savita, il quale sparge in famiglia la voce che Lata è scappata “… con Mann”, suo fratello celibe. La mamma è sconvolta. Poi si scopre che quel giorno è il 1° di aprile, per cui, secondo la barbara usanza occidentale, è tradizione fare scherzi a chi si vuol bene. A dirla tutta, Pran è uno studioso di letteratura che lavora all’università, ed è fan di Joyce.

Intanto il terribile e potentissimo nonno “Seth” (parente dell’autore?) dapprima obbliga un vigile a multare un’auto parcheggiata male, poi, infastidito, da “un mendicante”, non essendo di buon umore, “gli assestò un colpo brutale alla gamba con il bastone” – senza il quale non esce mai di casa. Il buon (si fa per dire) Seth è (direbbero a Pixuntum) zicu e mali incavatu, piccolo e mal intagliato, turzutillo e di un perenne umore nero fuliggine.

Nel corso di questa Parte Terza, Lata e il giovane conosciuto nella prima, si conoscono, fanno amicizia, fraternizzano, s’innamorano. E poi vanno di mattina presto su un barcone. Poiché il barcaiolo (che non è Siddharta) chiede “Due rupie”, il giovane (Kabir) gli dice: “Non sono un forestiero che si fa imbrogliare.”en passant segnalo a tutti (Kabir compreso) che il traghetto da Amalfi e Salerno costa solo otto euro (ma ne vale pena), per gli amalfitani quattro (anche perché ci vanno per necessità, mica per diporto). “Il Barsaat Mahal, luogo di arte politica e d’intrigo, d’amore e di piacere dissoluto, di gloria e di lenta decadenza, si trasfigurò in un simbolo di bellezza astratta e definitiva…” – e il fatto che non esista non lo rende meno imperdibile. Un giorno mi recherò a vedere il Taj Mahal e, se la Trimurti vorrà, inizierò a sognare.

La “signora Kapoor” era “la samdhin” di due donne che non erano per nulla affini fra loro. Attenzione, però, che in India “la samdhin di una samdhin era in pratica una sorella”. Dalle mie parti non esistono: una volta l’unica autorità era la mamma dello sposo che sottoponeva la promessa sposina all’esame della sfoglia: solo se riusciva a usare la canèla, il mattarello, era promossa a nuora. Paese che vai…

La Terza Parte finisce con l‘avvenuta scoperta della tresca di Lata con Kabir, con annesso dramma familiare… il quale è pressoché dimenticato dallo stesso autore nella Parte Quarta, che a dir la verità è fatta un po’ coi piedi, poiché di calzature, calzolai incavolati oppure servizievoli, si occupa principalmente. E mi colpisce un fatto. Chiede Kedarnath (marito di Veena, la sorella di Pran) all’artigiano Jagat Ram: “Come mai non porta un paio di scarpe prodotte dalla sua ditta, invece di queste inglesi? Se le tolga subito, e la farò riportare di peso fino al risciò.” – la risposta non convince né me né l’autore: “Ho paura che i miei piedi si siano abituato a queste.” – ma la verità è un’altra: “Amava i bei vestiti e amava le buone scarpe, e gli doleva che i prodotti della CLFC non fossero all’altezza degli standard internazionali di qualità che lui, per istinto e per formazione professionale, ammirava tanto.” – e un bel giorno tutto, forse, cambierà.

Pran pensava che fosse un peccato “che Haresh fosse già impegnato…” – quel valente creatore di scarpe poteva andar bene per Lata! Haresh affida il piccolo (nove anni) genietto Bhaskar (figlio di Kedarnath e di Veena) al padre (matematico) di Kabir. I due s’intendono al volo, dopo che il bimbo ebbe risolto il primo quesito (“quanto faceva due più due”). Quando li rivide, Haresh “ebbe la sensazione di essere un intruso sgradito”. Concluso l’affare delle scarpe commissionate a Jagat Ram, Haresh partendo, chiude la Parte Quarta.

La Parte Quinta è soprattutto politica, molto più della precedente. “La folla sfrenata e furibonda, forte di centinaia di uomini, si trovò di fronte a quel terrore improvviso, si arrestò, esitò, volse le spalle e fuggì…” – erano bastati alcuni spari da parte delle forze dell’ordine, alcuni dei quali erano andati a segno. Tutto per quell’invadente tempio indù che stava crescendo a ridosso della moschea. “Il magistrato distrettuale”, capo dei “giubilanti” suoi uomini, “incrociò lo sguardo del capo degli agenti. Entrambi scoppiarono a ridere di sollievo.” – pochi morti e problema (al momento) risolto. Di tutti gli strascichi politici e parlamentari, che s’innestarono su delle problematiche soprattutto sociali, riporto soltanto alcune frasi della bellicosa e islamica Begum Abida Khan: “… non saranno risarciti in proporzione alla terra che è loro di diritto. Che cosa farà questa povera gente? Dove andrà? Il governo se ne disinteressa. Pensa che questa legge sia popolare e tiene d’occhio le elezioni generali che avranno luogo fra qualche mese appena. Questa è la verità. Questa è l’autentica verità…”tutto il mondo è paese, infestato dalla medesima bestia. E continua: le bellezze del paese “che per il mondo sono fragranti, voi dite che trasudano il lezzo dello sfruttamento di corpi putrefatti…” – ma “questa è la forma peggiore della meschinità, questo è l’atteggiamento avido del bottegaio di paese, del bania che sorride, sorride e arraffa senza pietà…”il bania è il mercante.

Il romanzo di Seth è sempre più caratterizzato dallo scontro fra induisti e mussulmani. Il micro-problema di Lata e Kabir sarà (forse) risolto in altra sede. Al di là di tutto, il vero dramma riguarda la sempre maggior differenza fra chi ha poco, e sempre meno, e chi ha tanto, e sempre di più.

La Parte Sesta è, finora, la più complessa. Tratta di cose pubbliche e di cose private. L’India è un paese composito, con alcune lingue principali: l’hindu, l’urdu e il bengalese (ma anche l’inglese!). Tre religioni soprattutto: l’induismo e, minoritario, l’islamismo; dell’altra religione, quella sikh, finora non si parla. Chissà perché. Il paese è composto da centinaia, migliaia, milioni di anime ed è dominato da una, due, tre politiche prevalenti. Tutto il paese è mondo, se tutto il mondo è paese.

“Mahesh Kangor ascoltava, spiegava, conciliava, collegava problemi, ne sbrogliava altri, scriveva appunti, impartiva istruzioni, parlava a voce alta, parlava sottovoce, esaminava copie di sezioni delle nuove liste elettorali che venivano riviste per le imminenti elezioni generali, andava su tutte le furie ed era estremamente brusco con qualcuno, sorrideva a malincuore a qualcun altro, sbadigliava in faccia a un terzo, si alzava all’ingresso di un famoso avvocato e chiedeva che il te gli fosse servito in tazze di porcellana più fine…” – un uomo indaffarato, nonché padre di Veena, Pran e Maan. Egli spiega, dice, spiega ancora, dice di nuovo, sbraita, assicura, dice ora, pur “a bassa voce”, varie faccende, cominciando alle nove e finendo alle tre. “Dopo mangiato, Mahesh Kangor si stese a fare un sonnellino, e finalmente anche sua moglie mangiò.” – riporto ancora solo quel che dirà a bassa voce alle tre: “Senti, Agarwal ha in mano un centinaio di deputati. Io ne ho circa ottanta. Gli altri non sono impegnati e andranno dive fiutano odore di vittoria…” – e all’improvviso mi pare d’essere nel Bel Paese, nel 2022.

Dice, a pagina 428, Tasneem a Ishaq Kahn: “Pensavo che non avrò niente di utile da fare a parte leggere romanzi e tagliare verdure. Niente di utile da imparare…” – e dici poco?

Ishaq è un aspirante musicista, dalle dita ormai bruciate dall’eccessiva passione. Aveva offeso a morte Ustad Majeed Khan, il maestro di canto, ma ora gli chiede scusa, con tutta l’umiltà necessaria. Ne diventerà il discepolo che quello “cercava da anni”. È “solo una possibilità vana”, ma sento che è una certezza. Il maestro gli dice, finendo questa parte: “Torni domani, ma alle sette di mattina.”

A volte (quasi sempre) quando m’accingo a leggere un romanzo nuovo, mi viene da pensare che tutto un mondo era lì da sempre, dalla più dorata eternità, o almeno da quando l’avevo accattato. Poi l’avevo riposto su uno scaffale e lui, come un cagnolino, se ne stava a cuccia. Una volta portato fuori, si è sbizzarrito a correre avanti e indietro, insieme alla sua truppa di uomini, animali e topi, uomini e no, uomini perduti e ritrovati, e smarriti di nuovo. Questo romanzo non fa eccezione, brulicante com’è di uomini, donne, bambini, bestie, politici, mendicanti, portatori di risciò, traghettatori, eccetera. Termina, dopo un po’, la Parte Sesta.

Scrive all’amata il negletto Kabir che “In futuro, non devi passare il tempo seduta sulla panchina a piangere. Chissà chi potrebbe desiderare di consolarti. Forse ogni volta che sarai tentata di farlo potrai pensare a me che torno verso il padiglione e piango ogni volta che sbaglio secolo.” – in certi luoghi è ancora così: i giovani sbagliano talvolta il millennio; da noi occidentali questa sorte tocca agli anziani. Nel corso di questa Parte Settima anche Lata scriverà una lettera all’amato, con tariffa a carico del destinatario, facendola poi in mille pezzi, senza più spedirla.

“Varun, quantunque intimorito da Arun e dalla sua arroganza aggressiva, ogni tanto alzava la cresta, di solito per vedersela mozzare brutalmente. Ci voleva del tempo prima che gli ricrescesse un’altra cresta, ma quel giorno pareva che fosse accaduto. Varun spense il grammofono, ma continuò a covare il suo risentimento.”Arun non è cattivo, ma si crede di una casta superiore, quella asservita agli inglesi: “Durante la guerra, Arun ascoltava i discorsi di Churchill alla radio e appena sentiva l’accento inglese, mormorava: ‘Bravo vecchio Winnie!’ Per quel Churchill che odiava gli indiani e non ne faceva mistero, e parlava con disprezzo di Gandhi, un uomo molto più grande di quanto lui potesse sperare di diventare, Varun nutriva invece un odio viscerale.” – due fazioni diverse. A Roma i tifosi della Lazio sono detti quelli strani. Qui il gioco era più grande e con dei risvolti economici.

Varun si presenta alticcio a casa, mentre è ospite Basil Cox, superiore di Arun, con la moglie. Con lui “la stanza si riempì dei fumi dello shamshu” – un liquoraccio “reperibile a Chinatown”, la cui aulenza inebria la moglie dell’inglese, Patricia, la quale invita a casa sia Arun che il fratello ebbro, dicendo “Non mi divertivo tanto da quando sono stata alla RADA. E potete portare una bottiglia di shamshu.” – all’unisono, il marito e Arun pensano: “Dio non voglia.” – trattasi dello stesso dio, spero (ma non credo).

I figli del giudice Chatterji: “Amit scriveva poesie, Meenakshi giocava a canasta, Dipankar cercava il significato della vita, Kakoli teneva occupato il telefono e Tapan, che aveva solo dodici e tredici anni…” – studente di college.

“Lasciato a se stesso, Dipankar affrontava ogni decisione come un crisi spirituale…” – che più che esistenziale era ogni volta quasi mortifera; gli “piaceva fare a colazione osservazioni come: ‘ Tutto è Vuoto’, proiettando così un’aura mistica sulle uova strapazzate.”

Una tipa dice ad Amit: “Non potrei mai fare la scrittrice. Non ho il dono. È un dono di Dio…” – pure io non l’avevo, l’ho… ehm… prelevato da una borsetta provvidenzialmente incustodita. Poi la stessa, che si dice ammiratrice del poeta, gli chiede “le sue poesie sono in rima?” – e questo mi dà da pensare. Dice il poeta Amit (oggi aspirante romanziere): “Ho sempre pensato che l’esecuzione di un raga assomiglia a un romanzo o, almeno, al tipo di romanzo che sto tentando di scrivere…” – ehi, raga, non è sempre così, ma quel che importa è che è anche così. Il raga indiano è una “struttura melodica che fa da intelaiatura a una composizione o improvvisazione musica su uno schema…” – variabile, così leggo nel Glossario (a cura di Lidia Pierra), che si trova alla fine dell’opera.

Siamo in un salotto e il chiacchiericcio che ne viene fuori non sarebbe spiaciuto a Proust, anche se qui il tempo pare fissato coi chiodi, fin troppo determinato e non va quasi mai in avanti e indietro.

“Frattanto, Lata, che si trovava nella zona più affollata del ricevimento, aveva l’impressione di nuotare in un mare di lingue diverse…” – la gioia di un glottologo, che reca alla sindrome di chi non sa che pesci pigliare. Qualcuno dice: “Oh, no, no, Dipankar… il paradigma elementare… non avrei mai detto figura… della nostra antica civiltà è naturalmente la Trinità… Non intendo la trinità cristiana, naturalmente…”ognuno ha la Trinità che si merita: “Sì, la Trinità, vale a dire il paradigma elementare della nostra civiltà, e di nessun’altra…” – e lo stesso vale per la parmigiana di melanzane, ogni borgo ha la sua, che non è la migliore, ma l’unica di quel nome. “La trama primordiale della filosofia indiana è quella del dualismo… Sì, dualismo… L’ordito e la trama dell’universo stesso, la tensione fra l’essere e il non-essere… Sì, indubbiamente è il dualismo a regnare su di noi nella nostra antica terra…”da cui faceva talvolta capolino anche Sahib Plotino.

Dice “la Gran Dama della cultura”: “non l’unità, non l’unità, ma lo Zero. La Nullità in sé è il principio guida della nostra esistenza” – ma solo se non sei nullatenente; per cui tutto nasce dallo “zero” – ma qualcosa devi avere nella pancia se vuoi un po’ pensarci su. “Il seňor Bernando Lopez” rivolge al poeta Amit una concione lunga e noiosa, che avrebbe divertito Faulkner, ma sul cui oggetto è igienico soprassedere. La parata, comprensiva di varie scene ambientazioni, finisce un centinaio di pagine dopo, tutte da leggere, da dimenticare e da ricordare ogni tanto. Finisce così la Parte Settima.

E inizia l’Ottava, che è una variazione sul tema: com’è composito questo continente indiano. Maan segue il suo destino: “L’ultimatum del padre che gli imponeva di lasciare la città era stato esplicito; la soluzione di Saaeda era stata più tortuosa. L’uno lo aveva costretto e l’altra lo aveva blandito. Entrambi provavano affetto per Maan, ed entrambi lo volevano lontano.” – dove? A casa di Rashid, in un villaggio urdu, dove non c’è energia elettrica, alcol, donne facili, ma c’è un modo di vivere all’antica, d’ispirazione islamica. Un tipo, sul treno, gli chiede se sa l’inglese, perché “se parli in inglese, sei un re. Più riesci a confondere la gente, più ti rispettano.” Il treno arriva (regolarmente) in ritardo, senza che alcuno si preoccupi; in quel luogo “un’ora e mezza non era niente”. Maan indossa un kurta-pyjama arancione, camiciotto e pantaloni ampi e questo scatena la mia ovvia curiosità: dal persiano, urdu e hindi: pāy jāmé, pāy, piede; jāmé, abito e poi dall’inglese pyjamas o pajamas (pluralia tantum). Da anni vesto arabo-indiano e manco lo sapevo. Rahid è un brav’uomo, uno che si dà pensiero per tutto e per tutti, anche per “il problema più grande di tutti” – quale?, qualcuno chiede: “perché le capre mangiano verde e cacano nero.”

Ciò gli recherebbe un sacco di problemi, per cui questa insolitamente breve Parte Ottava (che sarebbe stata apprezzata da Hugo, e anche da Dickens) termina con una minaccia: “in effetti Dio avrebbe dovuto proteggere Rashid dal guaio in cui si era appena cacciato… e non da solo.” Faccio lo spoiler: il padre una volta o due gli dà del comunista. In quel posto essere trasgressivi, soprattutto in riferimento a un ordine del padre (o del nonno) è un peccato imperdonabile.

Iniziando la Parte Nona penso che, in questo romanzo pseudo corale/polifonico, ogni voce acquisisce la sua valenza di solista. Rashid e Maan si sono alternati nel gorgheggio, ma anche altre voci, assai ben distinte e impressive (e il termine inglese dà l’idea più dell’eccessivo e italico impressionanti) suonano le loro note con notevole singolarità. Ora tocca (finalmente!) a Lata, a cui viene presentato un pretendente che potrebbe essere il suo Suitable boy (che è il titolo inglese del romanzo), il ragazzo adatto per il matrimonio (in possesso cioè dei requisiti necessari): “A Rupa Mehra, Haresh era piaciuto davvero. Le era piaciuto il fatto che fosse energico, che fosse indipendente dalla famiglia (benché affezionato), e che si prendesse evidentemente molta cura del suo aspetto. Oggigiorno molti ragazzi avevano un’aria così trasandata. E uno dei punti cruciali a favore di Haresh era il suo cognome. Chiamandosi Khanna, era necessariamente un khatri.” – appartenente alla seconda casta indiana, quella dei commercianti, non troppo distante dai bramini, a cui apparteneva Lata.

Scrive Haresh nel suo diario: “In India siamo convinti che l’unico modo di elevarsi sia abbassare qualcun altro.” – siamo, dice, anche lui è inserito dentro a quell’ingranaggio.

Rupa Mehra organizza l’incontro fra i due che non fraternizzano, ma nemmeno mostrano alcuna ostilità. Vorrei sottolineare un fatto apparentemente banale: “Stavolta fu Lata a dire: ‘Mi piacerebbe vedere la fabbrica. Ma prima potrei…?” – al che, “Haresh le indicò il bagno.” – dove tutto è in perfetto ordine: “Non è che Haresh non le piacesse, ma l’idea di sposarlo era ridicola.”

Dopo di cui “cenarono al ristorante della stazione…” – dove avviene un miracolo doppio, nulla di sensazionale, “ma a tratti, per qualche minuto di seguito, Haresh dimenticò Simran. E, per qualche minuto di seguito, Lata dimenticò Kabir.” – non si sa se contemporaneamente. Per la cronaca Simran è l’innamorata di Haresh, con cui non potrà mai coniugarsi, essendo sikh (i suoi di lei si sono opposti, senza stare manco a discutere). A tarda sera, Lata, dopo aver spento “la luce, chiuse gli occhi e, nel dormiveglia, sognò Kabir.”

Haresh segna le cose “da fare”; la numero 11 è: “Fare elenchi delle mie cinque qualità migliori e dei miei cinque difetti peggiori. Coltivare i secondi e coltivare le prime.” – e la cosa è stupefacente, ma subito dopo “Haresh rilesse quell’ultima frase, parve sorpreso e la corresse.”nel 1951 in India usava l’espressione lapsus freudiano[1]?

“Haresh sapeva di essere, nonostante il suo pragmatismo, molto impulsivo e di questo dà prova durante la riunione settimanale nell’ufficio di Mukherji” dove ci fu una serie di battibecchi fra l’ormai nostro Haresh e i suoi superiori. La Parte Nona termina con un suo tentativo di cercare un lavoro presso una ditta inglese che crea e vende un sacco di prodotti, anche le scarpe.

Microcosmo estremamente caratterizzato (un pregio notevole del romanzo): “Uno di loro stava leggendo un giornale in urdu un altro, l’orafo del negozio accanto, si infilava le dita nel naso con metodo e concentrazione.” – forse anche dotato di saggezza millenaria.

Tutto il mondo è paese, e ovunque l’altro è sempre l’altro. Se qualcuno chiede “Che succede?”, il suo congiunto lo tranquillizza: “Niente, niente. Sono soltanto indù.” – mica è (del tutto) colpa loro.

Due distinzioni, una spaziale (è di altrove), una temporale: “È sempre lo stesso. I vecchi si aggrappano al potere e alle loro convinzioni, che ammettono tutti i loro vizi peggiori ma escludono il minimo errore e soffocano la minima innovazione dei giovani. Poi, grazie a Dio, muoiono e non possono più fare danni.” – a qualcosa serve anche Lui. Il credente Rashid (che ancora ignora quel che gli capiterà) dice, pensando a quelli che noi chiamiamo invisibili (nel caso in questione è un intero villaggio): “È quello che la brava gente ha fatto a voi mi fa dubitare della mia fede in Dio”.

Un conflitto culturale mica da ridere, semmai da piangere: per Rashid “… le persone sono buone o cattive a seconda di quello che fanno, non di quello che adorano.” – e qualcuno “replicò acido”: “Allora non ha importanza chi e che cosa si adora?” – e la risposta l’avrebbe il mio personal theologian, Padre Aldo Bergamaschi: “far scadere una fede al rango di religione significa delegittimarla” – non disse così, è una mia interpretazione, ma ricordo quando si lamentava che il cristianesimo era scaduto al rango di religione, avendo cessato d’essere un’esperienza d’amore.

Maan esclama: “Dio è un grosso argomento… troppo grosso per quelli come me. Sono certo che Egli è troppo grande per occuparsi di ciò che penso di Lui.” – se è infinito è anche te, se non lo è, è come te, immerso nel medesimo campo gravitazionale.

Maan si sentiva “dimenticato da Dio in quel posto dimenticato da Dio” – ma ci si stava abituando e a poco a poco “entrò in sintonia con la vita che lo circondava” – non potendo entrare e uscire quando voleva lui, vi rimaneva, chissà, forse a tempo indeterminato, ma che prima o poi finirà. Questo lo risveglia in un certo modo, tanto da fargli dire a Rashid: “Non facendo niente, o peggio che niente, sono riuscito a dispiacere a mio padre” – mentre per l’amico era diverso: “… lei, facendo qualcosa, anzi ben più di qualcosa, è riuscito a dispiacere al suo”. Maan fu condannato al confino, per modo di dire, ma di fatto era proprio così. Rashid fu diseredato in una riunione familiare e sociale al contempo: così imparava ad accettare un pezzo di terra al solo fine di regalarla a chi ne ha bisogno per campare.

A me il libro sta piacendo, nel senso che mi sto affezionando alla sorte di questi soggetti diversamente mirabili e miserabili, anche grazie alla traduzione della citata Lidia Pierra. È per mero affetto che segnalo un evidente refuso all’inizio di 10.19. Se un giorno la incontrassi, le chiederei se esso è (come immagino) nel testo originale. Leggendolo, saprete.

A pagina 798 Meher la figlia adottata da Rashid (che adottò come moglie la cognata, per amore verso il mondo, non solo nei confronti del fratello dilaniato da un treno) chiede al nonno “un giggi”, ma l’avo, pur amorevole, non riesce a farsi spiegare che cosa possa essere. Nemmeno il bisnonno può aiutare a sciogliere l’enigma, con tutta la sua sapienza. Nemmeno Rashid. Siamo arrivati a 10.22 e non ci sono novità a riguardo.

Il padre sancisce la fine di questa mesta Parte Decima dicendo all’ex figlio: “I tuoi schemi comunisti qui non funzioneranno”. Il popolo è coeso nella condanna di questo assurdo suo comportamento: “Rashid si guardò attorno, nel circolo di volti. Vide simpatia in alcuni, ma appoggio in nessuno”. Amen… Ma un giggi cos’è?

Stranamente indiana la Parte Undicesima, più delle altre intendo. Due faccende principali. La prima è un processo che, crepi l’avarizia!, coinvolge cinque giudici, che deve esaminare la costituzionalità di una legge che prevede la riduzione dei grandi latifondi a favore di chi li lavora da tempo immemorabile. Una cosa inaccettabile per il rajah di Marh (che già incontrammo nella Parte Seconda nell’appartamento di quella vocalosa cantante) e per via dell’edificazione del tempio della discordia: “… che a causa del caldo e della pigrizia si era appisolato scivolando sempre più sulla sedia” e che “si rianimò di colpo sentendo fare il suo nome. Brancolò per qualche istante in preda alla confusione, incapace di tornare alla realtà dopo i sogni carnali” – che danno l’illusione di donarti una vita migliore, per cui il risveglio non può che essere brusco. Quando s’avvede che le cose girano come è inaudito che facciano, grida al “presidente della corte”: “No, signore! È in gioco la mia terra! È in gioco la mia vita!” – uscendo dall’aula sbraitando in modo eccessivo, tanto da rischiare l’incriminazione “per oltraggio alla corte.”

Mentre il processo prosegue, fra mille vicende e sapidi interventi (che alla lontana fanno pensare alle scene di Una tragedia americana di Dreiser e che testimoniano che Seth o è un giurista oppure si è dato molto da fare per informarsi delle procedure), accade un evento che crea dal nulla una caterva e mezzo di morti durante i festeggiamenti del Pul Mela, un evento religioso che, mi si perdoni l’accostamento sacrilego, mi ricorda un po’ la strage avvenuta quasi quarant’anni fa durante una finale di coppa dei campioni, in cui perirono 39 tifosi, per lo più travolti dalla folla in fuga. Qui accade lo stesso ma con numeri indiani, molto più corposi. La scrittura di Seth passa spesso da una fine e profonda analisi delle singole anime a una descrizione documentaristica di un evento sociale, per cui mi domando come possa uno scrittore essere così talentuoso e se, sforzandomi, potrei un giorno imitarlo. La risposa secca è No! Non sia mai! Non potrei proprio perché è come chiedermi se potessi pigliare in affitto l’anima di Seth, utilizzarla per un periodo determinato e poi rendergliela dopo aver concluso il servizio. Poi, per giustificare la mia incapacità, mi chiedo se Franz Kafka sarebbe in grado di descrivere questo tumulto popolare. Anche qui la risposta è negativa. E Manzoni? Non so, ma non credo. Non è mica un indiano.

“Uno studente, impossibilitato a muoversi, dovette assistere impotente mentre la madre veniva calpestata a morte e il padre aveva le costole sfondate. Molte persone furono letteralmente strizzate a morte l’una contro l’altra. Alcune soffocavano, altre soccombevano alle ferite. Veena vide una vecchia, con il sangue che le sgorgava dalla bocca, accasciarsi di colpo vicino a lei.”

Risultato finale della partita: “In meno di quindici minuti erano morte più di mille persone”66,666 al minuto, un numero demoniaco, dicono. Quando una tragedia è tanto esclamativa, alla fine rimangono soltanto i punti interrogativi, ne cito solo uno: “Chi era da biasimare?” – l’uomo, innanzitutto, poi tutto il resto. Fra le tante persone scomparse c’è anche Bhaskar, figlio di Veena e di Kedarnath. Veena lo sta tenendo per la mano, e gli implora di non lasciarla! Ma la folla decide diversamente, per cui il piccolo genio matematico “‘No… no…’ urlò, singhiozzando di terrore. Ma sentì la manina scivolare via dalla sua, prima il palmo e poi le dita, a uno a uno.” Scomparso nel nulla, quel putto geniale viene riconosciuto miracolosamente (e anche in questo caso potrei essere considerato blasfemo) da Kabir, grazie a cui avviene la salvifica ricongiunzione parentale.

La parte finale di questa Parte, si occupa ancora del processo. I giudici emettono una sentenza e i cinque magistrati non erano ignari “del pesante fardello di responsabilità che gravava su di loro in quella decisione: la loro sentenza avrebbe avuto un peso decisivo come ogni atto del potere legislativo o esecutivo, e avrebbe modificato la vita di milioni di persone.”

Un modo di scrivere, quello di Seth, che è bello perché è vario, per esempio quando parla di Mahesh Kapoor e signora: “Sua moglie non disse una parola. Lei non sarebbe cambiata; lui non sarebbe cambiato; lui sapeva che lei non sarebbe cambiata; lei sapeva che lui non sarebbe cambiato; e ciascuno dei due sapeva che l’altro lo sapeva.”

La sentenza (lunga “settantacinque pagine”) confermava la legittimità del provvedimento legislativo. “Dire che in aula era scoppiato il pandemonio sarebbe un eufemismo.” – nessun morto per fortuna. Sic transit novel mundi in Parte Dodicesima, dove, come sempre, panta rei, come scorre il Ganga Mata, che è l’amorosa madre che conduce tutti i suoi figli all’Infinito Mare, a cui, si dice, si è tutti destinati.

Dice quell’altra, terrestre, madre, Rupa Mehra (a Lata): “… Chi sono io per obiettare qualcosa? Sono solo tua madre. Apprezzerai i miei consigli soltanto quando brucerò sulla pira…” – frase che ho sentito tante volte nella lezione occidentale, che però prevede l’inumazione.

Torna in scena Kabir, di cui riporto una frase che ricorderò: “alcuni nascono pazzi, altri raggiungono la follia e altri ancora la subiscono come una maledizione.” – e altri ancora la gestiscono come un’arma impropria ma funzionale.

Per motivi tanto assurdi quanto tragici, in uno scontro fra studenti e polizia vene ucciso un ragazzo, che “era lo studente di medicina.” – già citato nel romanzo. Questo mi ricorda che, più di un centinaio di pagine fa: “L’uomo era caduto, e poi si era rialzato. Il sangue gli scorreva dalle ferite sulla spalla e sul dorso. Con orrore, Dipankar aveva riconosciuto in lui il vecchio conosciuto in barca, il vecchio pellegrino esperto di Salimbur, che aveva insistito tanto sul punto esatto del bagno rituale (era stato un naga, un santone nudo devoto a Shiva a pugnalarlo e ed era stato abbattuto dalla folla che si slanciava di nuovo in avanti”,  – a volte, a precederci nel viaggio verso Colà, ci sono sconosciuti che quasi non ci paiono nostri simili, oppure fratelli carissimi, oppure gente che, appena l’abbiamo conosciuta, ci dice addio per (quasi) sempre. In questa Parte Dodicesima tante cose accadono, ma tutto permane uguale: quattro amanti s’incontrano, si sfiorano, si separano, a volte si ricongiungono per caso. Ma ogni volta Seth li destina provvisoriamente altrove.

La Parte Tredicesima (fortunata, si spera) reca una predizione di Veena: “… questo paese avrà una donna primo ministro o una donna presidente” – e la madre si limita ad aggiungere: “Non nei prossimi cento anni” Indira Gandhi fu presidente del Congresso nazionale indiano solo otto anni dopo, e Primo Ministro nel ‘66.

Il personaggio che aveva iniziato il discorso era stata la madre di Veena (sempre indicata come la “signora Kapoor”, senza l’indicazione del nome di battesimo): “Tu non sai niente della meschinità delle donne. Quando i fratelli accettano di dividere una famiglia allargata, a volte spartiscono in pochi minuti proprietà del valore di lakh di rupie. Ma la rissa fra le donne per le pentole e le padelle della cucina comune… quella per poco non provoca stragi.” – ogni spartizione richiede tempo e anche giustizia. Veena però chiede: “Ma credi che una donna avrebbe ordinato quella carica di lathi contro gli studenti?”

Un esempio di consapevolezza femminile viene ora dall’experienced Saeeda Bai (parlando dei suoi facoltosi fan e di Maan): “Io intrattengo loro; lui intrattiene me…”

A pagina 1032 (900 pagine e 9 mesi circa dopo il matrimonio) alla dolce e remissiva Savita esce dal grembo una creatura (femmina) e “lei le guardò la sommità della testa, con sguardo adorante e accusatorio, poi la strinse dolcemente e chiuse di nuovo gli occhi, sfinita”.

Un verso improvvisato da Kakoli: “Dolce Lata, vieni qui/ e sii Lady Chatterji”.

Va tenuto presente che i Chatterji sono i vari Amit, Kakoli stessa etc, eppure questo Lady Chatterji mi desta dei sospetti letterari. Un verso successivo è: “dal suo Keats non trae diletto”, e che ogni tanto salta fuori il nome di Jane Austen

“Se non possono venire, ci telefoneranno” – e stavo penando che nel ‘51 ‘erano così pochi telefoni in Italia… tranne che nelle famiglie borghesi.

Dopo aver citato Shakespeare, Meenakshi si ricorda che l’autoironico Amit disse una volta: “Penso che per mia moglie sarebbe un inferno”. Amit mi pare l’horcrux più significato dell’autore, che non so neppure se è sposato. Il quale autore, a ogni capitolo, si dimostra esperto di qualche scienza (nel precedente era un perspicace pneumologo e cardiologo); in questa breve esistenza (ogni pagina è un’esistenza a sé) è un geniale scarparo. A pagina 1080 Meenakshi teme di essere e si chiede: “… di chi?”.

Quando Haresh trova un impiego presso un’azienda ceca produttrice di scarpe, che opera in India, qualcuno chiede a un collega: “Che cosa pensi che dirà i signor K?” – anche se la lettera sta per Khandelwal, il pensiero corre a…

A pagina 1112 si cita (e non è la prima volta) “l’onnipresente Woodehouse”, in quella dopo Amit sta “cercando di leggere questo illeggibile Proust”.

Amit dedica una poesia a Lata, dove le iniziali dei versi delle quattro quartine sono: L/ a/ t/ a. E gliela invia insieme a un suo libro di poesie: L’uccello delirante. L’impressione è che questo indolente e simpatico poeta stia per fare le scarpe sia allo scarparo che all’islamico.

La Parte Quattordicesima mi fa venir in mente il detto arşȃn La polèteca l ē na grân bróta bèstia, che si traduce da solo e che vale anche quando i politici sono persone per bene e leali, come per esempio Nehru che diventa un personaggio del romanzo, che scrive e riceve lettere e che quando un servo prende a schiaffi un bambino, “lo schiaffeggia più volte, infuriato…”.

La politica è soprattutto un fatto linguistico, di parole dette e taciute. Sandeep “fece un discorsetto ringraziando la gente della sua generosità e assicurando che il denaro sarebbe stato usato bene; nel discorso, fece diventare maschili una quantità di nome hindi.” – l’importante è farsi capire e carpire la fiducia della gente (almeno fino a elezioni avvenute). La vita pubblica è un fatto linguistico, l’urdu, dice Begum Abida Khan, “è una delle glorie della nostra provincia, è l lingua del nostro maggiore poeta, Mast…” – eppure è trattato “come qualsiasi altro linguaggio regionale” e continua dicendo che: “Vorrei che il sanscrito puro diventasse la lingua ufficiale dello stato.” – in modo che “tanto i ragazzi indù quanto quelli musulmani partiranno dallo stesso livello e potranno competere alla pari…” – e l’idea mi affascina. Sarebbe come stabilire che la lingua di Virgilio debba essere la nuova (si fa per dire) lingua dell’Europa occidentale: in tal modo il Monte Bianco non sarebbe più francese e italiano, ma latino.

Seth sta costruendo un tempio pieno di religioni, lingue, mentalità, perciò privo di una religione, di una lingua, di una nazionalità. Lo sta edificando usando l’idioma anglosassone, ma qualunque altra lingua sarebbe stata quella giusta, a suitable language. Il citato Padre Bergamaschi parteggiava per l’esperanto. L’aspetto pubblico e quello privato non sono né uniti né separati: sono adiacenti e collegati.

Mia lettera a un amico: Caro Roberto. Sto leggendo Il ragazzo giusto di Vikram Seth, indiano che scrive in inglese. Tempo fa, parlando con l’amico Riccardo, parlai della mia fede nella religione dell’arte e il discorso non gli piacque. Arrivato a pagina 1100 e rotti, alla Parte Quindicesima del libro di Seth, in cui è descritta dapprima una rappresentazione teatrale e poi un conflitto fra devoti indù e islamici, mi dico che non è come credevo. Si tratta dell’arte della religione, non del contrario. Tutto è una sacra (termine che vuol dir tutto e forse niente) rappresentazione di quel che appare (illusione e realtà, illusione che diventa realtà). Il racconto di quell’evento è nelle facoltà di ciascun attore, purché ci provi seriamente oppure allegramente, ma con convinzione.

“Entrambe le parti erano pervase ormai dalla voluttà di uccidere (che importava, se subivano anch’essi il martirio?, di attaccare il male allo stato puro, di difendere ciò che era loro caro (che importava se morivano?), sia per far rivivere la passione di Karbala sia per riportare al potere Ram Raiya e liberare il mondo dei dèmoni assassini, massacratori di vacche e profanatori di Dio” – e in quel luogo, fra le opposte schiere, l’offesa di “violentatore di sua sorella” era per lo più reciproca. Martiri? Nel senso di testimoni? E chi non lo è? Importa morire? Solo se sei vivo, che reciti sul palcoscenico.

Vikram Seth
Vikram Seth

La Parte Quindicesima inizia con una rappresentazione teatrale, e poi continua con un vicendevole eccidio di innocenti e di colpevoli, o forse è meglio dire di colpevoli d’innocenza. Tutto è rappresentazione, perciò, anche il pubblico che applaude o fischia lo è. Questo è l’insegnamento che traggo da queste parti. Già lo sapevo ma, si sa, la fiction è tale che pare vera.

“‘Scappa!’ gli disse, con la bocca arida per il terrore. ‘Scappa.’ Il cuore gli martellava…”capita a vedere ‘sti horror. Tutto è fiction, che credi? Ma non che “meno di una settimana dopo i tumulti di Brahmpur, il primo ministro del Pakistan, Liaquat Ali Khan, fu ucciso da un colpo di pistola mentre teneva un comizio a Rawalpindi. L’assassino fu linciato dalla folla” – era il 16 ottobre 1951, recita Wikipedia. Liaquat, R.I.P., era amico del padre del nawab sahib, anch’egli scomparso, appena apparso a pagina 1270.

“In una città in cui il ricordo dei tumulti risalivano appena a una settimana prima, l’evento ebbe un effetto piuttosto sedativo.” – ed erano bastate alcune “bandiere a mezz’asta”. E ogni conflitto nasce e termina, si fa per dire, con una partita a cricket e con i suoi punteggi, avvicendamenti, eliminazioni e che tanto annoia taluni, esaltando tal altri.

Un’importante chiosa: alcuni seguaci di Shiva e di Vishnu “sostengono che Brahmpur non ha niente a che vedere col dio Brahma…” – arrampicandosi su specchi illusori e su etimi ridicoli, e non mancano “anime traviate che asseriscono che Brahmpur è una variante di Brahmpur, la città dell’illusione e dell’errore…” – una variante di se stessa. Un probabile folle, nella fascetta del libro avvertiva: “Non cercate Brahmpur sulla carta dell’India: non lo troverete. Brahmpur non esiste…” – Invece sì! Lui esiste invece… Quello di Seth è uno dei tanti mondi possibili di cui cianciava Hugh Everett III, e io mi sono sempre chiesto che fine hanno fatto gli altri due.

Dopo una sconvolta e rivelatrice Parte Quindicesima, segue una quieta e problematica Parte Sedicesima. Due famiglie diverse. I Mehra sono tranquilli e al contempo agitati, e un po’ inquadrati. I Chatterji sono mossi e al contempo quieti, e leggermente particolari. “Amit annuì. ‘Bene, aspetta che raggiunga l’età della responsabilità e vedrai che rivelerà la sua variante personale di irresponsabilità. È un Chatterji, dopotutto.” – parla di Tapan, il più piccolo, ancora studentello.

Hans, tedesco fidanzato di Kakoli (detta Kuku) ha le idee chiare su di loro: “Direi che siete una famiglia tipica in modo atipico.”

Ammette Amit: “Detesto scrivere…” – come lo capisco: “… il mio lavoro mi piace, una volta fatto… È farlo che è tanto tedioso…” – ma perché, mi chiedo talvolta, quando mi alzo dal letto non ho già letto e scritto quanto era giusto che leggessi e scrivessi? E chi decide cosa è giusto e cosa no?

Da vari giorni ho già scritto la parte finale della presente reazione: “Il romanzo di Vikram Seth è come un albero di baniano, che è il simbolo dell’India, pianta sempreverde, le cui radici sono campate in aria, aeree, e partono dai rami per giungere al suolo, trasformandosi in nuovi tronchi, fino a diventare tanto più smisurato quanto più campa”; e a pagina 1313 leggo: “Lata rammentò che Amit aveva paragonato il romanzo a un albero di baniano…” – Mi sa che quest’autore faccia un po’ l’indiano!

“Pur non essendo comunista, Haresh aveva qualcosa di allegramente stakanovista…” – vive per il suo lavoro di fabbricatore di scarpe. È il personaggio che meno sento simile a me. Unica nota positiva è che è parzialmente daltonico, ma dice: “… riesco a riconoscere esattamente nove colori su dieci.”

Intanto Meenakshi, che è riuscita dopo mille sforzi ad abortire spontaneamente, si ritrova con Billy, il suo amante nonché amico di famiglia. Purtroppo il preservativo scivola in modo impietoso, per cui si adira col suo uomo. Cose che capitano: “Non ho voglia di sottopormi a tutta quella trafila…” – deciderà il destino, cara. In una successiva occasione gli dice, a Billy: “Be’, sono contenta che tu sia ancora fedele. Fedelmente infedele…” – ma poi crea l’alternativa: “O infedelmente fedele.” Suo fratello Amit è veramente un ragazzo simpaticamente assurdo e assurdamente simpatico, quando dice a chi gli confessa che non capisce tutta la sua poesia: “… nemmeno io.”

E Lata? Non pensando di offendere, così per dire, dà del meschino ad Haresh, che se ne va via tutto incavolato. Chissà se torna entro sera e a quali condizioni. A Lata non resta che pensare: “che certe persone sembravano capirla troppo poco, e altre fin troppo bene.”

E tutto scorre, sempre come la Ganga, alla Parte Diciassettesima, in cui appare quel che è ed è quel che appare: nel rapporto fra gli individui covano le peggiori e le migliori delle qualità umane. Due esseri si amano, si odiano, si schifano e si cercano, e ogni volta qualcosa di loro muore oppure va a star meglio. Rashid è un uomo buono e generoso, che sogna di essere terribile e lo diventa, quando reca male a sé e a chi non c’entra con quel sogno “… Maan sentiva che per il suo stesso bene occorreva indurlo a vedere il mondo, con tutto il male che comportava in una luce più tollerante. Non era vero che si poteva cambiare tutto con lo sforzo, la veemenza e la volontà. Le stelle continuavano a seguire il loro corso nonostante la sua follia, e il mondo del villaggio avrebbe continuato a muoversi come prima, deviando appena per evitarlo.” – povero Rashid, eppure qualcuno andrà a star peggio di te, credimi.

C’è chi perde la testa per dei motivi seri e chi li fraintende e un fatto, un misfatto, una volta che è fatto è misfatto. A causa di un peccato di svariati anni prima, un peccato ancor più grande viene consumato. Un bravo ragazzo va in carcere perché ha accoltellato un amico, anche lui di buona indole. È inutile dare come e cognome a questa gente, tanto potrebbe capitare a chiunque. Il padre del quasi assassino non vuole approfittare della sua condizione per proteggere il consanguineo. Comportandosi in modo corretto e onesto, viene criticato. Il padre della vittima è quel Nawab Sahib di cui ogni tanto l’autore dice delle cose e solo ora ho capito di chi si tratta. Leggere un libro cartaceo porta a queste incertezze, mentre la lettura di e-book risolverebbe tali problemi. Si provi a rispondere a questa domanda: quante volte Dante nella sua Commedia usa il termine mo’, dal latino modo, che ancor oggi vuol dire ora nel sud Italia, ma anche in certe espressioni arşâni: e mo? sa fēt?, e ora? cosa fai? Con un testo elettronico ci metti un minuto a fare una ricerca del vocabolo. Col cartaceo ci metteresti varie settimane.

Quando mi chiedo il perché Seth non dà mai un nome a questo sahib islamico, trovo una parziale risposta allorché ho un colpo di genio (si fa per dire): all’inizio del volume c’è una genealogia, dove scopro che “Nawab Sahib di Baitar” è il padre di Imtiaz e Firoz, che hanno il cognome “Khan”, ergo anche lui… Altrove, credo, ma non sono certo, il suo cognome non è mai indicato.

“Fu il timore della morte di Firoz a spingere infine Mahesh Kapoor, quell’uomo onesto e rispettoso della legge, a parlare con il sovrintendente della polizia.” – era ora!

“Se gli antibiotici non fossero stati disponibili a Brahmpur, o se i medici non fossero stati abbastanza esperti nella loro somministrazione, di sicuro non sarebbe tornato a fissare quella lucertola.” – la quale bestiolina, al pari di tante altre, fra cui il geco che in questo istante, mentre mi fissa, sta risalendo quel muretto, è la prova di quel grandissimo dio che cova nelle nostre viscere.

In 17.34 arriva “Jawaharlal Nehru, con un aspetto incredibilmente giovanile per i suoi sessantadue anni” – praticamente un ragazzo, appositamente per appoggiare la candidatura del padre di Maan, Pran eccetera, comportandosi come quel personaggio che è, e poco dopo termina la Parte Diciassettesima.

In un incontro coi suoi lettori Amit deve rispondere a un giovanotto che gli chiede perché scrive in inglese, anziché in bengali. Al che lui risponde che conosce più la lingua altrui che la propria. Capita. A me è capitato lo stesso, quando fin dalle elementari mi è stato imposto l’italiano, che ora sento come la mia lingua anche se sono arşân. Poi quel vano (ma non vanesio) poeta aggiunge che “noi tutti siamo accidenti della storia e dobbiamo fare quello che ci riesce meglio senza agitarci troppo in proposito. Anche il sanscrito è arrivato in India dall’esterno.” – per finire poi nei dizionari etimologici. E la rima?, perché l’usa?: perché gli piace. Qualcuno poi cita Eliot… Un altro, ProustPare che il romanzo a cui Amit sta lavorando sarà lunghissimo, “più di mille pagine!” – al che Amit, a pagina 1485, assicura: “Anch’io odio i libri troppo lunghi; e quanto migliori sono, tanto peggio è…” – in quanto “se invece sono buoni, mi trasformo per giorni interi in un paria della società, rifiutandomi di uscire dalla mia tana, seccandomi e ringhiando a ogni interruzione, ignorando matrimoni e funerali, e inimicandomi gli amici.” – si vede che quel tanghero di vate non è sposato. Pur pensandola come lui, in queste due settimane mi sono fatto alcuni bagni a mare, ho fatto spese agli ipermercati, ho gozzovigliato, ho dormito otto ore a notte, ho ammirato i tramonti. Poi l’ormai amico e solidale Amit mi dà un prezioso consiglio su come divorare Shakespeare senza quasi accorgersene. Apprezzo il suggerimento che non avrò mai l’animo di seguire.

A pagina 1505, il 6 febbraio 1952, ci lascia Giorgio VI, per cui il trono toccherà alla giovine figliola, per cui il conteggio del voto delle elezioni indiani è, per il lutto, necessariamente sospeso per un po’. Quando è ultimato, Manesh Kapoor scopre che è arrivato secondo, seppure di misura. A pagina 1531, Arun, in una lettera a Lata, le spiega i motivi per cui è meglio che dimentichi Haresh, il primo dei quali è il suo inglese difettoso (per quanto “sia vissuto in Inghilterra per due anni”). Entro sera Lata, senza chiedere consiglio a nessuno, decide quale sarà her (and only her) suitable boy.

Anche nella Parte Diciannovesima tutto scorre, nella Ganga Mata; a pagina 1588 Rupa Mehra prende in disparte Varun e gli dice: “Sposerai anche tu una ragazza scelta da me.”

A pagina 1590 colgo il primo e ultimo refuso ortografico occorso all’ottima traduttrice: “… congratulazioni pr la sua recente…”. A fine pagina qualcuno comincia un discorso su Joyce che ha termine nella terza riga della pagina seguente.

A pagina 1595 ha fine il romanzo, a cui segue una mezza paginetta di Ringraziamenti, e una ventina scarsa di pagine del Glossario, dove leggo che l’hindi è parlato da un quinto della popolazione indiana, il bengali da un ventesimo, mentre l’urdu, pur definito “lingua neo-indiana”, senza che sia indicata la percentuale. Di lingue indiane ve ne sono 23, oltre a circa 2000 dialetti. L’hindi e l’inglese sono le lingue ufficiali.

Mi mancheranno questi ragazzi? Molto e spero di rivederli, ma non prima di 8 anni, il tempo che ci ha messo Seth a scrivere questo Romanzo-Ganga. Un’ultima perplessità. Dove lo metterò questo volumetto il cui peso (due chili e rotti) mi ha quasi prodotto un tunnel carpale? Fra quelli inglesi o quelli indiani? Penso che lo imboscherò, perché nessuno me lo rubi, tra i soggetti non classificabili.

V come Vikram, V come Vari.  

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Vikram Seth, Il ragazzo giusto, Edizione Longanesi, aprile 1995

 

Note

[1] In un saggio del 1958 intitolato “La funzione trascendente” scritto da Carl Gustav Jung, presente nella raccolta di saggi curata da Luigi Aurigemma ed intitolata “La dimensione psichica” edito da Boringhieri nel 1972, si legge: “[…] Così per esempio l’oratore incappa in un lapsus linguae proprio nel momento in cui più gli preme di non dire stupidaggini. […]”. Si deduce che nel 1958 non fosse abituale usare “lapsus freudiano” ma che fosse in uso l’originario “lapsus linguae”. [N.d.E.]

 

 

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