Seconda edizione del Contest letterario “Natale con Tomarchio Editore”: scrivi la tua recensione
“Attorno al camino/ stavamo raccolti/ isolati eppur vicini/ stretti al di là del muro candido di neve// intenti a distillare le nostre anime/ nei veli di fumo/ delle rosse fiamme guizzanti// così eteree/ così immateriali/ così inebrianti// come l’eternità/ racchiusa in una sola notte/ nell’incanto di una promessa.” – “Era Natale” di Giovanna Fracassi
1. La Seconda edizione del Contest letterario “Natale con Tomarchio Editore” è promossa dalla casa editrice Tomarchio Editore in collaborazione con Oubliette Magazine. Il Contest è riservato ai maggiori di 16 anni. Il Contest è gratuito.
2. Articolato in una sezione:
Si partecipa con una recensione di un libro a scelta di qualsiasi casa editrice italiana e di qualsiasi genere (poesia, teatro, racconto, romanzo, critica). È possibile partecipare con un’auto-recensione, cioè una recensione del proprio libro.
La recensione prevede un limite minimo di 150 parole ed un limite massimo di 1000 parole.
Per un facile conteggio delle parole consigliamo di scrivere la recensione in un documento .doc (.docx, etc), cliccare su Revisione, e Conteggio parole in alto a sinistra.
3. Partecipare è facilissimo.
Si partecipa inserendo la propria recensione sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine articolo alla voce Lascia un commento) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con recensioni edite ed inedite.
Ogni concorrente potrà partecipare con una sola recensione.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
4. Premio:
N° 1 copia dell’epistolario “Lettere a Sofia” della poetessa e scrittrice Giovanna Fracassi;
N° 1 copia dell’antologia “Racconti di Sardegna”, AA.VV., con prefazione dello scrittore Pier Bruno Cosso e postfazione della poetessa Alessandra Sorcinelli;
N° 1 copia della raccolta poetica “È giunto il maestrale” del poeta Samuel Fernando Pezzolato;
N° 1 copia del romanzo “L’inquilino dalla modica follia” della poetessa e scrittrice Antonietta Fragnito.
Saranno premiati i primi due classificati.
5. La scadenza per l’invio delle recensioni, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 6 gennaio 2023 a mezzanotte.
6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:
Alessia Mocci (Editor in chief)
Antonietta Fragnito (Poetessa e scrittrice)
Samuel Fernando Pezzolato (Poeta)
Giovanna Fracassi (Poetessa e scrittrice)
Rosario Tomarchio (Poeta ed editore)
Carolina Colombi (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
Stefano Pioli (Studioso e Collaboratore Oubliette)
7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.
8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.
9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest Natale con Tomarchio Editore” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook:
https://www.facebook.com/OublietteMagazin
10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.
11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (legge 675/1996 e D.L. 196/2003). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.
Buona partecipazione e Buon Natale!
La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli
Mondadori Editore
Un’autobiografia, quasi un monologo o suppergiù. Daniele, un ragazzo caratterialmente debole, molto sensibile, profondamente buono si fa trasportare dalle emozioni, non riesce a fermarle e per cercare di travolgerle, di superarle e sopraffarle, fa quello che non si deve fare: beve. Sa di essere un peso per lui stesso ma soprattutto per la sua amata famiglia. Quei genitori che non sanno più come gestirlo, come “migliorarlo”. Si trova un lavoro, ma non uno qualunque: lavora presso un noto ospedale pediatrico e si occupa delle pulizie. Un ambiente di lavoro dove il suo cuore tanto sensibile batte più forte, in cui capisce il reale valore della vita di fronte alla sofferenza di tanti “angioletti”: alcuni ce la fanno, altri purtroppo no. Lui soffre, ma questa sofferenza non lo butta giù, anzi lo fa uscire da quel “guscio” che si era formato, quasi un proteggersi dalla sua stessa sensibilità. Il suo animo dolce e nello stesso tempo fragile lo porta a rifugiarsi nella poesia mediante la quale esprime il suo “io”. Decide di farsi forza e bussa alla porta giusta: gli viene chiesto di creare una silloge di poesie che esprima, che manifesti con le parole ciò che paradossalmente non si può descrivere, ovvero il dolore, la sofferenza che lui vede mentre lavora. Se poi a soffrire sono dei bambini, il tutto diventa impossibile. Ma lui ci riesce, forse in parte forse totalmente, dipende dall’animo di chi legge. Quelle ventinove poesie vengono lette, commuovono, esprimono un dolore, forse il dolore per eccellenza. E da lì la sua vita cambia. Non solo come poeta e come scrittore, ma soprattutto come uomo. Daniele Mencarelli, un poeta che scrive un racconto o semplicemente un racconto che sa di poesia.
Accetto il regolamento
Alessio Asuni
APOLOGIA DI NARCISO DI SILVIA RIPÀ (BRÈ EDIZIONI)
Recensione di Alessio Romanini
«Siamo in arrivo a Roma Termini, termine corsa del treno.» La familiare voce robotica mi sveglia di soprassalto, devo aver dormito per almeno due ore.
Con questa frase siamo alla conclusione del racconto “Apologia di Narciso”, dove, la brava autrice Silvia Ripà con questa opera originale, ci trasporta nella psicologia di un’affascinante donna narcisista, la quale sogna di avere un dialogo con uno dei suoi amanti: per capire il comportamento che dovrà ottenere con l’ultima conquista.
Il sogno diventa la psicologia della donna, che alla fine, destata dal lungo viaggio, deciderà di incontrare di nuovo l’ultimo degli amanti incontrati, a casa sua in assenza del marito.
Non giudico il comportamento del personaggio femminile, anzi, lo trovo affascinante e intrigante.
Entrare nel pensiero di alcune donne e scoprire che non possono fermarsi a un legame duraturo, ma necessitano di avere altri rapporti per sentirsi realizzate, è un espediente che stuzzica il lettore.
Nella brevità della narrazione, emerge una nuova realtà della società, in cui le donne sono finalmente emancipate e hanno la possibilità di vivere le proprie emozioni come preferiscono, ma soprattutto, distanti dai pregiudizi maschilisti.
La narrazione è discorsiva, legata da un dialogo fra donna e amante, in un intreccio filosofico e intellettuale, che aiuta a comprendere la psicologia della donna narcisista.
Non sono uno psicologo, ma se questa nuova condizione narcisista, fosse la conseguenza di un comportamento maschilista?
Chi sa! “L’ardua sentenza ai posteri!”
– accetto il regolamento
“Nel nome dell’universo” di Giovanni Nebuloni
Nel nome dell’universo è un libro tra lo scientifico e il fantascientifico.
Inizia raccontando la vita quotidiana di una coppia di giovani, agenti segreti o spie, che una mattina viene interrotta… Hanno l’incarico di far esplodere la centrale termonucleare di Iter in Francia. Questa esplosione porta il racconto un po’ in tutto il mondo, tra Francia, Italia, Pakistan e succedono parecchie cose strane, ma scientificamente spiegabili…
Nel nome dell’universo è un libro incentrato principalmente sull’ “entanglement”, ovvero, citando l’autore, la correlazione quantistica più forte di qualsiasi tipo di legame fisico classico.
Congiunge in un tutto inseparabile sistemi o particelle senza fare riferimento allo spazio o al tempo e si può intendere come una raffigurazione dell’amore.
Insomma, Nel nome dell’universo è un libro molto particolare, che chi è appassionato di scienza e quantistica amerà sicuramente.
Il racconto incuriosisce e ritengo che Nel nome dell’universo sia un libro da leggere, perché offre un unico spunto di riflessione, ovvero che tutti noi siamo legati l’uno all’altro in un unico legame e tutta la nostra vita dipende dal tipo di scelte che facciamo; non esiste il destino, esiste solo la scelta della giusta decisione da prendere, il resto verrà da sé, perché, come suddetto, siamo tutti legati in un unico cerchio, in un unico meraviglioso legame.
– accetto il regolamento
“L’Ultima Black Sky” di Antonella Chiego
bookabook editore
“Sullo sfondo di una Praga dominata da luci e ombre, Jennifer scoprirà di essere l’ultima Black Sky. Erede della principessa Libuše, la ragazza si troverà al centro di una lotta tra Protettori ed Esiliati, entrambi determinati ad appropriarsi di quel dirompente potere che dimora in lei. Riuscirà Jennifer a fare la scelta giusta?”
Ho scelto la città di Praga per ambientarvi la mia storia fantasy, perché ne sono innamorata. Con la sua aura dark e ricca di leggende, mi sono sentita trascinare letteralmente tra le sue vie ed il castello, su Ponte Carlo e nel Vicolo d’Oro…
In ogni personaggio, ho relegato una parte sostanziale di me.
Ho potuto creare ricordi che non ho potuto vivere (tipo con mio padre, morto da diversi anni) ed essere quella donna forte e coraggiosa che a volte mi ritrovo a sentire di non essere abbastanza. Ho amato e lottato e vissuto ogni cosa come avrei fatto in realtà se mi trovassi in certe situazioni.
Mi sono messa alla prova nel combattimento e ho dovuto decidere in fretta quando si è trattato di mettere qualcuno al primo posto, anzichè qualcun altro.
Sono stata delusa, illusa e abbandonata. Sono stata abbattuta ma poi mi sono rialzata.
Legami ed intrecci si sono intervallati in tutti i miei personaggi e non c’è nulla che sia mai scontato.
Io sono di parte, lascio a chi leggerà il testimone di elargire una recensione consona a tale titolo.
Per quanto mi riguarda…
Accetto il regolamento
Antonella Chiego
recensione a “Le nostre ore felici” di Ji-young Gong- romanzo-Dalai Editore, 2009
Sono davvero le “nostre” ore felici? E ce le aspettavamo davvero così? In mezzo a tante altre ore incolte, sprecate, sopravvissute, sopraffatte, dannate, violentate, azzerate? Perché questi sono i contenuti delle ore vissute dai protagonisti delle sofferte pagine di Ji-young Gong, dove un romanzo sulla morte, sulla distruzione, sulla scomposizione di sé e l’autodistruzione diviene, pagina dopo pagina, una rivisitazione sulla rinascita, il riscatto, la consapevolezza. Si dovrebbe leggere “Le nostre ore felici” perché rappresenta un lascito, un piccolo inno alla vita, alla quotidianità benevola, al prendersi cura, al volersi un po’ di bene, finalmente. Sì, le pagine che ci portano, piano piano, a riconoscerci, sono tormentate: spesso bisogna fermarsi per “deglutire” la violenza, la paura, la fatica, l’orrore che la stessa vita che si vuole/si deve vivere, è spesso portatrice di sofferenza, d’angoscia, e pertanto ci vuole vittime (e carnefici).
È la storia di Mun Yujŏng, più volte mancata suicida e di ChŏngYunsu, che la fine la sta attendendo in prigione, condannato alla pena di morte. Il detenuto, durante gli incontri con la ragazza che lo va a trovare nel braccio della morte, troverà la maniera di mettersi forse davvero per la prima e unica volta di fronte sé stesso. Lei di fare pace con le ombre del passato e la vita forzata e vana vissuta fino ad allora. Lui galeotto in prigione, lei prigioniera della sua esistenza.
“[…] Quando le cose non le sai, non le sai, ma io ora ne ero a conoscenza, avevo visto tutto con i miei occhi, perciò era tutta un’altra faccenda.[…]. La protagonista si trova a considerare in questo modo la condizione, dopo aver visto come viene tenuto legato il prigioniero.
“[…] Le cose sono così come sono, e ne prendo atto[…]”. Così pare pensare lui dell’apparente ipocrisia di chi lo viene a trovare. E sono, mi pare, entrambe, pur se da ruoli e prospettive diverse, buone parafrasi per raccontare come l’ineluttabilità e pure la dipendenza tra loro di vita e morte, per i due interpreti, ma, infine, di tutti noi, siano le uniche evidenze, le sole certezze scontate solo perché si sanno, o si immaginano almeno. La vera salvezza dall’ipocrisia e pure dall’ineluttabilità?
E cos’è dunque, la felicità?
L’attesa di un incontro più che l’incontro stesso, un riposo, momentaneo dal quotidiano tormento, dall’incapacità di discernere davvero bene e male, assillo e leggerezza, lo stare bene assieme, ritrovarsi specchio uno dell’altra. È questo forse un po’ anche l’amore?
Yujŏng è accompagnata nelle prime visite al condannato dalla zia Monica, suora cattolica che sta condensando la sua missione nel far visita ai carcerati. Il tema e i riferimenti religiosi pervadono costantemente il libro, ne divengono parte integrante, finendo per far coincidere i termini di comprensione, perdono, coscienza, amore per l’altro coi sentimenti laici di rispetto, riconoscimento, dedizione, costanza. E così la presa di coscienza di dover fare qualcosa per abolire la pena di morte, si apre velocemente strada. Ma abolire la pena di morte, per Yujŏng non è anche forse (consciamente o inconsciamente?), rinunciare al desiderio di suicidio?
Il finale però è immaginabile, è quello che, inevitabilmente ci si aspetta. E qui non c’è più alcuna retorica giustificativa. Il tempo fa il suo corso, la situazione precipita, ma era già scritto il destino di lui, la fatalità del destino. Come il destino pare muovere tutti gli accadimenti, di lei e di lui, che li hanno portati a trovarsi, bianco e nero, ombra e luce, speranza e abbandono. Non c’è modo, non c’è tempo, non c’è volontà da parte dei governanti e del pensiero diffuso di ripensare a modificare una legge che sa solamente di vendetta e non d’altro proposito (come l’autrice riporta citando illuminanti parole di Camus).
“[…]Quella volta non ce l’hai fatta a farla finita. Visto che sei ancora qui, dimmi, come si sta da vivi?” “Non saprei, ma ho proprio voglia di provare a vivere ancora un po’”[…]”. Così dialogano zia e nipote, dopo l’esperienza piena, dolorosa e trascinante che le ha coinvolte assieme. Raffigura il reale, definitivo passaggio di consegne. Dal passato al futuro, dall’abbattimento alla voglia di provarci.
Yujŏng scoprirà avere vissuto un percorso iniziatico che, in piena responsabilità, le permetterà di scoprire sé stessa, per affrontare la fatica del vivere, la necessità del vivere, di sperare e insistere perché la vita è fatica, è necessità, è speranza, insistenza.
Sarà sola a cimentarsi col suo domani, mentre il racconto, divenuto lentamente, con lo scoprirsi dei personaggi incastonati alla vicenda, un corale di anime affardellate, tornerà infine all’intimità della scelta individuale.
Accetto il regolamento del contest.
LA SPOSA BIANCA DI OUSMANE: RAZZISMO INCROCIATO
Ho acquistato questo libro in spiaggia dietro insistenza di un venditore senegalese, che, con abile strategia di marketing, mi ha dapprima chiesto se fossi mai stata in Africa, per poi invitarmi a visitarla con la fantasia.
Devo dire che l’acquisto mi ha molto soddisfatto: effettivamente, il libro offre uno spaccato realistico del contesto senegalese della seconda metà del secolo scorso.
Due parole sull’autrice: Mariama Bâ, scrittrice senegalese tradotta in tutto il mondo, vincitrice del Premio letterario di Berlino, che, pur educata entro un contesto tradizionale (fu madre di ben nove figli), ebbe la possibilità di conseguire la Laurea e denunciare lo stato di sudditanza entro il quale versavano le donne della sua terra, soprattutto in ragione dell’istituto della poligamia: fu dunque artefice attraverso i suoi scritti di un riscatto ideale della condizione femminile e umana della donna in Senegal.
Il romanzo, edito in Italia da Giovane Africa edizioni, narra le vicende dell’amore tra la francese Mireille, figlia di un diplomatico in missione in Africa, e il nero Ousmane: un amore osteggiato da ambedue le culture, ostili alle unioni miste a cagione di pregiudizi legati alla difficoltà oggettiva di amalgamare mentalità e abitudini tanto lontane.
Così il padre di Mireille: «Basta Università! Ho capito: è per il Negro che hai scelto di restare. Non voglio scandali. Tu non ti rendi conto della gravità della tua condotta data la posizione che ricopro».
Sua figlia appare esterrefatta dalla duplicità con la quale suo padre approccia i Neri: accondiscendente nella vita pubblica, oltremodo razzista in quella privata.
Lo stesso atteggiamento rancoroso si riscontra sul versante opposto:
«Ai tempi del colonialismo, per egoismo, pigrizia, debolezza e opportunismo abbiamo intrapreso questa vita. Ma tu! Con la rinascita del nostro paese e l’apertura mentale della donna nera! Tu eri la speranza delle donne Nere.»
Nonostante tali ostacoli, e anzi, forse, aizzati dagli stessi, i due giovani coronano in segreto il proprio amore, sposandosi surrettiziamente: ma alla passione iniziale terrà dietro lo scontro con la realtà delle proprie inconciliabili differenze culturali:
“«Se prima del matrimonio vedevamo le cose nella stessa maniera, ora sembriamo due persone diametralmente opposte!», gridava Mireille.”
In realtà questa frase potrebbe attagliarsi a qualsiasi coppia… anche non mista.
La “sposa bianca”, francese, colta, educata esperirà la rinuncia alla propria identità per introdursi nel nucleo familiare del coniuge, abbandonando persino il proprio ateismo dacché verrà coartata alla conversione all’Islam: tuttavia, ben presto si renderà conto dell’inconciliabilità delle due idee di matrimonio: dalla sottomissione inaccettata al clan maritale, alle divergenze delle condizioni igieniche, all’invadenza della figura della suocera, che pretenderà di tenere la nuora come serva e di amministrarne il patrimonio (per inciso, Mireille ha un proprio stipendio da insegnante).
Le condizioni descritte potrebbero ricordare taluni contesti nostrani del passato.
Di particolare interesse è la minuziosa descrizione antropologica di costumi, piatti, cerimonie e atmosfere dell’area di Dakar, con le meticolose vestizioni, i rituali, i balli, la musica costante del tam tam.
Il romanzo avrà un epilogo inatteso: lungi dall’essere un “romance” ove l’amore trionfa su tutto, delineerà lo scontro tra i due sposi: la difficoltà di Ousmane di adeguarsi alla mentalità europea di Mireille, la sua poligamia, il suo ritorno nostalgico alla costumanza atavica e, col rinnegamento della sua sposa bianca, la reazione estrema di lei.
Ne consiglio assolutamente la lettura.
– accetto il regolamento
“Parole rimescolate” di Matilde di Chiaromonte, Terra d’ulivi edizioni, 2020, p. 127
Un libro che raccoglie cose preziose e intime della vita di una donna.
Si legge volentieri e velocemente perché scritto in modo semplice e vero.
Nelle pennellate discrete di cose dette e lasciate intuire, nascoste dentro ai racconti, le poesie, le pagine di diario, e anche gli acquerelli – con quei volti profondi di donna mai banali – si possono intuire episodi di violenza domestica, di sofferenza, ma anche di lotta e cambiamento verso una vita diversa.
Intenso, carico di sensibilità e suggestioni.
C’è una parte narrativa e ce n’è una poetica, entrambe significative: emozioni, oltre che descrizioni, di vita. È il riscatto di una donna che ha saputo uscire coraggiosamente dalla sofferenza e trovare la propria strada, scoprendosi gradualmente sempre più capace di offrire a sé stessa libertà e apertura a nuove opportunità. L’autrice riesce ad esprimere il lungo e sofferente percorso volto ad affermare la persona che nel frattempo ha saputo diventare. La profonda consapevolezza di sé che emerge dai suoi scritti è il frutto di una storia attraversata pienamente e senza sconti.
Un libro molto coinvolgente, una lettura bella perché carica di sincerità e sentimenti umani declinati al femminile; densa di richiami, in un pentagramma di lievi variazioni: dal Racconto alla Poesia, passando per il Diario. Tre forme narrative molto congeniali a raccogliere i pensieri, ricordare, resistere ai giorni di dolore.
E’ la testimonianza di grandi sofferenze e sacrifici, di segni indelebili, di riscatti e conquiste. La testimonianza di una donna di grande coraggio.
Questo libro vuole raccontare ciò che per tanto tempo e per tante donne è rimasto chiuso in un silenzio forzato. Purtroppo la violenza agisce nel profondo, e per questo rimane invisibile e silente a chi ascolta i racconti di chi la subisce.
L’autrice ha cercato di esprimere con sincerità sentimenti umani declinati al femminile in un pentagramma di lievi variazioni passando dai racconti, alla poesia, al diario.
Il libro quindi rappresenta il riscatto di una donna per essere riuscita ad uscire coraggiosamente dalla sofferenza trovando la strada verso la libertà, come molte altre donne sanno fare.
Il messaggio che vuole lanciare il libro è che dalla violenza domestica si può uscire, ci sono momenti, per chi vive la violenza psicologica, economica, fisica o sessuale, in cui tutto sembra buio e senza via d’uscita, così si rimane in una situazione stagnante che fa male alle donne e a chi sta loro vicine, i figli per esempio.
Le donne che subiscono violenza, contrariamente a quanto si crede, non sono deboli, usano la loro forza per resistere; la cosa necessaria però è il cambiamento, pensare a ciò che si desidera, avere cura di sé. Per operare un cambiamento occorre consapevolezza, occorre chiedere aiuto a persone esperte come le operatrici dei centri antiviolenza che accompagnano le donne in un percorso che le porterà fuori dalla violenza, senza giudizi, utilizzando le risorse delle donne, guidandole verso l’indipendenza e l’autodeterminazione.
A volte le donne aspettano che le cose migliorino, che tutto passi, ma il movimento può avvenire solo dentro di sé, allora la donna che acquisisce consapevolezza e comincia ad amarsi può creare nuovi percorsi di vita, può cominciare a vivere veramente.
– accetto il regolamento
Da “Mentre Parigi dorme” di Carnè a “Fuori orario” di Scorsese, innumerevoli sono gli esempi di film giocati su una narrazione a spirale, la cui curva, avvicinandosi e allontanandosi, si avvolge attorno a un unico centro: la notte. Catturare le vite nello spazio di poche ore, offre all’autore l’opportunità di aprire e chiudere un intero ciclo narrativo in tempo breve, imprigionando al suo interno una significativa campionatura di destini.
Murakami, reduce da un’impresa di grandi ambizioni come quella di “Kafka sulla spiaggia” e desideroso di dedicarsi a un progetto su scala ridotta, ha scelto questa idea prettamente cinematografica e l’ha seguita fino in fondo realizzando il suo romanzo più concentrato e compatto.
In “After Dark”, l’unità di tempo è rigorosamente rispettata – i capitoli sono scanditi dall’immagine di un orologio dove le lancette indicano con precisione il passare delle ore – mentre quelle di luogo e azione sono infrante con la massima libertà. Egli compone il racconto di una città polimorfa e vagamente mostruosa che si espande in ogni direzione, un gigantesco animale attraversato da un’infinità di arterie luminose e pulsanti.
A seguire il movimento dei personaggi, a esplorare i vari piani della realtà, non è l’io narrante, protagonista sinora di tutti i suoi romanzi, ma un’entità non meglio precisata che si esprime in prima persona plurale, una sorta di sguardo meccanico, telecamera snodata e acrobatica capace di insinuarsi dappertutto.
A chi appartengono questi occhi dotati di intelletto, fino a che punto questa prima persona plurale vuole includerci, accompagnarci e farci luce nel buio della notte e fino a che punto tagliarci fuori? E fin dove può spingersi? Ecco, diversamente da un narratore onnisciente, questa telecamera che dice “noi”, per quanto agile e snodata, incontra dei limiti, limiti di fronte ai quali il lettore è costretto a fermarsi.
Avanza, noi avanziamo; si blocca, ci blocchiamo con lei.
Come in ogni racconto corale, in “After Dark” non c’è un vero protagonista, solo alcuni personaggi i cui destini si sfiorano nel corso della notte. Mari, una ragazza di diciannove anni timida e scontrosa, che studia cinese; Takahashi, studente di legge e suonatore di trombone in un gruppo jazz; Kaoru, ex campionessa di lotta libera, ora direttrice di un love hotel dove le coppie si avvicendano in una sessualità fredda e in serie nel simulacro mal riuscito delle relazioni d’amore; una prostituta cinese picchiata selvaggiamente da un cliente; il cliente, Shirakawa, esperto di computer, marito e padre di famiglia, che a volte interrompe il suo lavoro notturno per dare sfogo a una feroce violenza su vittime inermi.
Eri, sorella maggiore di Mari, donna bellissima scivolata da mesi in un sonno profondo e misterioso simile a un coma. Il ritmo avvincente del libro rallenta nelle parti che descrivono la donna immersa nel sonno e la stanza in cui è rinchiusa. Dedicare interi capitoli alla descrizione di una persona addormentata non è semplice.
Murakami si misura con la sfida e ne esce vittorioso. Mentre la “telecamera” accarezza lentamente il corpo della ragazza, registrando ogni dettaglio, incluse le trasformazioni che hanno luogo attorno a lei, la descrizione accuratamente realistica scivola in modo impercettibile in una dimensione irreale.
Più che la capacità di tenere desta l’attenzione descrivendo per pagine una persona immobile, il vero virtuosismo di Murakami è l’abilità di modificare i termini della realtà in modo così sottile da proiettarci oltre lo specchio che separa i due mondi, senza farci rendere conto del movimento in cui ciò avviene.
I critici che denunciano, sbagliando, l’assenza di caratteristiche giapponesi, e lo considerano espressione di una cultura globalizzata e transnazionale dovrebbero notare come il suo discorso sulla realtà lo accomuni al lavoro di alcuni fra gli artisti visivi più interessanti del Giappone di oggi, quali Sugimoto Hiroshi e Morimura Yasumasa, con le loro fotografie sempre in bilico sull’esile confine fra realtà e irrealtà. Come per gli artisti appena citati, specialisti in rappresentazioni più vere del vero, anche per Murakami la caduta nel baratro dell’irrealtà inizia solo da una perfetta, meticolosa riproduzione del reale. In contrasto con l’atmosfera rarefatta sino all’astrazione di queste pagine, gli altri capitoli sono ambientati nella città, abitata, anche nelle ore notturne, dal disordine vitale dell’umanità: locali affollati e rumorosi, strade attraversate da auto e motociclette, supermercati aperti 24 h su 24. Coloro che rimangono svegli sembrano farlo perlopiù per necessità che per scelta, come se una sorta di stato di allarme esistenziale imponesse loro di vigilare anche per gli altri, affinché il mondo attraversi l’oscurità senza sprofondarvi definitivamente. Fra queste sentinelle della notte si muore Mari, in apparenza scontrosa ma in fondo ricettiva e silenziosamente solidale. Takahashi, più socievole ed estroverso, vince la sua ritrosia convincendola a parlare e a raccontare di sé. I dialoghi tra i due giovani che imparano a conoscersi, come quelli degli altri personaggi, sono un miracolo di spontaneità e naturalezza che la traduzione di Antonietta Pastori riesce a rendere in modo egregio.
Che Eri, la bella dormiente, e Mari siano sorelle lo si scopre subito, ma solo molto più avanti nella narrazione si percepisce il rapporto profondo che le unisce. Una corrispondenza analoga è quella esistente fra due strati di realtà che si presentano, quasi sino alla fine, sigillati e impenetrabili.
D’un tratto qualcosa di quella umanità disordinata che popola le strade di notte, attraverso le parole del dinoccolato e un po’ maldestro Takahashi, si trasmette a Mari e, da lei, si insinua sottilmente nel guscio chiuso del sonno in cui vegeta Eri.
All’improvviso le labbra della giovine sono scosse da un leggero tremito, segno che da una piccola fessura della coscienza qualcosa tenta di comunicare dall’esterno. Impossibile sapere cosa accadrà.
Lo sguardo narrante non ha potere divinatorio e la sua capacità di vedere si interrompe dove finisce la pagina.
L’autore ci lascia dichiarando un proposito: seguire quel timido segnale mentre prende forma alla luce del mattino, proteggendolo, vegliando affinché si sviluppi per restituire alla coscienza qualcosa che rischia di venir inghiottito nel nulla.
E solo arrivati all’ultima frase del libro ci accorgiamo che lo sguardo si è tramutato in voce.
Recensione de “After Dark” (Einaudi, pagg. 178, euro 18) a cura di Jessica Tommasi.
Parole (spazi inclusi): 999.
Abbiate pietà se il testo non è ben centrato…
Avendo il computer momentaneamente fuori uso, per scrivere sono stata costretta a ripiegare sul blocco note del telefono e questi sono i risultati.
A ogni modo, accetto il regolamento in ogni sua parte.
D’oro e di cemento- Maria Rosa Giannalia- Amicolibro ed. 2022
Mimmino, protagonista del romanzo, è un muratore che ha imparato l’arte a bottega presso mastro Michele, suo padrino di battesimo, anch’egli muratore molto esperto che ha costruito la maggior parte delle case del luogo in cui abita e in cui è ambientata la vicenda: un piccolo paese della Conca d’Oro, nell’hinterland di Palermo.
La vicenda abbraccia avvenimenti che vanno dalla fine degli anni cinquanta del novecento agli anni settanta. Sono anni in cui si perpetra lo scempio edilizio della città e la distruzione sistematica di una buona parte degli agrumeti, vanto e ricchezza della Sicilia dalla fine dell’ottocento in poi.
Il protagonista, che è anche la voce narrante di tutto il romanzo, crescendo in età e in conoscenza del mondo, si accorge che ciò che aveva creduto buono e giusto nel suo méntore è una pura illusione in quanto totalmente inefficace a dargli la possibilità di affrancarsi dalla sua povertà materiale e a riscattare, con il lavoro onesto, la condizione della sua famiglia di origine e quella che si potrà creare in futuro.
Pertanto sceglie di arruolarsi nella cosca mafiosa del suo paese. Sarà questa scelta consapevole e decisa a dargli la possibilità di mettere a frutto la sua intelligenza degli uomini e delle situazioni. La quale, insieme alla sua competenza di muratore, in questa nuova ottica, lo affrancherà dalla miseria collocandolo nel mondo di “quelli che contano” cioè di quelli che hanno potere sugli altri.
Ma questa nuova condizione insieme alla ricchezza e al potere, gli farà conoscere il durissimo prezzo personale da pagare per la sua scelta che infine lo porterà a perdere tutto e persino la sua famiglia stessa.
Questo non è il solito libro sulla mafia, argomento molto saccheggiato nella più recente produzione letteraria. E’ viceversa un dramma che si compie attraverso l’unica voce narrante, quella di Mimmino il protagonista, capace di coinvolgere il lettore nella comprensione del perché della sua personale scelta. E mentre le parole scorrono attraverso un’affabulazione coinvolgente, a diversi livelli temporali, si materializzano sotto gli occhi del lettore immagini, azioni, sentimenti, e ancora sapori e odori di questa parte minima dell’hinterland palermitano in cui si consuma il dramma di uomini e donne protagonisti della “piccola storia” , personaggi umili, cioè, alle prese con la fatica del vivere di tutti i giorni.
Questo romanzo uguale a nessun altro su questa tematica, farà vivere dal di dentro il dramma di un uomo e con lui quello di un paese intero in una prospettiva corale come è ogni narrazione siciliana.
La scrittura è la più adeguata al genere: le forme della lingua parlata siciliana trasposte nel lessico dell’italiano per dare il modo a chiunque di comprendere ed entrare nel contesto raffigurato. La forza di una sintassi potente che accosta, nel racconto, il dialogo alla riflessione e al discorso indiretto libero. Ne consiglio la lettura.
Accetto il regolamento.
Il sistema periodico di Primo Levi Einaudi editore
Recensione di Paola Cuneo
Accetto il regolamento
Una lettura che appassiona per l’originalità del contenuto , un ibrido narrativo di vita reale e invenzione, è la raccolta di racconti di Primo Levi, Il sistema periodico. Scrittore e scienziato, Primo Levi scrive una serie racconti che portano ciascuno il titolo di un elemento chimico.
Il filo conduttore dei racconti, dai numerosi passi autobiografici, è lo spirito d’osservazione, la curiosità di un uomo che prende come guida la Natura. Gli ambienti descritti nei racconti sono numerosi e diversi tra loro. Si trova la realtà di isole sperdute nell’oceano il cui sottosuolo è ricco di metalli, merce di scambio, il cui commercio rappresenta una fonte di sostentamento e occasione per imprese ed avventure . E ancora quella di solitari cercatori di Piombo, che attraversano valichi di montagna, osservatori e conoscitori della roccia, materia viva, e non priva di inganni , capace di cambiare sotto gli occhi. Il protagonista del racconto intitolato Piombo, rivela però che un vero cercatore non trova il metallo con l’esperienza e l’ingegno, ma per una spinta naturale, un istinto analogo a quello degli “animali che risalgono i fiumi o ritornano al nido”. Una vocazione trasmessa di padre in figlio , per cui vale la pena di vivere, di una vita breve, ma rispettata, nella meraviglia di insegnare e imparare.
Con un salto nel tempo si trova il racconto dedicato al Ferro, nella città di Torino con le sue montagne “a due tre ore di bicicletta”, paesaggi di aspra roccia e boschi , e placidi pascoli. E’ la città natale dello scrittore, che descrive i suoi primi anni di studio universitari , la determinazione nel superare gli esami fondamentali, e le esperienze di laboratorio con le quali si poteva venire in contatto con la materia, interrogata talvolta attraverso esperimenti semplici ed elementari, altre volte cercando nuove strade, mai praticate, che portano all’entusiasmo della scoperta ma anche alla delusione.
L’amicizia che si crea tra lo scrittore e il compagno di studi Sandro, taciturno e introverso, i cui antenati avevano una lunga esperienza di lavorazione del ferro, riesce a trasmettere un insegnamento che rimarrà per tutta la vita: cimentarsi nell’impresa di attraversare passi di montagna, per scoprirne i paesaggi aspri e selvaggi, concedersi la libertà di sbagliare , di attraversare un percorso ignoto, sono lussi che solo la giovinezza può concedere e che rinforzano il carattere nel corso della vita .
E ancora nel mondo abbagliante dei metalli, lo Zinco, la materia che nelle mani del giovane studente deve reagire, nel gergo chimico, ossidarsi, ma non lo fa se non si introduce un’ impurezza, che velocizza la reazione e consente la trasformazione. Questo fenomeno è occasione per lo scrittore di pensare al concetto di purezza, che, così come nella scienza, anche nella materia spirituale è duplice, il puro è incontaminato, ma anche sterile , la vita si genera nella diversità, in quel poco che si aggiunge e che rende piacevole e interessante l’individuo, “il grano di sale e di senape”. Contrariamente alle leggi che si andavano delineando in Italia e in Europa, che avrebbero portato alle drammatiche vicende della guerra.
Dallo Zinco, tanti racconti narrano storie legate ad altri elementi chimici , alcuni metalli nobili, elementi solidi, liquidi , gassosi, che uniscono i tasselli di un lavoro svolto con curiosità e passione.
L’ultimo racconto è quello intitolato Carbonio, che unisce particolari scientifici ad un suggestivo lirismo che trasmette il messaggio dell’eterno fluire della materia. Per la molecola di anidride carbonica, un’ “impurezza” dell’aria, senza la quale non ci sarebbe vita sulla terra, l’ingresso nel mondo vivente, se non fosse perché si svolge quotidianamente nel verde delle foglie, potrebbe essere considerato, a pieno titolo, un miracolo.
Come l’acqua di un fiume che nel fluire ha la sua essenza , così, come diceva Eraclito, “Panta rei” tutto scorre , e anche un piccolo atomo di Carbonio, “uno che ci sta particolarmente a cuore” entra nel nostro corpo , arriva ad una cellula nervosa e ci dà l’energia , per pensare alla domanda più profonda, di quale sia la vera materia di cui è fatta la vita.
Una suggestiva commistione di scienza , di poesia e di valori umani fanno di questi racconti un’avventura da scoprire.
“Scintilla” di Chiara Catanese (LFA Publisher, 2022)
Recensione di Chiara Catanese
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“Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni”
Si potrebbe partire da questi versi di Giovanni Pascoli per raccontare “Scintilla”, la nuova raccolta poetica di Chiara Catanese, edita LFA Publisher.
Quelle voci che riecheggiano nel mare pascoliano, quelle visioni che riempiono il cielo di cui il poeta narra, sembrano essere della stessa natura di quelle “scintille” che stanno a fondamento della silloge dell’autrice siciliana.
La stessa ispirazione che da vita allo scrivere è, nelle parole della poetessa, una scintilla. Lo è il germe poetico, che può dare vita ad un fuoco creativo se sappiamo maneggiare questo lampo che si accende.
Tra le pagine della raccolta di succedono fotografie di attimi, emozioni, sensazioni rubate da uno sguardo introspettivo e in grado di guardare sempre oltre.
La natura è spesso e volentieri la via che conduce a questo oltre: il mare, soprattutto, con la sua immensità dona un respiro che è contingente e spirituale insieme, in versi che sono debitori alla poesia sufi con il suo misticismo ispirato e nato dal cuore.
La bellezza, contemplata e ammirata nella natura, nella luce, negli uomini e nelle donne, è afflato che eleva, oltre ad essere scintilla che accende il desiderio e la passione.
Una raccolta che, oltre a cantare la bellezza, vuole invitare a cogliere tutte quelle scintille -da rintracciare nella natura, nello slancio spirituale, negli scorci che si aprono nel vivere di ogni giorno- che, quando siamo nel buio, ci possono portare la luce.
Del resto, come insegna il saggio, è meglio accendere una candela che maledire l’oscurità.
“In una ferita di luce ho cercato
di ricongiungermi alla mia ombra”
(versi tratti dalla silloge)
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Recensione del libro “Atlas Italiae” di Silvia Camporesi
Non è un caso che la prima fotografia inquadri un orologio fermo, quasi a suggerire ciò che troveremo nel resto del libro.
Desolazione, entropia, brandelli di vita strappati al vivere, finestre e porte semichiuse che lasciano trapelare a volte una luce algida, quasi a richiamare una presenza metafisica.
Si parte dagli spazi ristretti degli interni, talora angusti, dove spadroneggia la dimensione lineare del tempo, la degradazione, la consunzione, il ricordo, fino alla travolgente apoteosi degli esterni, paesi fantasma, selva, nebbia, il campo visivo che si allarga a cercare il conforto della natura, brulicante, che si riappropria della sua estasi arcaica, e sembra erompere dall’en-stasi alla quale l’uomo l’ha costretta per secoli.
Riallacciandomi all’inizio del discorso, è chiaro che non ci sia soltanto entropia in queste immagini, sussiste invero l’occhio dell’artista, che nella solitudine visiva dei luoghi trova motivo di riflessione spirituale.
Il deperimento della materia rimanda inesorabilmente al disfacimento dei corpi e alla morte fisica, ed è in questo senso che l’autrice penetrando il mistero del suo stare al mondo, ritrova il contatto con l’essenziale e l’anima, per contrasto con lo stile di vita ipercinetico della civiltà odierna.
L’assenza fa emergere la presenza, l’essenzialità delle immagini, il disordine, la vacuità, il nulla scabro di questi luoghi, non sono i veri soggetti da immortalare.
Il vero soggetto è l’occhio stesso dell’autrice, consapevole di sé stesso, che da questi contenuti scarni riesce a trarne una bellezza inverosimile, una ricchezza smisurata, un’abbondanza di dettagli e motivi d’interesse, come fossimo di fronte ad un’ascesi dello sguardo.
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“Progetto” di Miriam Ballerini
Che cosa cerchiamo, quando prendiamo tra le mani un libro di poesia? La risposta più immediata è: poesia!
Miriam Ballerini, lariana, scrittrice impegnata, pluripremiata per i suoi romanzi, per i suoi racconti e per le sue opere in versi, sembra mettere le mani avanti scrivendo, nella breve introduzione di dieci righe che presenta il suo ultimo libro ”Progetto”, di non essersi mai reputata una poetessa.
Eppure, già alla lettura della prima opera, proprio quella che dà il titolo all’antologia, non possiamo che porci una domanda: chi, se non un poeta, può rivolgersi con tanta franchezza a Dio, per chiedergli conto di quello che abbiamo fatto al nostro mondo dolente e straziato, mostrandoglielo “strappando le nuvole” ed esclamando: “Era proprio questo / che volevi?”. Dialogo con Dio e soprattutto con gli uomini, perché gli aggettivi che descrivono gli “insetti piccoli” che siamo noi sulla Terra, “falsi, invidiosi, / lucrosi”, sono una condanna severa che non può ricadere su di Lui, ma che pesa inesorabile su noi stessi; non possiamo che arrossire e abbassare lo sguardo a terra. Uno sguardo che non possiamo rialzare neppure leggendo i versi della seconda lirica: “Cosa faresti se ti dicessi / che tutti siamo clandestini?”.
Poesia è parlare, raccontare, ricordare, chiedere, non nascondere mai la verità. E Miriam parla, si rivolge agli uomini e alla natura; si confida con il ruscello, “Non ti stanchi mai / di farti guardare?”, con la strada, con i suoni della notte, con il vento, però alla fine si rivolge a loro per ammonire noi tutti, ingabbiati nelle catene della nostra vanità, della nostra superbia, del nostro egoismo, della nostra ipocrisia, tanto che sorge quasi inarrestabile l’impulso di ribellarsi, di alzarsi, di urlare: “No, io non sono così!”. Eppure, il nostro grido si strozza e la coscienza accusa: “Sì, anche tu, come gli altri uomini.”
Un’opera che mi ha particolarmente colpito è: “Uno di voi”. La figura dell’uomo alcolizzato è tracciata in poche frasi , eppure non manca la preghiera, l’esortazione o forse solo la disillusa speranza di una redenzione, ancorata proprio nel cuore della poesia: “Vorrei fossi forte, / tanto da sollevare lo sguardo / dalle pozze di vomito.”
Quanta rabbia e quanto disincanto nei versi, eppure la speranza non è mai spenta del tutto, non cede alla rassegnazione. Le persone possono essere migliori, il mondo più giusto e felice. O forse no.
Al termine di molte poesie, spesso compare l’elenco dei premi che l’opera ha collezionato, e il lettore sincero non può che capire subito il perché dei riconoscimenti. Grande capacità hanno gli occhi di Miriam per leggere negli uomini e per contemplare la natura, per vivere il passato e il presente con una lucidità a volte tagliente e a volte così dolce e innamorata della vita, da fare davvero pensare: “Come sarebbe bello potere vedere il mondo con quegli stessi occhi!”.
Non ha vinto premi, probabilmente perché non ha ancora partecipato a concorsi, quella che è la mia poesia preferita: “Come stelo”. Riporto solamente il finale:
“Così, io proseguo / con addosso le mie cicatrici, / che non m’uccidono: / m’insegnano.”
“Progetto” è un’opera composta da più di sessanta gemme, che emozionano, turbano, fanno riflettere; un libro che si deve tenere vicino ogni giorno, da leggere e rileggere senza mai stancarsi.
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Lasciamo sognare i bambini che credono a
Babbo Natale.
Lasciamo cadere in una buca le guerre.
Loro sono innocenti.
Non sanno che i valori umani non hanno più un cuore per chi massacra i propri simili.
I bambini possono cambiare i cuori.
Hanno bisogno di sogni.
Hanno bisogno di pace.
Hanno bisogno di un futuro.
Hanno bisogno di tante speranze.
Sotto il Natale qualcuno si sente triste.
Delle volte il Natale ti fa sentire malinconico.
Le canzoni natalizie possono distrarre da queste cose negative.
Metterei tutte queste angosce in un sacco e volerei via con una slitta.
Sarebbe un Natale senza più cattiverie in questo mondo per i bambini.
Con una nuova coscienza politica, i temi ecologici sono entrati di diritto nella cinematografia con la produzione di film impegnati nei messaggi ecologisti, proprio come in letteratura. Attraverso le storie e i racconti narrati nei libri si possono conoscere a fondo gli effetti disastrosi del riscaldamento globale e in questo modo si può educare al pensiero ecologico, imparando al meglio come rispettare il nostro ambiente. Paola Maria Liotta, insegnante, scrittrice, ha al suo attivo numerosi libri nei quali ha spaziato su vari temi, dalla musica in Piano concerto Schumann (Il seme bianco, 2019), alla storia classica di Teseo e Arianna narrata in Al mutar del vento (Convivio editore, 2020). Nel grande regno di Thulas. Storia di natura, di macachi e di amicizia racconta di una famiglia di macachi dall’elegante profilo, dal manto lucido e una spiccata lucentezza del pelo fulvo, il musetto rosa e le zampette candide, vive da millenni nella bella e verde regione di Thulas, tra le rovine dei templi e i villaggi sul fiume Grande che conducono al Grande lago.
Il fiume è costellato da grandi massi quasi a sembrare le antiche are, poste verso il cielo. Una bellezza assoluta di luoghi incontaminati, un ambiente mistico e silenzioso fino al Grande Tempio avvolto nella vegetazione, che sembra aprirsi sul paradiso, meta di turisti e pellegrini.
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Le termiti hanno suscitato, da quando furono classificate nel 1748 Linneo, un interesse molto particolare sia da parte di studiosi che di appassionati, i quali hanno trovato sia nella loro organizzazione sociale che nella loro morfologia moltissimi motivi di interesse e alcuni misteri invero incredibili. Fra questi studiosi appassionati ne spicca uno per doti narrative e per l’ingegno con cui le ha studiate: Eugène N. Marais, un uomo schivo, appassionato naturalista, avvocato, giornalista e da sempre studioso delle termiti e di altri animali.
Con la formica bianca, definita così per il colore della pelle, Marais ha intessuto una relazione molto ravvicinata. Egli, infatti, rappresenta il perfetto naturalista che osserva per ore, giorni, settimane e anni la vita di un termitaio, scoprendo misteri che rimangono affascinanti per sempre. L’anima della formica bianca, edito da Adelphi con la traduzione di Livio Bacchi Wilcock, è un libro unico, che rimane impresso per lo stile narrativo, la sinteticità dei contenuti e per un accostamento geniale che l’autore suggerisce fra termitaio e il corpo umano.
“Rotta per Leuke” di Peico
Il linguaggio usato nel testo è serrante, palpitante, frenetico; il tono ora poetico, ora furente, ora profetico. Le immagini diventano agli occhi del lettore allucinazioni o caleidoscopi impazziti, i movimenti percettibili, i sensori di chi s’immerge in tale lettura prendono a sensibilizzarsi ulteriormente fino a sentire il respiro, l’odore, la voce dei due protagonisti che nella realtà sono due menti, due anime in piena evoluzione del sé.
Esseri in un primo momento, piccoli, rozzi, limitati,involucri dell’obbligato, poveri umani dalla fragilità terrena, fino alla ribellione di un’accettazione dell’ego troppo umanizzato o forse robotizzato da una società impostata, predominante e schiacciante.
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‘FESTA A BALTA VERDE’ di Marcello S. Marchesan – Albatros edizioni
Bisogna riconoscere che nel grande ogni sua parte sta comoda, al pari della singola parola in un voluminoso dizionario. Nell’essere umano non è pienamente così, a meno che la giusta socialità non lo abbia addestrato a tanto. Manca spesso nell’animo degli uomini del potere, non importa dove esercitato, la parte della modestia o meglio la capacità dell’accontentamento, proveniente dal risultato degli eventi.
Il romanzo ‘Festa a Balta Verde’ spinge tale idea su una serie intelaiata di fatti definibili di locale portata, ma significativi. Lo stesso titolo ha questa originalità: è stata scelta una località di stagni in riva al Danubio con i residenti per lo più braccianti.
Per dare avvio ai racconti, che si sviluppano nella seconda parte, un fatto maestro spande e prende materia agile da parecchie case e si arrende ben figurando da motivo principale. Un giovane occidentale corre dalla sua amata, che è nativa di quel luogo. Aveva ottenuto l’autorizzazione a sposarla. In forza alla gioia chiede una festa con un perfetto maiale quale pietanza principale.
Siamo negli anni della crisi del settore zootecnico in quella zona. Ottenere su due piedi un porco pasciuto scatena e inscena un percorso di movimenti e relazioni tra le persone da vera commedia. Il maiale scelto cade oggetto di trafugamenti, tutti motivati da chi li compie. Si è corso tanto fino al recupero smuovendo le autorità e l’interesse della popolazione. Ed è la folla a determinare la decisione finale di sacrificare il maiale per una causa superiore all’orgoglio di uno straniero innamorato: una festa di paese da farsi come da consuetudine in riva al Danubio.
Partono i preparativi. La gente vi partecipa con i costumi e i canti della tradizione. Lo spettacolo pare sia questo, ma è solo un goliardico rumore capace di produrre altro: ogni paesano si sente libero e cerca di avvicinarsi a chi ha qualcosa da dirgli in bene o in male in merito a episodi cari o strani, in cui si sono trovati assieme. I grazie e le scuse si susseguono in modo eccitato e leale fino a essere capiti ed accettati.
Così è per Trajan e Petre, che in una notte di bufera soccorrono e riescono a portare in città in uno sforzo impossibile la piccola Albina. Così per Vraza e Zoia alle prese con alcuni dubbi sulla fine di alcuni familiari. Così Olgica, rimasta intrappolata dalle chiacchiere per aver accettato da uno sconosciuto un passaggio in una macchina di lusso. Così per Nor fuggito all’estero, del quale non si ebbe più notizie. La signora Cosmina si concede a più tavoli alla ricerca di qualcuno che abbia ricordo della sua storia di bambina abbandonata. Cisme e Izuel, sopresi dalla piena del grande fiume, trascorrono la notte rannicchiati su un albero e si confidano i disagi familiari. Tudor e Toma sono paesani che si trovano nemici in tempo di guerra.
Gli episodi, quasi una trentina, si susseguono fino a quello finale di Prisco e Ales nelle vesti di prete e sindaco. Il ruolo di costoro, spesso in contrasto, compatta l’idea iniziale che è possibile riconoscersi nel lato positivo degli avvenimenti con la forza di un diritto e con lo sforzo del dovere.
Il romanzo è un inno concreto al buonsenso collettivo, che sta da acqua in ogni pozzo in ciascuna volontà. L’autore chiama questo buonsenso, proprio in ultima battuta, la terza anima, quella esercitata con successo nelle comunità ancora unite dal valore della povertà. Queste hanno come morale il ritrovarsi al risveglio sempre con i discorsi e i volti puliti. ‘Quando tutto apparve ricordato, spiegato e ristabilito nei modi e nei sentimenti, la festa si esaurì del tutto.’ Ed era l’alba, la solita stupenda alba.
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Leggendo Autoritratto al radiatore di Christian Bobin
Una minuscola parte di te
viva spezza l’ombra
incessante mi segue
germoglia e profuma
dà forma al colore
invisibile viaggia nell’aria
Parole di carne abitate da una scrittura cristallina che spesso si muove per piccoli cerchi concentrici,
le parole di Bobin si allargano piano, come l’acqua dopo la caduta di un sasso.
Sono parole vive che presto si ritraggono da carovane d’inchiostro per accogliere ciò che resta pieno e altrove sarebbe oggetto di vano sciacallaggio.
Arrivano intere e non hanno frizione perché sanno tradurre la distanza e la perdita, la caducità con la rinascita a un mondo più vasto.
Christian Bobin raggiunge il cuore, in ogni libro getta ponti, come altri gettano una scala per superare la cima degli alberi e pavoneggiarsi di essere tanto grandi da raggiungere il cielo.
Bobin a volte si ferma a metà o improvvisamente si gira e torna indietro di qualche metro: ode il battito nel rintocco di campane e non si sbaglia. Restituisce al paesaggio la sua infanzia, l’inesauribile infanzia che si tace finché non ritrova il suo primo vagito.
Novello Momo (protagonista dell’omonimo racconto fantastico di Michael Ende) incontra gli uomini grigi, li spoglia ma non attende che svaniscano. A ciascuno dà il compito di innaffiare ogni giorno un fiore e di sostituirlo quando muore.
I lettori più vecchi hanno mosso i primi passi nelle pagine d’inizio e adesso stanno seduti da qualche parte su una panca; si godono felici quest’ora pastello.
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“Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli (Adelphi Edizioni,2014)
Il libro “Sette brevi lezioni di fisica” scritto da Carlo Rovelli, uno dei maggiori fisici del mondo, con una prosa chiara e scorrevole, ci accompagna nell’affascinante viaggio tra le più belle scoperte della fisica degli ultimi cento anni. Poiché é un testo scritto non per i fisici ma per chi semplicemente vuole interrogarsi sul senso della vita, il “libricino” ci insegna che noi, razza umana, insieme alla Terra, alle galassie e al Cosmo, siamo parte armonica di un tutto e dobbiamo avere un enorme rispetto verso ciò che ci circonda.
L’universo descritto da Rovelli é un universo estremamente poetico, del quale quello che sappiamo, é ancora troppo poco rispetto a quello che già conosciamo. L’autore con i due temi principali trattati, il tempo e lo spazio, ci conduce attraverso un viaggio visionario perché questo é la scienza, soprattutto visione. Il lettore rimane sbigottito nell’apprendere che il tempo scorre più veloce in alto ed é più lento vicino alla terra. “Di poco ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna, un poco più vecchio di lui”.
E che dire della genialità di Einstein e del suo universo rutilante con i buchi neri, dello spazio che fluttua e che s’incurva come le onde del mare? La teoria della relatività, sulla quale Einstein aveva lavorato per dieci anni come un pazzo fino ad arrivare alla folgorazione, é definita la più bella delle teorie. La sua genialità, ci fa notare Rovelli, é racchiusa in una equazione piccolissima, una equazione di genio puro! Non ci sarebbe stata la scienza se l’uomo non si fosse posto delle domande.
Noi cosa siamo? Se siamo fatti anche noi di particelle cosa sono allora le nostre emozioni, i nostri sogni, il nostro sapere? Scienza e filosofia sono per Rovelli intrinsecamente connesse e il mondo non é come ci appare perché i nostri sensi sono imprecisi così come le nostre idee sul mondo. E’ strano ciò che non conosciamo o ciò che é nuovo. ” Noi siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie. Pensavamo di essere una razza a parte e abbiamo scoperto di avere i bisnonni in comune con le farfalle e i larici. Tra gli arabeschi infiniti di forme che compongono il reale, non siamo che un ghirigoro fra i tanti”.
Poiché la scienza é capire ciò che non capiamo, il libro di Rovelli ci spinge ad essere curiosi, sempre e comunque, perché come scrive poeticamente l’autore alla fine del libro: ” Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato”.
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“Il barone rampante” di Italo Calvino un “antenato” sempre moderno
La trilogia de “I nostri antenati”
Nel 1956 Italo Calvino si accingeva a scrivere “Il barone rampante”. Il romanzo venne pubblicato l’anno seguente (1957) con Einaudi e fu inserito nella collana “I coralli”, dedicata agli scrittori contemporanei al curatore Cesare Pavese.
Pochi anni dopo, nel 1960, lo stesso scrittore suggerì all’editore di inserire l’opera in una trilogia dal titolo “I nostri antenati” che avrebbe compreso anche “Il visconte dimezzato” uscito nel 1952 e “Il cavaliere inesistente” del 1959. Questa raccolta sancì l’evoluzione letteraria di Calvino, che abbandonava così il realismo, di cui era uno dei maestri indiscussi, in favore della letteratura fantastica. Con le tre vicende, differenti per epoche e tematiche trattate, l’autore proiettava in un passato fantastico i modelli di comportamento umano ed intellettuale che agivano nella collettività a lui contemporanea. Per agevolare il suo obiettivo, e rendere ancor più credibili i fatti raccontati, in tutti e tre i romanzi usa un narratore interno, diretto testimone o protagonista secondario della vicenda: il nipote del visconte ne “Il visconte dimezzato”, il fratello del barone ne “il barone rampante” e la monaca Teodora ne “Il cavaliere inesistente”.
Trama ovvero l’allegoria del nichilista
Era il 1767 esattamente il giorno 15 giugno, da qui il fratello minore Biagio, di quattro anni più giovane, ripercorreva le vicende del protagonista Cosimo Piovasco di Rondò il quale per una lite avvenuta con il padre a causa del rifiuto di mangiare un piatto di lumache cucinato dalla sorella Battista, decise di rifugiarsi sull’elce del giardino di fronte a casa e non scendervi più, nemmeno in punto di morte.
Quello che in prima battuta sembrava il capriccio di un nobile ragazzotto dodicenne, era infatti figlio di Arminio Piovasco di Rondò barone d’Ombrosa e della Generalessa Corradina von Kurtewitz, divenne, fin da subito, sua ragione di vita come dal dialogo iniziale con il padre: ”- Ti farò vedere io, appena scendi! – E io non scenderò più. E mantenne la parola”
Il giovane si adattò ben presto alla sua nuova esperienza “silvestre” e visse tutto ciò che avrebbe potuto vivere come una persona qualunque solo che lo fece in un contesto non del tutto canonico. La vicenda prendeva così le tinte di un romanzo di formazione: Cosimo si fece degli amici: un cane (Ottimo Massimo) e un bandito Gian de Brughi, si innamorò della coetanea Viola, si avvicinò alla filosofia arrivando ad uno scambio epistolare con Voltaire, partecipò, anche attivamente, agli eventi storici della sua epoca (l’azione si snodava infatti tra la rivoluzione francese e la restaurazione) venne perfino anche a contatto con Napoleone dal qual non fu però favorevolmente attirato. Nemmeno anziano e malato scese a terra, ma si fece curare dai medici sugli alberi. Ormai in punto di morte, al passaggio di una mongolfiera, vi si aggrappò per poi scomparire per sempre all’orizzonte.
Dalla vicenda si evinceva fin da subito la critica e il rifiuto delle regole imposte da parte del protagonista dei protocolli e dell’imposizione: non volle mangiare le povere lumache che fece poi liberare dal fratello e salì sull’albero; ciò leggibile anche in chiave metaforica: ovvero le piante come luoghi d’ascensione da cui fosse possibile vedere il mondo attraverso un’altra prospettiva e quindi meglio conoscerlo.
A tale proposito, Calvino dava rilievo anche, attraverso le letture del protagonista, all’amore per il sapere e la sua valenza di riscatto sociale da cui avrebbe potuto trarne vantaggio anche Gian de Brughi. Cosimo, infatti, prestava i suoi libri anche al brigante il quale attraverso la conoscenza vedeva la possibilità di correggere la sua condizione, ma, il fatto che li restituisse a Cosimo sempre in pessimo stato, era chiaro indizio di un’indole incapace di apprezzare per davvero il valore della cultura e da lì a poco sarebbe stato puntualmente punito con una simbolica condanna a morte.
Anche il finale del libro assume un allegorico significato allegorico. L’uscita di scena definitiva dal mondo reale senza aver più mettere piede sulla terra, non era nient’altro che l’atto ultimo dell’estrema perdita del contatto di Cosimo con una società stereotipata e opprimente rimasta tale, nonostante i grandi cambiamenti storici a cui era stata sottoposta: molto simile a quella del dopoguerra che stava vivendo l’autore.
Calvino e Rousseau
Il tema del rifugio in un microcosmo alternativo lontano dalla società che si evinceva da questo romanzo, a mio avviso, ha molta attinenza con “il Discorso sulla diseguaglianza” di Jean Jacques Rousseau in cui il filosofo francese vedeva nella natura una connotazione sempre benigna, e, partendo dall’assioma che minori fossero le relazioni interpersonali dell’uomo e maggiori fossero le possibilità di venire a contatto con i mali, la vita a diretto contatto con la natura stessa era sempre felice, come del resto fu la scelta del protagonista. Rousseau continuava con il concetto “perfectibilité” dicendo che la diversità tra gli uomini e gli animali sta nel fatto che i primi vivessero di solo istinto mentre gli altri fossero portati per loro stessa inclinazione a cambiare migliorandosi o peggiorando. Anche in questo pensiero rivediamo il nostro barone il quale, attraverso un cambiamento attivo, vive al di fuori della società da dissenziente, sebbene con essa talvolta interagisca, fino ad estraniarsene completamente e scomparire per sempre.
Scrivi il senso della tua bocca – Porto Seguro Editore – maggio 2022
Nota dell’autore
Salvatore Martino, uno dei più grandi poeti italiani degli ultimi 50anni, scomparso prematuramente alla fine del 2021, mi ha sempre onorato della sua amicizia e dei suoi preziosi consigli, così come della sua stima.
Salvatore, in uno dei nostri incontri diversi anni fa a Roma, mi confidò della necessità, secondo il suo parere, di valutare una pausa tra una pubblicazione poetica e l’altra.
Non mi consigliò di interrompere la scrittura nella fase di pausa, ma disse di continuare a farlo nel mio più intimo piacere e dolore, lasciando che le parole si depositassero, per poi ricomporle nel giusto tempo, sottraendo ed elevando forma e sostanza, fino a versare la poetica finale nel nuovo progetto.
Nel mio caso sono serviti 10 anni dalla mia ultima pubblicazione, un periodo piuttosto lungo, in cui sono successe molte cose che hanno segnato e cambiato la mia vita, tutto sommato in meglio.
Le cesoie del calendario le ho usate nel mio progetto, ricucendo la dimensione del mio tempo in poesia, seguendo l’istinto del mio sentire fino a determinare il mio nuovo
– Scrivi il senso della tua bocca – una silloge che racchiude un tormento struggente che afferra le parole e le muove dentro suoni a me cari, in forme ordinate e libere al tempo stesso, versi del mio bagaglio in nuove vesti, sempre a me riconducibili.
Scrivi: scrivi il tuo nome, scrivi il senso della tua bocca, perché lo spazio è quello che rimane, quello di un’origine, di una trasformazione, quello di scrivere e leggere un matrimonio indissolubile, così come invitare a scrivere significa trasformare un atto consueto in una forma diversamente attrattiva, libera e alta nella sua natura ed espressione.
Forma: 12 come i mesi dell’anno, 12 come le citazioni presenti, 12 come le note di scrittori, poeti e aforisti, 3 come le lingue che introducono i mesi dell’anno, 3 come le poesie che aprono chiudono i mesi di quest’opera, 3 come i segni della revisione in cui lo scalpello a trafitto la materia inutile lasciandola in disparte, limando ogni componimento poetico fino a rilasciare l’ultimo denso suono di parole.
Bocca: un contenitore o un divulgatore, una regina del fiato o una principessa del silenzio, un susseguirsi di movimenti corredati da un suono, un deposito virtuale dal risultato mai scontato, l’alba o il tramonto di un amore o di un semplice bacio.
Specchio: un riflesso in cui la visione del mondo è ribaltata, offuscata da una realtà che non sempre è così tollerata, dimenticando i segnali di un concavo o un convesso.
Versi= da Scrivi il tuo nome: “respira l’ossigeno/del tuo cuore/solleva le palpebre/del tuo fiato…”, da Sulla Strada: “pezzi di alcool/crocchiano sotto i piedi/di testimoni apparenti… bocche impastate/da fumo ruminante/e aghi diversi..”, da Uno dei tanti: “l’ultimo Nulla/trattiene lapilli gelidi/destinati a bruciare/come lava ardente…”, da Saldo senza sconto: “L’ultima cena è un pasto/distante dalla parabola del dono/mentre il sale divora ardente i secondi”.
Note: il valore dei passaggi e dei messaggi, il prezioso condiviso e ricambiato, il tracciato di un autore, l’ardore di scegliere sempre il proprio migliore, la bellezza intesa come evento e mai come tormento, ricambiando sempre con un triplo grazie, grazie, grazie.
Ora non mi rimane che fare cadere i miei nuovi granelli di sabbia e aspettare…
Maurizio Alberto Molinari
accetto il regolamento
Omero, Iliade
di Alessandro Baricco
“Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio si adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille.”
51 giorni del decimo anno di guerra in 24 canti. Questa la guerra di Troia cantata da Omero nel poema Iliade, attraverso un’unica voce narrante: la sua, quella di un aedo elleno dell’VIII secolo a.v.
In 17 capitoli, Baricco racconta la stessa storia, anzi, la fa raccontare capitolo per capitolo a ognuno dei protagonisti, cominciando da Criseide, colei che fu graziata a restituita al padre, e finendo con Demòdoco, che nell’Iliade non compare, ma che racconta ai Feaci e a Ulisse, colui che ne fu l’inventore, dell’inganno del cavallo.
Riletta dopo molti anni, questa riscrittura del poema non cessa di affascinarmi. Il racconto in prima persona di coloro che in quella battaglia furono immersi, immersi nello Scamandro che del loro sangue si arrossò, è sempre dinamico e coinvolgente.
“L’Iliade è un monumento alla guerra”, “canta la bellezza della guerra”, scrive Baricco. Della guerra onora la bellezza e la poesia.
La poesia dei suoi ideali e dei suoi valori: l’onore, la forza, l’ira, la grandezza, il coraggio, la vendetta, il rispetto dei caduti.
Tutti gli uomini racconteranno per sempre la bellezza del morir combattendo, il valore di Ettore, domatore di cavalli e uccisore di Patroclo e della sua follia.
Ma in che consiste questa bellezza della guerra che affascina gli uomini?
Rileggendo l’Iliade, mi sembra che consista nel potere di sottrarre la vita a un altro uomo, diventando la mano del destino, quel destino a cui “nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire”. La bellezza della guerra appare il fascino della vita che si nutre della vita di un altro, si impossessa delle armi del caduto e con esse della sua forza stessa, della sua anima, del suo ”daimon”.
La tristezza è il destino di questi eroi, è per questa tristezza che le loro “vite saranno cantate da tutti gli uomini che verranno”.
Esiste dunque una bellezza, un grandezza della tristezza, che è propria degli antichi eroi.
Ma nel poema sono presenti anche altri valori di quell’antica società: l’ospitalità, la pietà verso gli dèi, gli affetti familiari. Quelli che Baricco considera valori femminili, i valori di cui all’epoca erano portatrici le donne. Una cultura degli affetti, della cura, dei sentimenti. Sottomessa però, e opposta, a quella maschile.
Mi sono domandata se questa cultura maschile guerriera sia una specificità dei popoli indoeuropei o se sia esistita ed esista anche fra altre popolazioni. Alcuni storici dicono che prima della venuta degli Indoeuropei, nel Mediterraneo, prosperasse una società matristica e matrilineare, di indole e propensione pacifica. Ahimè, di questa società abbiamo pochissime testimonianze, qualcosa forse negli affreschi minoici, sopravvissuti a eruzioni e maremoti.
Invece la società che invoca la guerra e la vive con tragica bellezza non è scomparsa. “La guerra: sola igiene del mondo”. Sebbene il paragone Marinetti – Omero sia incongruo e paradossale, rende sempre attuale la domanda: “ Che cosa rende affascinante la guerra agli uomini?”
Baricco termina la sua riscrittura, affermando: “Riusciremo, prima o poi, a portar via Achille da quella micidiale guerra. E non saranno la paura o l’orrore a riportarlo a casa. Sarà una qualche diversa, bellezza, più accecante della sua, e infinitamente più mite.”
Baricco afferma con certezza che questa bellezza verrà, ma non ci dice dove, non ci dice quando.
Chi ci farà conoscere questa bellezza dunque? È la domanda aperta da questo finale.
Forse vuole sottintendere che saranno le donne? In una società non più patriarcale? Eppure mi dico: non sono loro a partorire ed educare gli uomini? Nel poema, la madre, Teti, non incoraggia e sostiene l’ira di Achille? Il poema più famoso al mondo è un inno all’ira. Da dove nasce l’ira nel cuore di Achille? Dal dolore dell’offesa di Agamennone. È dunque l’ira figlia del dolore, oso dire figlia del parto. E la tristezza non viene solo dagli uomini, ma dalle madri che li hanno partoriti nel dolore e nella paura, e spesso concepiti con violenza.
Resta allora la domanda: donde verrà questa bellezza accecante, mite e non irascibile?
Un’idea infine mi è venuta. Dal solo parto senza dolore, che un altro aedo circa 2000 anni dopo la stesura dell’Iliade, in un altro poema cantò:
“…State contenti, umane genti al quia”“State contenti”, forse c’è dunque, oltre la bellezza della tristezza, quella che nasce dalla grandezza della guerra, anche la bellezza della contentezza che porta alla pace, ma questa grandezza non penso sarà per Achille, l’uomo nato dalla divina Teti, ma verrà da un altro, da altro parto nato.
“State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria.”
(Purgatorio, canto III, vv. 37-39)
LA CATTEDRALE DEL MARE – romanzo – Ildefonso Falcones
Quando una delle mie migliori amiche mi ha detto “leggilo, è bello…” le ho creduto senza alcun dubbio, anche se un po’ spaventata dalle 642 pagine del tomo. Mi sono avvalsa della facoltà di strizzare l’occhio ad una delle regole del lettore e cioè “se decidi, dopo un quantitativo di pagine congruo, che il libro non ti piace, abbandoni senza rimorsi”.
Il protagonista è ARNAU, personaggio a cui non daresti due lire, visto che già nei primi attimi di vita nasce sfortunato, in un contesto spaventoso e addirittura inizi a temere che non arrivi oltre la pagina che stai leggendo. Invece no. Con l’aiuto del padre impara i sani principi della vita: l’onestà, la correttezza e tutte le bellissime qualità che ti vengono in mente. Ma quella più importante, che forse allora molti erano costretti a coltivare e a cui sicuramente all’epoca non era stato dato un nome, è la resilienza. Cioè la caparbia capacità di vedere e trarre dalle cose cattive e ingiuste sempre un buon insegnamento. Resistendo strenuamente.
Il libro è ambientato nel medioevo e io sono sempre del parere che la lettura di un libro di questo genere sia molto, molto, molto più utile che mandare a memoria fatti, date e nomi nella loro infinita inutilità. La lettura si snoda molto velocemente, delinea in maniera netta, a volte scurrile, i personaggi e fa in modo che il lettore non li dimentichi nel dipanarsi degli eventi e nel susseguirsi dei fatti. I protagonisti infatti vanno e vengono, nel senso che non scompaiono mai del tutto ma restano legati ad Arnau in diversi modi, nel bene e nel male, durante tutta la sua vita. C’è una sola persona che scompare, riappare verso la fine per poi dileguarsi per sempre senza che di lei si sappia più nulla. Ecco, io a questa figura avrei forse dato un’uscita migliore dal romanzo, visto che all’inizio del medesimo costituisce un elemento della storia direi fondamentale.
Durante la lettura si comprende appieno quanto sia stato veramente buio quel periodo della storia: uno status quo sostenuto da mille squilibri, leggi e regole a volte veramente ingiuste e assurde. Conoscerete i bastaixos, scaricatori di porto, traduzione del tutto impropria e riduttiva. Avrete un’idea se pur minima di come sono state costruite le opere monumentali senza tecnologia ed elettricità. Cioè con le schiene sanguinanti, l’immane fatica, la caparbietà inesauribile e soprattutto un’irriducibile fede. Non c’era evidentemente altra scelta. Capirete cos’era veramente il tribunale dell’inquisizione, come facesse facilmente leva sull’ignoranza e la paura delle persone, ottenendo vittorie e martiri anche dove c’erano colpe inesistenti. Per tutta la lettura sembra sempre che il sole non ci sia mai o tramonti troppo presto. Non è forse così che immaginiamo il Medioevo?
Non è certo un libro spensierato, è un romanzo che ti trascina all’interno di eventi che si stenta a credere possibili, ma lo sono stati e probabilmente, in qualche parte del mondo, ancora accadono. Imparare la storia con queste letture potrebbe diventare veramente un nuovo metodo di apprendimento.
Anna Rossetto
accetto il regolamento
OPERAZIONE REQUIEM di Rocco Giuseppe Greco (Editoriale Progetto Duemila)
OPERAZIONE REQUIEM è la storia del commissario di Pubblica Sicurezza Rosita Puntillo, un commissario a cui piacciono più i funerali che i matrimoni.
Il racconto sfoglia i vissuti di ordinaria quotidianità di una donna commissario, intrecciati al suo incessante desiderio di quiete, che cerca ovunque, ma non trova da nessuna parte.
In questa ricerca si spinge a esplorare principalmente due piste.
In una pista fa da sentinella la morte, con tutto il suo armamentario di riti funebri, domande di senso, misteri.
Nell’altra pista la fa da padrona la ndrangheta.
Riesce a sgomberare la pista occupata dalla ndrangheta, ma sulla pista, dove gravita la morte, per i troppi lati d’ombra, sbanda, entra in crisi e si arrende.
La morte non si lascia arrestare.
A malapena si lascia indagare.
Rosita, la protagonista del romanzo, affronta questa indagine, ma più cerca più si rende conto che, quando si indaga la morte, uscirne vivi è davvero complesso.
E però, tutto sommato, alla fine lei ne esce viva.
Come ne sono uscito vivo io che ho raccontato la storia.
E come ne è uscito vivo l’editore che l’ha pubblicata.
Ora cosa può capitare a chi decide di leggerlo?
Di sicuro gli può capitare di sentirsi compagno di viaggio.
Perché, in buona sostanza, di un viaggio si tratta.
Un viaggio nell’anima di una donna inquieta, alle prese, fra l’altro, con una storia di ndrangheta, sullo sfondo di una Calabria piena di ombre e di misteri.
– accetto il regolamento
Vellise Pilotti accetto il regolamento
Recensione di -Capitani coraggiosi- di Rudyard Kipling
Salani editore
Ho letto questo libro tanti anni fa. Mi colpì subito per la sua morale, che come succede con le opere più significative, trascende il tempo e il suo significato è di un’attualità impressionante.
La storia, a grandi linee racconta l’avventura di un ragazzo ricco e viziato che si trova suo malgrado a dover lavorare per sopravvivere:
Harvey è il figlio quindicenne di un proprietario di navi, ferrovie, ecc.,americano. Si trova su un piroscafo con i genitori, quando accidentalmente cade in mare. Viene salvato da un peschereccio, e qui fa la conoscenza con un mondo molto diverso dal suo, in cui si lavora duramente per sopravvivere, e dove i suoi soldi non valgono niente, ma una legge è in vigore in quel contesto : devi guadagnarti il pane col sudore della fronte, come tutti i membri dell’equipaggio. Così Harvey diventa amico di Dan, il figlio del capitano e suo coetaneo, capisce il valore dei soldi guadagnati lavorando. Tra avventure mozzafiato e fatica, il giovane rampollo viziato si trasforma in un uomo con la testa sulle spalle.
Sarebbe riduttivo classificare questo bellissimo romanzo come libro per ragazzi, in quanto è tanti libri in uno,e secondo me, è adatto a lettori da 9 a 109 anni.
CONTEST SCADUTO
I finalisti saranno contattati via e-mail.
Vi ringraziamo per la partecipazione.
FINALISTI:
Marco Salvario con “Progetto”
Gisella Fidelio con “Parole rimescolate”
Marina Cozzolino con “Sette brevi lezioni di fisica”
Fabio Soricone con “Atlas Italiae”
Ninetta Pierangeli con “Omero, Iliade”
Marco Astegiano con “Il barone rampante”
Marcello Silvano Marchesan con “Festa a Balta Verde”
RISULTATI FINALI DEL CONTEST:
https://oubliettemagazine.com/2023/01/13/vincitori-e-finalisti-della-seconda-edizione-del-contest-natale-con-tomarchio-editore/
Ringrazio infinitamente tutti i membri della Giuria e coloro i quali hanno reso possibile e organizzato questo contest, per avermi decretato vincitore, regalandomi un’emozione indimenticabile. Con tutta l’anima, grazie.
Vivere senza leggere è pericoloso: una persona è costretta a immergersi nella realtà, e questo è rischioso.