Natalia Jacquounain: le opere che catturano e sintetizzano il miracolo della luce
Natalia Jacquounain nasce in Russia, ma, a metà degli anni ‘80, decide di abbandonare la propria terra d’origine, per raggiungere la Francia, ricongiungendosi, così, con un approccio, nei confronti dell’arte, per lei, più “colorato” e vivo, rispetto a quello russo.
Sin dagli anni ’70, affronta un percorso estetico, costituito da studi certosini: le nature morte sono un incipit fecondo, che evolve, nel tempo, in ricerche e attuazioni compositive, sempre più complesse; esse si arricchiscono e attualizzano, via via, fino a staccarsi dalle tele e diventare atti scultorei scelti e non comuni.
Il teschio di un cavallo, acquistato, appunto, in quel primo periodo, apre una stagione che la vede esporre in diverse Gallerie francesi: la scelta di un soggetto tanto inusuale è identificativa di una mente analitica fuori degli schemi.
Attinge, in seguito, ad alcune incisioni di Hogarth, importante artista e intellettuale inglese del XVIII secolo, che concretizza nella serie “Violoncelle Noir” e “Violons d’automne”. L’impegno speso in ognuna di queste diverse conoscenze si concretizza e consolida, negli anni a seguire, mentre nuove esperienze estetiche nascono; nel 2015, in occasione di una mostra presso Cloître des Billettes, alle due serie sopra citate, Natalia Jacquounain affianca la serie “Narcisse”.
A partire dagli anni Ottanta, poi, l’artista realizza una serie di paesaggi e nature morte, che esplicitano la sua necessità di dar voce allo spazio sulle tele: queste ultime rispecchiano una sperimentazione, che suggella le sue capacità esecutorie.
Progressivamente, lo studio delle basi matematiche della prospettiva la porta alla creazione di oggetti in volume: sculture da appoggiare o da appendere. I volumi non abbandonano mai, completamente, nemmeno i supporti materici, e diversi sono i florilegi estetici, che prendono vita: “Lutece”, “Foret urbain”, “Gothicus”, “Fauselle”, “I tetti di Monmartre come gioco di pesi e contrappesi”, “Lockdown o Mondo nell’altra dimensione”, “Confinamento”, sino alla neo nata “Meta – ecologia”. Il lato plastico di Natalia Jacquounain rappresenta, a mio avviso, un periodo meritevole di grande attenzione: dal calcolo, inattesamente, l’artista edifica profili pieni, che lumeggiano dettagli e contesti umani, sociali, naturali…, carpiti nella loro mutevolezza, preservando, alfine, poesia e levità.
“A quanto possiamo discernere, l’unico scopo dell’esistenza umana è di accendere una luce nell’oscurità del mero essere.” – Carl Gustav Jung
In “Eclat festival”, Natalia Jacquounain sembra cogliere la significanza più alta del concetto, espresso dal filosofo: con acutezza, infatti, sintetizza la verità plastica di una radianza, fisica e intellettuale, battezzando l’incipit di un’estate esistenziale. In “Bang”: l’artista fa scattare il grilletto e, un istante dopo, esso torna al proprio posto, mentre il colpo fende l’aria. O, ancora… in “Click”: Natalia Jacquounain preme il dito sul pulsante di un dispositivo fotografico e, fulmineo, il flash compare, poi, scompare, mentre, all’interno, umori vengono liberati da un baccello, suggellando, immediati, i profili di un istante.
L’autrice flette il braccio, nella cui mano è impugnata una mazza da golf, all’indietro, poi, lo sposta, in maniera calibrata, ma decisa, in avanti, finché la testa colpisce la pallina, che si libra, verso l’alto, tagliando il respiro circostante, per, poi, ricadere al suolo.
Un triadico immaginario penetra il temperamento creativo di Natalia Jacquounain, conturbandolo. L’artista viene, dapprima, rapita da quell’intuizione, ‘sì che il desiò di confessarla, al ciglio umano, muta in irrequietezza e fermento intellettivo: suono, luce, odori, movimento, velocità, linee, forme… allora, pullulano, nella sua mente, si sposano e abbandonano, rimbalzano, si fermano, si tendono e rilassano… Così, questo vorticoso susseguirsi di pensieri appare e scompare, a intermittenza.
L’occhio analitico della scenografa individua, quindi, tutti gli elementi reali di quel breve atto teatrale, ma non le basta; ricerca, nella geometria e nel calcolo, le radici, per poter concretare la filosofia di quel l’incipit, tanto fugace quanto rapinoso e affascinante, che matura, poi, in studio riflessivo.
La brevità del lasso di tempo, a cui vuol donare vita, si scontra con la profondità di quel theorēma, che è meditazione e osservazione, tangibile e non, la sottilità lo fa con l’universalità, poi, d’emblèe, Natalia Jacquounain trova il giusto compromesso: il palmo ne schematizza la tensione comportamentale e emotiva ambientale, su carta, dopodiché, minia la realtà erratica infinitesimale, caratterizzando, attraverso la realizzazione di parallelogrammi e triangoli, che si intersecano e inclinano, il diastema spazio/temporale, in cui quel “festival”, ossia quella vivace festa danzante di energia luminosa, esperisce se stesso, come sferica presenza, raddolcendo, invero, il rigore della composizione.
Natalia Jacquounain frantuma la banalità dell’evento quotidiano per coinvolgerlo, alfine, in architetture artistico/esistenziali, che testimoniano un salto di qualità nel panorama artistico internazionale.
Written by Maria Marchese