“I principi del mare” di Andrea Gualchierotti: un uomo, per quanto valoroso, non sarà mai immortale

Amai le opere omeriche, da me tanto neglette nel periodo scolastico, allorché potei leggerle senza patire l’imposizioni altrui, per mia libera scelta.

I principi del mare di Andrea Gualchierotti
I principi del mare di Andrea Gualchierotti

L’Odissea è una delle mie opere esistenziali. Con l’Iliade ho sempre avuto un rapporto conflittuale: nulla da dire sul suo immenso valore, ma qualcosa mi ha sempre lasciato perplesso. Una volta stupii un amico (tanto che la pizza gli stava andando di traverso) quando gli dissi che la diva implorata in quel mitico incipit cantò non tanto l’ira funesta di Achille, quanto la prima partita truccata della storia.

Ho sempre tifato per il papà di Astianatte, umano al 100%, piuttosto che per quell’Achille, favorito dalla Nereide madre che l’aveva reso quasi immortale. E, non fosse stato per quell’Atena, non so come sarebbe finito quell’imperituro duello.

Sul finire del capitolo 29 di Lo Zen e l’arte di manutenzione della motocicletta, Robert Pirsig cita il saggio The Greeks di H. D. F. Kitto in cui è descritta l’anima autentica dell’eroe omerico, che è rivolta mai agli altri ma principalmente a se stessa, per cui l’eroe greco aspira alla propria areté, all’eccellenza, alla supremazia nei confronti dell’Altro.

Leggendo il romanzo I principi del mare (come potrei definirlo, epico fantasy?) di Andrea Gualchierotti non si può che concordare con l’opinione dello studioso americano.

La scrittura di Gualchierotti è luminosa, di un chiarore in cui brillano come gioielli dei termini che costringono il lettore a continue e a tratti affannose ricerche googoliane: egli parla del “giaco”, dell’”immondo icore”, dei “selloi”, dei “ctoni”, dei “sistri”, delle “scuri hittite”, di “un petaso malconcio”, del “trono del megaron” e di altre amenità che rendono l’atmosfera dei fatti narrati come distaccata dal mondo odierno.

Protagonista del racconto è Alkas, principe di Dulichia, il quale, temendo che Ulisse, che già gli ha ucciso il fratello, che apparteneva alla schiera di quei Proci che aspiravano al trono di Itaca, lo stia cercando per completare la sua vendetta, decide di fuggire dalla isola in cui il padre è re.

Egli non cessa però di sognare di vendicare la morte del consanguineo non appena sarà possibile.

Giunto in terra straniera, adotta un nome falso e si vede costretto a raccontare “tante menzogne”, lui che era “abituato a parlare di solito con l’orgoglio sincero di un nobile. Eppure, anche l’astuzia è un dono degli dei…” – i quali pare apprezzino “chi ne fa un uso accorto”.

Zeus aveva di sovente trasformato la sua sembianza per adescare giovani donne diventando un’aquila, un toro, un pavone, una formica, un tafano e un cuculo e addirittura una pioggerella d’oro. Ulisse stesso era maestro in tali camuffamenti. Similmente a quell’odiato maestro, Alkas si veste ora di stracci, parendo quasi un medicante.

Egli è un valente principe che non sopporta le umiliazioni, per cui a un tratto si rivolta contro chi, per differenziarsi da lui, così si era definito: “… il mio nome è Anfotero, e servo la regina Calliroe. Tutte le guardie di Thyrreion rispondono a me!” – umiliandolo gravemente, per cui l’acheo “con il senno offuscato da una nebbia sanguigna” lo colpisce duramente coi pugni, venendo subito dopo catturato dai troppi guerrieri nemici e vieppiù maltrattato, tanto che il suo avversario dice di lui che “si comporta più da bestia che da uomo” – che è l’opinione comune di chi intende far valere sugli altri la propria supposta superiorità.

La regina capisce che “sotto la polvere che imbratta il viso si intravede un uomo che porta con sé orgoglio antico, oltre che infamia…” – meritevole sia di rispetto che di punizione. Ella ordina che sia lavato, affinché riveli le sue sembianze, che lo faranno sembrare “un giovane dio”. L’infida regina lo colma poi di complimenti, aprendogli la casa, dicendogli: “hai dimostrato col valore della tua impresa che porti sulle spalle la benedizione degli dèi immortali.” – il quale è un riconoscimento da parte di chi ti è superiore e, in fondo, nulla di più né di meno: di altro genere rispetto a te.

Un uomo, per quanto valoroso, non sarà mai immortale. Achille ne è un tragico esempio. Ma c’è chi intende frapporsi tra quegli Esseri Eterni e la caduca rimanenza dell’umano gregge.

La regina, mortale e perfida, gli ordina di uccidere il sovrano che ha la grave colpa di volerle stare sopra, mettendo in subordine il suo valore. Raggiunto lo scopo, quella donna malvagia gli getta in faccia un’atroce verità: egli dovrà perire “senza onore”, perché “a questo mondo gli uomini non sono altro che cibo per gli dèi.

In questo cosmo anaffettivo i nemici non sono altro che “cuccioli di cagna”, non dei simili in cui è bello riconoscersi, non fratelli, ma truci antagonisti che meritano ogni sorta di umiliazione, per sfamare “la grande dea”, la quale “vuole sangue, e saziarla è l’unico modo per smuoverne il cuore.” – e la ragione di tale misfatto è di chi ci guarda dall’alto, poiché è in quel Sommo Potere che risiede la sacralità a cui è doveroso ambire; ma occorre innanzi tutto colpire chi ci guarda dal basso ed è perciò privo di onore.

La doppia e segreta contraddizione è tanto evidente quanto che può essere solo negata. E la Storia è l’odiosa Madre di tutte le sopraffazioni, le invasioni, le ingiustizie, gli olocausti.

Dopo alterne fortune Alkas giunge in un luogo dove viene soccorso da uno anziano sconosciuto, che finisce per rinfrancarlo allorché pronuncia le dolci parole: “anche se lontano da casa, resti acheo, come me!” – e questo è un piccolo miracolo umano.

Si è tutti diversi, pronti a rincorrere i propri guai, se non fosse per il mito nazionalistico che dà una mano agli uomini affinché non si sentano più soli.

Acheo è Alkas, e acheo è lo sconosciuto, che si chiama Philèmone. Lo è anche l’odiato Ulisse, però. Philèmone odia il figlio di Laerte, perché ne ricorda ancora “l’immagine del volto ghignante”, mentre i suoi uomini lo gettavano a mare per ordine del loro capo.

Il sogno di ogni eroe è diventare il “wanax”, il sovrano, mentre il suo terrore è l’anarchia, quando “ciascuno di loro vuol essere un re”. Il dio altrui, che soccorre il tuo antagonista, è un “infame”, mentre il Dio che ti protegge è l’unico degno di adorazione.

Quando Egli salva un tuo consanguineo, tu ogni volta dirai: “sia lode alla misericordia di Zeus”, il padre di tutti gli Dei. Una pia illusione è però credere che, di due avversari, “quale dei due sarà il migliore, per la vita o per la morte, solo le Parche e il sommo Zeus lo sanno.”

Andrea Gualchierotti
Andrea Gualchierotti

Sulla copertina del libro spicca l’immagine terrificante di un mostro marino che sta tentando di azzannare un guerriero armato che si trova su una misera barca a vela e che cerca di contrastarlo con una fragile lancia. Mi viene in mente quell’acquaforte di Goya intitolato Il sonno della ragione genera i mostri. Come ci si potrà risvegliare?

Le avventure narrate da Gualchierotti sono irragionevoli e mitiche, e la loro assurda ragione mostrerà il suo aspro volto solo nella catarsi finale, come accade in ogni tragedia.

La temibile regina Calliroe resta, mostruosamente, sempre in agguato e “unicamente la presenza di un velo, laddove avrebbe dovuto trovarsi ciò che restava del viso, risparmiava ad Alkas il culmine di quegli orrori.”

Alla fine l’eroe compie il necessario rito, causando la provvisoria cessazione del Male: “il costone di roccia venne giù in una valanga di frammenti e polvere, sbriciolandosi”.

Il Male può essere celato alla tua vista, ma stai pur certo che sempre coverà, infido, nel sottosuolo.

La dea Ecate sbeffeggia gli umani: “Come sempre, voi mortali credete di poter disporre della vita come se dovesse durare per sempre, quando invece il vostro nome scompare con la rapidità di fumo disperso dal vento.”

La storia di Alkas potrebbe concludersi qui, ma la sua speranza umana non può ancora cessare.

“Quello che fino a poco prima era parso ad Alkas un umile vecchio” dimostra, nell’agnizione finale, di essere colui che andrebbe odiato per l’eternità.

Ma non conviene stroncarne la vita o abbandonarlo, se ci si vuol ancora illudere di esser vivi e degni di vivere.

La frase che termina il romanzo è incoraggiante: “La terra è piccola, in fondo, e in troppi gareggiano a governarla. A noi è dato invece un reame più vasto. Alkas: noi siamo i principi del mare!”

I principi, non più uno solo, perché questo salvifico uscire di minorità donerà a ciascuno un pezzo di libertà.

Dicono certi Dei che, a ogni scrittore che principia un’opera e a ogni lettore che si appresta a leggerla, occorre farsi quest’augurio: il mondo è , ove stiamo per recarci, ma è anche qui, il luogo da dov’è il sempiterno inizio della nostra folle avventura.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Andrea Gualchierotti, I principi del mare, Edizioni il Ciliegio, 2022

 

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