“Turbo Road” di Shaul Bassi: scoprire il Kenya ed i suoi scrittori
Nel leggere una nuova opera mi sorge, ogni volta, in quell’esatto punto e non più oltre, il momento di mettere per iscritto le mie impressioni, che per principio non sono mai critiche e valutative (non ho mai amato i voti da quando li subivo a scuola) ma, appunto, reattive a quel che vado leggendo.
A volte questo capita già nelle prime pagine e tale fibrillazione rallenta di molto la lettura; a volte succede solo alla fine, per cui mi dico che sarà dura ma che ce la posso, ce la devo, perché ce la voglio fare. Il richiamo alla scrittura avviene quando si fa cogente, come, in questo caso, intorno a pagina 200, verso la fine del Capitolo ottavo di Turbo Road di Shaul Bassi.
Mamma o mama Africa è il titolo di alcuni brani musicali, film, libri e questo ha un senso che può essere esteso. Io la definirei anche nonna, bisnonna, trisnonna, zia di terzo grado, avuncola, ava in genere. Proveniamo da lì e qualcosa che abbiamo dentro di noi (cosiddetti bianchi, europei, occidentali), cela ma contiene la nostra misteriosa negritudine, la stessa, intuisco, che ha spinto un venesiano (con la s integralista) a occuparsi di letterature africane. Il termine cilintranu ammuccià (che vale anche in siciliano) per nascondere viene dal normanno mucher, che deriva a sua volta dalla radice angolosassone magg, da cui much, mucchio, che si confà meglio all’idea che non smetteremo mai di accumulare del materiale perché non si scorga la nostra origine selvaggia, di chi illo tempore sviluppò nelle selve l’intenzione di andarsene Altrove.
Quando un passante venesiano viene intervistato da un reporter televisivo, oltre che usare l’accento lagunare, in genere mescola nel suo dire parole italiane al gergo avito. Che la mia sia una pur velata forma di razzismo? Non credo, perché ho attestato il fatto in numerose occasioni. Questo non significa che i venesiani siano più dialettali di altri italici, ma che lo siano in maniera spontanea e priva di complessi, limitandosi a parlare come gli viene meglio.
Le lingue sono confuse oppure divergenti? Poco ne cale. Il gutturnio è un vino piacentino mischiato fra bonarda (30%/45%) e barbera (55%/70%): da notare le possibili eventualità. I piacentini, poveretti, lo preferiscono al mio lambrósch. È un infinito conflitto fra beoni antagonisti.
Lo stesso capita con le lingue. Si mischiano, con-fondendosi, (ri)creando una nuova diversità. Sia essa benedetta, ma evviva l’unità. Allievo inconsapevole del teologo Padre Aldo Bergamaschi, sogno una lingua unica, non necessariamente l’inglese o l’esperanto, ma nemmeno il latino o il sanscrito, in nome di quella che Aldo indicava come la divisione delle etiche (e delle lingue, aggiungo io): se vuoi mangiare la carne il Venerdì Santo, fallo, ma non stare a condannare la donna che rifiuta lo hijab. Vuoi parlare arsan, sardo o svahili? Fallo, ma cerca di essere comprensibile e rispettare le scelte altrui. Libertà, unità nella diversità e nella mutua comprensione. Amen!
Mero idealismo? Sì!
Si può “scherzare sul fatto che in ultima analisi tutti gli esemplari di Homo sapiens vengono dal Kenya…” – se non dal “Botswana”, paese che, grazie alla solita zia di primo grado Wikipedia scopro che si trova molto più a sud.
“… oramai è meglio dire kenyano o keniano e non keniota…” – nel corso dell’opera l’autore finisce per scegliere il primo termine, con la y, più politically correct, anche se tradotto e non esatto quanto l’originale Kenyan o addirittura Mkenya (il cui plurale, mi suggerisce ancora zia Wiki, è Wakenya).
Per pura cronaca, reggiano si traduce per iscritto sia arşân che arŝân, ma sempre arsan (con la s di naso) tésta quêdra siamo (così ci chiamò il Tassoni nella sua Secchia).
“L’Africa ci appare più come la vogliamo che come è.” – questo il motivo per cui leggo e, quando ci riesco, viaggio (soprattutto nella mia ignota Italia), per tentare di scorgere la fuggevole ed heideggeriana verità che a volte basta soffiare e svanisce nel nulla, mostrando la sua falsificabilità.
In un brano di Ngȗgȋ, leggo: “Il nostro pero è ancora lì, ma come la siepe è un testimonio silenzioso…” – un martire non facilmente ascoltabile, eppure l’animismo africo (africu in dialetto reggino) che ogni tanto sento borbottare in me, confida che un giorno zia Wiki provvederà a tradurlo. In attesa dell’assurdo miracolo, a cui stento a credere, non posso che provare la consapevolezza che gli oggetti ascoltino tutte le parole umane ma non intendano trasmetterle.
“A dodici anni nostro figlio ha già visto abbastanza documentari ad altissima definizione in cui il suo continente viene definito…” – in vari modi soliti, tanto che è inutile riportarne, per cui ne scelgo uno che non è meno frequente e che amo di più: misterioso. Lo è anche il sudamericano e l’australe, più distanti dal nostro, eppure l’africano, dentro di me, pare il più esoterico, magico, conturbante, forse perché è così vicino e al contempo ineffabile, per cui la sua misteriosità è quasi tangibile.
Scrive l’autore: “Forse è più saggio continuare a raccogliere storie, orali e scritte, e lasciare le ipotesi alla sensibilità individuale…”
La lingua “dell’istruzione formale di un bambino africano era straniera, la lingua dei libri che leggeva era straniera, la lingua della sua concettualizzazione era straniera. il pensiero, in lui, assumeva la forma visibile di una lingua straniera.” – il riporto deriva da un’opera di Ngȗgȋ. Un analogo dramma è stato vissuto dai bambini delle campagne reggiane fino almeno agli anni ‘70, il cui idioma materno era il dialetto.
Dell’opera di Byniabanga Wainaina, dice “la poetessa Sitawa Namwalie”: “È uno di quei libri epocali” – aggettivo che sempre desta sospetti, perché ognuno ha le epoche che si merita, eppure dà l’idea. Opere che, spiega l’autore, hanno “segnato una svolta”: “perché l’autore parla solo di sé stesso.” Sempre tratto da un’opera di Wainaina: “… ho giurato di tornare alla mia lingua natale. L’inglese è la lingua dei colonizzatori.”.
Tutto è relativo: chissà come parvero parlare ai marsalesi i Mille liberatori testé sbarcati sull’isola dopo le tante ore di navigazione?
“La postura di quell’uomo, le sue espressioni, perfino il suo carattere cambiano da una lingua all’altra: in kikuyu, e anche in swahili, è il classico tipetto sfrontato di città, un controllore di matatu kikuyu. Quando parla kalenjin, gli viene un viso più delicato, più ricco di humour, ironico più che sarcastico, trattenuto lo sguardo timido.” – in italiano i matatu sono gli autobus, in arsan sono i tram (anche se non scorrono su rotaie).
Anch’io, quando parlo arsan assumo una posa più scherzosa di quando discorro in italico. Lo stesso mi capita quando parlo cilintranu o campano, ma in tali casi il mio gesticolare è diverso.
Muthoni Garland, kenyana del sud, arriva in America e scopre di essere nera. Mai prima ci fatto granché caso. “L’America bianca era abbastanza amichevole fintanto che non mi avvicinavo troppo.” – pensando a pieno diritto che “venendo da un continente in cui quasi tutti erano neri, non era il colore a definirmi.”
Nero/negro. Nigra sum sed formosa, Sono negra ma bella, la strofa è tratta dal Cantico dei Cantici ed è incisa sotto la statua della Madonna Nera di Tindari, una delle tante di quel colore scuro (ce n’è una anche a Czẹstochowa).
I’m negro and beautiful insegnava un docente di negritudine statunitense ai suoi ragazzi, ingiustamente chiamati niggers (con un’accezione negativa) dai razzisti bianchi. Mia madre diceva in dialetto nîgher, anche in relazione a un oggetto, per cui nero a me pare una mezza barbarie. Lei diceva anche: al sângov di nîgher l ē ros cme al nôster! – frase che non necessita di traduzione, I suppose.
“… la prima scrittrice kenyana di lingua inglese a essere pubblicata, Grace Ogot…” fu “… criticata da autrici africane più giovani per la sua celebrazione acritica del ruolo tradizionale della moglie e un’implicita accetazione del patriarcato…” – che è come dare dell’imperialista a Ennio Flaiano (autore di Tempo di uccidere) o di bracconiere d’alto mare a Melville. La colpa di Grace è che “la sua radicalità è in qualche modo dissimulata da uno stile letterario di bassa intensità…” – per cui la sua rabbia non si palesa a sufficienza, secondo il giudizio delle acidule colleghe.
Leggendo “della lotta di indipendenza” e delle scene raccapriccianti connesse, tenendo presente che Africa era avuncola anche degli albionici, penso ad alcuni detti pixuntiani, schietti e privi di moralismo vacuo e a volte quasi brutali: crisci figli, crisci puorci; quannu su muortu tinni fai nu tianu (un tegame). I giovani hanno sempre cannibalizzato i vecchi, scavando là dove quelli hanno costruito, seppellendo idealmente i loro cadaveri e giungendo a distruggere la cultura vecchia fin alle sue fondamenta.
Sempre più spesso accade che i genitori si trovino di fronte della progenie che ha atteggiamenti e idee per loro incomprensibili, tanto che spesso si chiedono: M’è figliu? Quello che sfugge a tanti è che noi homo sapiens siamo tutti le ingrate creature del medesimo australopitecus.
Leggo a pagina 125 che nel traffico di auto a Nairobi, “a tutti gli incroci vige il principio dell’‘avanti il prossimo’ in cui ognuno è pervicacemente convinto di essere il prossimo.” Suggerisco il metodo tcrapanese (dove il tc è essenziale per capire) in vigore negli anni ’80, che funzionava quasi sempre: passava chi aveva suonato per primo il clacson. Tre anni fa m’è capitato di attestare che tale metodo è ormai in disuso, per cui in genere passa chi ne ha il diritto secondo il codice della strada. Sconsiglio il metodo nocerino dove alle rotonde ha la meglio chi tene cchiu cazzimma: costui, entrando, costringe chi vi è già immesso a frenare di botto, rischiando il botto sul retro.
“In assenza dello stato, o in presenza di uno stato vessatorio, questa setta fanatica diventa un punto di riferimento simile alla mafia.” – si parla dei Mungiki. E questo mi ricorda che ciò accade tuttora in Italia in alcuni paesi dove lo stato latita oppure opprime a causa dei suoi notabili corrotti.
“… centinaia di persone cercano di sopravvivere scavando tra i rifiuti…” – anche a Santa Croce Fuori Le Mura, dove vivo io, da non confoncere con l’area dove risiede al Popôl Gióst, che è nelle vie Al Di Dentro Delle Stesse, in via Roma e traverse varie. Oggigiorno la percentuale di extracomunitari dentro e fuori le mure (atrocemente abbattute a fine ‘800) è però analoga. In via Adua e nelle sue traverse vedo spesso passare un ciclista (forse ghanese, forse no), che porta con sé una dozzina di sacchetti si plastica per lo più bianchi e colmi di materiale eterogeneo che egli usa raccogliere nei bidoni della spazzatura o nelle isole ecologiche. Talvolta l’ho visto stazionare all’uscita di alcuni supermercati a chiedere l’elemosina o l’euro del carrello. Quello che mi colpisce di lui è lo sguardo sempre ironico ed empatico. Tutto questo mentre a Nairobi, “Chokoraa, ‘rifiuti’, è anche il nome affibbiato ai ragazzi senza tetto.”
Un secco giudizio conclude il Capitolo settimo: “L’eguaglianza che cerchiamo dev’essere quella dell’opportunità e dei diritti, un mondo senza differenze è destinato comunque a morire.” – l’agnus alius, l’anomalo, non occorre sacrificarlo, essendo già sacro ed essenziale in sé.
“Cosa inibisce l’uso di immagini di bambini derelitti in una fogna rumena o in una periferia italiana o in un ghetto statunutense?” – brutti, sporchi e cattivi, come nel film di Scola, meritevoli però di attenzione e di visibilità, a thing of horror is a disgust for ever – cantava un rimeditato Keats. Un giorno scorsi la foto di un mio coetaneo (otto o nove anni) di pelle nera, con tre arti su quattro amputati, dal viso mangiucchiato dalla lebbra, per cui volsi lo sguardo inorridito. Ma ancora mi tormenta, ora che ci ho aggiunto oltre mezzo secolo, e mi sta ancora fissando con quel suo viso sgomento, e non mi pare per nulla invecchiato.
Uno scrittore kenyano vale se una sua opera è diventata un testo scolastico e questo mi disturba un po’: non lessi I promessi sposi al Liceo, affidandomi ai riassunti scritti di una mia consanguinea, salvo divorarlo per conto mio qualche anno dopo.
“… l’insegnante di inglese Mr. Isuvu viene incaricato di sorvegliare che gli alunni non usino il loro ‘dialetto’…” – dei miei tempi ricordo il cartello affisso nell’atrio della Scuola Media, che recitava: Vietato parlare in dialetto. Gli arsan nati intorno agli anni ‘50/’60 sono stati depauperati dell’idioma materno. Per fortuna mia madre spesso e volentieri l’ha utilizzato quando si rivolgeva a me, specialmente quand’era furiosa per qualche mia marachella.
L’ottantaquattrenne che decide di andare per la prima volta a scuola, quando la legge kenyana ha sancito “l’istruzione elementare gratuita”, mi ricorda quella nonnina che pareva così orgogliosa di sé in una puntata di Non è mai troppo tardi, salvifica trasmissione condotta dal mai abbastanza elogiato maestro Manzi. Linda Zuelli, mia nonna paterna, nata nel 1881, rimase analfabeta, pur sapendo ricamare le sue iniziali sulle fodere dei cuscini.
Una “poesia di Marjorie Oludhe Macgoye”, molto toccante, “racconta le disavventure e la morte di una giovane ragazza, Atieno, che fa la schiava domestica della sua famiglia ‘progressista’.” Nonna Linda affidò l’unica figlia Zaira a una famiglia di agricoltori abbienti, che l’adibirono a servire in casa e nei campi: una dei tanti servitör. L’uomo che Zaira sposò, Nello, era uno di loro.
Nelle scuole kenyane “il cristianesimo è materia obbligatoria”. Anche in italia, dal 1929, anche se da qualche anno è possibile per l’alunno fare obiezione di coscienza e optare per una lezione alternativa, uno studio individuale assistito o richiedere un ingresso o un’uscita anticipata.
“Per alcuni è una vera e propria scoperta che la loro lingua madre possa essere scritta e letta…” – avendo “una dimensione assolutamente orale, familiare, che non si presta all’oggettivazione su una pagina, tantomeno stampata…” – cosa comprensibile, in quanto verba volant e, prima che si tramutino in scripta che manent, ce ne vuole. La differenza di grafie della parola arsan, che ha in ogni caso il mesimo suono è ben poca cosa rispetto alla pronuncia di altre parole. Un esempio, si fa per dire, classico è la parola cajòun (coglione), che alcuni pronunciano cujòun, altri cojoun, a seconda dell’etnia, pardon, del comune di appartenenza. Io opto per cajòun in quanto meglio s’adatta al detto Tót i cajòun a gh ân la só pasiòun, che non m’azzardo a tradurre, tanto è lampante. Le differenze si accentuano man mano che ci si allontana dal capoluogo, dove l’idioma si è similmente imbastardito con le lingue di passaggio, mentre ben altre dissonanze (paradossalmente convergenti) sono fra le pronunce montanare e quelle dei paesi limitrofi al Po, più classicamente vernacolari. Oggi tutto sta cambiando ancora. Il pixuntiano non è più incontaminato come lo era un secolo fa, in quanto i giovani vanno altrove a laurearsi. Feci in tempo a vedere nel 1992 un’anziana che portava in testa, sopra la spara, il panno attorcigliato su cui sono trasportati i pesi sulla testa. Interessante è il fatto che quest’usanza, che noi visi pallidi riferiamo alle africane, era un tempo diffuso in tutt’Italia: in italiano spara è torsello, oppure cercine, dal latino circinus, dal greco kìrkos, titibi in sardo, fitik in friulano, svitec in triestino. Ebbene, da quando le donne non la portano più, decennio più decennio meno, i giovani non dicono più castieddu ma, avendo studiato colà, castiello.
Qualora un giorno l’autore voglia sapere dove a sia piantê (espressione arsana) il paese pixuntiano, se me lo chiede, glielo dirò.
Grazie a quanto egli scrive al termine del capitolo ottavo, scopro che esiste un “Giudaismo messianico” il quale “accetta Gesù come Messia” – e la domanda cogente è: quanto durerà? La frase finale è da incorniciare: “l’ebraismo è bello perché è vario” – essendo così assurdamente somigliante al resto del globo terracqueo.
Stavo scordando l’essenziale: “Turbo road è una strada corta e sterrata nella parte occidentale di Nairobi”, dove l’autore con la famiglia ha “abitato per oltre sette mesi”. Nella famiglia il primus inter pares, battuta non so quanto spiritosa, è PK, il bimbo kenyano che è stato adottato dalla coppia: “adottare un figlio significa anche confrontarsi con una storia piena di vuoti fattuali ed affettivi, alcuni dei quali incolmabili.” – aggettivo terribile a cui suggerisco l’aggiunta dell’avverbio quasi. Nel 2012, “a Turbo Road abbiamo visitato per oltre sette mesi, coltivando la nuova famiglia…” – per tutto il tempo burocraticamente necessario per l’adozione e utilizzato per conoscere di persona vari scrittori locali, per tornare quattro anni dopo a Turbo Road, ancora insieme alla moglie e a PK.
En passant, quando l’autore parla di quest’ultimo, si scioglie regolarmente in una commossa e fluida laguna.
Dice un muzungu (= viso pallido) di nome Georg Wilhelm Friedrich, e di cognome Hegel: “… per il negro, fermo alla sfera dei sensi, la came umana è solo qualcosa di sensibile, è una carne qualsiasi.” – servibile in nu tianu. È stato però assodato che non più di un camitico su due o tre di miliardi è stato cannibale.
“… e oggi per le calli di Venezia PK vede molti ragazzi nigeriani appostati agli angoli che sbarcano il lunario facendo leva sulla compassione delle persone, scansando gli improperi dei pochi e l’indifferenza dei molti.” – anche la mia… Oggi m’è capitato all’uscita di un supermercato, quando un baldo giovane, un picajòun êlt êlt, uno spilungone alto alto, ghanese?, nigeriano?, senegalese? (che sono le tre nazionalità africane più diffuse a Reggio Emilia), si avvicina e comincia ad aiutare a scaricare il carrello, al che io gli dico, Non ti sforzare!, ce la facciamo da soli!, non vedi che muscoli abbiamo!, e lui, imperterrito, come se fosse sordo, continua a servirci, Ma non ti preoccupare!, continuo a dirgli, e lui persevera, e io: No, tu intendi preoccuparti! Al che una mia consanguinea dal cuore meno duro del mio gli concede il carrello con l’euro inserito. Due cose mi hanno colpito. Una è la mia simulazione d’indifferenza, l’altra è la sua simulazione di atarassicità.
Nella mia vita professionale ho avuto a che fare con un numero considerevole di lavoratori e ho attestato che gli extracomunitari costituiscono un’abbondante porzione del personale delle cooperative di movimentazione merci-facchinaggio. Anche questo carrelliere avrebbe potuto cercarsi un impiego presso una di esse. Non me la sento di garantire però che la ditta gli avrebbe corrisposto tutte le spettanze contrattuali. Diversamente, non avebbe senso l’esistenza dell’Ispettorato del Lavoro. Sic transit gloria laboris!
Turbo Road è essenzialmente un libro di viaggio (del corpo e dell’anima dell’autore), ma anche un saggio sulla letteratura kenyana. Talvolta l’autore riporta alcuni giudizi altrui, sottopondoli però a critica, e ogni volta egli cerca di eliminarvi quella crosta che spesso è dovuta a invidie e gelosie da parte di altri letterati kenyani.
Non rari sono i suoi giudizi, mai accigliati o negativi, ma sempre descrittivi, come in questo caso: “… al contrario di Rushdie, Oswuor non teme il registro lirico e sentimentale, non usa la distanza ironica o i giochi di parole per tenere in scacco le emozioni e anzi le attraversa senza riserve.”
La rivista più citata è Kwami?, che in swahili signifcia Perché?
Un intervento da parte di un noto autore e fumettista, Patrick Gatara, potrebbe suonare ricco di speranza: “Possiamo ancora trovare un accordo su quello che c’è bisogno di fare perché nel corso del prossimo secolo il nostro paese sia più unito, equo e prosperoso.” Shaul teme però che l’articolo sia stato scritto “in quello che probabilmente rimarrà l’ultimo numero della rivista…”.
Binyavanga Wainaina scrive della bellezza di vivere delle cose minute: “… Specialmente qui in Kenya dove sono le interazioni atenerci insieme. ora che lo Stap sta crollando, a legarci sono i piccoli momenti di grazia, le relazioni interpersonali, la fiducia nel lingaggio del corpo.” – anche qui in Italia! Prima o poi, caro Shaul, ha da finir ‘a nuttata, bianca, scuretta o nera che sia. Speróm!
La cosa che più m’ha affascinato del tuo libro è il fiorire diffuso di termini di cui ignoravo l’esistenza (come a te sfugge il significato dei termini cilintranu e pixuntiano). Sappi che ho dovuto faticare non poco per trovare su Uncle Google il termine “colobi” (colobinae jerdon), mentre non ho avuto problemi con “kudu” (o cudù), “galagidi” e “bufaghe beccogiallo”.
Sapere che molti kenyani sono poliglotti (conoscitori di cinque o sei lingue) mi fa gonfiare d’orgoglio quando penso che so un po’ l’italiano, l’arsan, il pixuntiano, l’amalfitano, un po’ di latino, d’inglese e di francese. Nella prossima esistenza punterò sullo swahili, ma anche sul gikuyu e sul kamba, anche se m’attizza di più, lo confesso, il sanscrito antico.
Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era di mezzo burocrate (l’altra metà era, appunto, altra). Mi capitò una mattina allo sportello un camitico, non ricordo se ghanese o nigeriano, ma forse era senegalese (con gli occhi delicatamente arrossati), a cui chiesi dove abitasse. Rispose: Rubêra, che in rubierese vale per Rubiera (comune sito fra Reggio e Modena).
Esiste un’espressione italiana che sentii per la prima volta quando Vasco il Blasco dedicò il suo concerto del 3 agosto 1987 a delle persone che io avevo già incontrato nelle spiagge ma che solo da allora avrei saputo definire in modo icastico.
Il termine si fonda su due parole derivata dalla lingua di Cicerone, Seneca e di quell’imperialista di Cesare: Volo-is = volere e comparare = confrontare. Quando si compra occorre verificare se il costo vale il prodotto in vendita. Da cui vu cumprà: se cerchi su zio Google trovi un’aspra definizione: venditore ambulante straniero, per lo più abusivo.
La bellezza delle lingue! Se cerchi sempre su zietto la sua traduzione in swahili, trovi vu kumpa. Kumpa indica il gesto di dare un oggetto.
Concludi la tua opera con la poesia in kikuyu che Ngȗgȋ ha dedicato a P K (a.k.a. Peter Kariuki). PK, detto per inciso, è la sigla dei fumetti di Paperinik. Non volendo essere da meno e per dimostrarti che questa non è una recensione, e nemmeno una critica, e forse neanche un articolo, ti dono una poesiola, che dedico alla mammina di PK (scritta in swahili perché al momento Uncle Google non passa il kikuyu):
Mzazi mmoja
Jana, nikitembea kupitia Adua, naona
kuja nje ya ua mbili, hebu sema, kwa
mchezo wa odds, mbili
wahamiaji kutoka Ghana. Reggio imejaa.
Wanazungumza kwa lugha gani, labda
Kiingereza, lakini sina uhakika. Mimi sio Oxfordian,
I. Kila mara (mara nyingi) mimi hukutana katika hilo
mbali, kwa muda mrefu na moja kwa moja, watu kutoka Kila mahali. Na
kila wakati lugha yao inaonekana kwangu kuwa ya
ulimwengu ambao hautajulikana kwangu milele.
Ghafla mmoja wao anashangaa: Mamma mia!
Na ya Mama mia! kuna moja tu.
La sola genitrice
Ieri, passeggiando per via Adua, vedo
uscire da un cortile due, diciamo, per
il gioco delle probabilità, due
emigrati del Ghana. Reggio ne abbonda.
Parlano in non so quale idioma, probabilmente
inglese, ma non ne son certo. Mica sono oxfordiano,
io. Ogni tanto (spesso) mi capita d’incontrare in quella
via, lunga e dritta, persone provenienti da Ovunque. E
ogni volta il loro idioma mi pare appartenere a
un mondo che mi sarà per sempre ignoto.
All’improvviso uno di loro esclama: Mamma mia!
E di Mamma mia! ve n’è una sola.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Shaul Bassi, Turbo Road, Meltemi Editore, 2022