“Maxi Tex I quattro vendicatori”: testi di Claudio Nizzi, disegni di Giampiero Casertano
Tex, come tutti gli umani, alla mattina, quando si alza, dopo essersi guardato in giro, fa la pipi, prima di vivere la sua eroica giornata. A sera poi andrà a letto, dopo una frugale cena, dormendo con un occhio solo, perché il pericolo è sempre dietro l’angolo, laggiù, nel West.
Nonostante questa normalità, egli è un uomo che cavalca gli eventi, come se fossero dei cavalli bai, incorruttibile da ogni miseria umana e fisica, per cui l’entropia cosmica stessa finisce con l’indietreggiare rispettosamente davanti a lui.
Kit Carson è quasi altrettanto irraggiungibile, come del resto l’altro Kit, figlio di Tex, nonché l’ineffabile Tiger Jack, oggi misteriosamente assenti.
Ecco che questi baldi eroi paiono le quattro immagini del medesimo Dio dell’Avventura, dove il primus inter pares è colui che viene chiamato Aquila della Notte dai suoi navajo, l’inossidabile, seppur talvolta feribile, ma inarrestabile Tex.
Ogni avventura pare una nuova rappresentazione della medesima Liturgia, diversa ogni volta, come differenti, ogni domenica, sono le Letture tratte dai Libri Sacri, sempre però inquadrati nella medesima funzione religiosa.
Ognuna ha una sua novità. In questa spicca una cosa che quasi disturba: un ripetersi esagerato dei battibecchi fra i due ranger. Tex sta ora ironizzando sull’abbuffata di cibo che il dionisiaco Carson ha consumato al ristorante, mentre il suo pasto “era molto simile a un digiuno quaresimale”, rispetto a quella dell’amico, che gli rinfaccia di aver “vuotato il vassoio delle patatine senza darmi nemmeno il tempo di vederle.” – e il bisticcio, che dura quasi tre pagine, è quasi insopportabile, specie quando Tex cita un proverbio testé da lui inventato: “… il raglio degli asini colpisce, ma non ferisce”, e Kit teme giustamente di esserne il riferimento in carne e ossa. Nell’ultima vignetta di pagina 70 cala il sipario della discussione, quando Kit chiede com’era cominciata e l’altro gli risponde: “Quale discussione?”.
Fosse andata avanti ancora un paio di pagine, per ripicca inconsapevole, avrei calato l’attenzione alla vicenda, che invece sta ora intensificandosi.
Le prime scene riguardavano un fatto orrendo. Alcuni ex soldati dell’esercito confederato sudista hanno compiuto la loro vendetta, facendo fare al colonnello Forrest, che fu nordista, la stessa orrenda fine che, quando quello era il comandante del campo di prigionia di Helmira, egli periodicamente si divertiva a infliggere ai suoi prigionieri di guerra.
Il comandante di Fort Wingate sta ora affidando a Tex e a Carson l’ardua missione di accertare quel che è successo e d’individuare i colpevoli di quel sequestro, perché non si capisce quale possa esserne la motivazione. Tex tranquillizza l’ufficiale, accettando l’incarico e promettendo di sbrogliare quella dura matassa e Carson, che lo guarda, non può fare a meno di pensare: “Sempre ottimista lui!”
Accompagnati da un certo Hank, che era il conduttore della diligenza in cui viaggiava il colonnello Forrest, scoprono i miseri resti di quest’ultimo, dopo aver sparacchiato in aria agli avvoltoi (che tex chiama “becchini volanti”) che stavano banchettando allegramente con la carne imputridita del militare.
A suon di ceffoni, aspri inseguimenti e annesse sparatorie, mentre Carson ha l’incarico di tenere d’occhio la finestra della fattoria (e in questo mi pare un batterista che si limita a segnare il tempo della musica), Tex riesce a far fuori, sia pure involontariamente uno dei colpevoli, rimanendoci male, per cui dice: “Dannazione, l’ho fatto secco!” – e questo capita spesso, caro, nelle tue storie, ma tranquillo, dai!
Sul treno che conduce i due pard a Santa Fe, continua il bisticcio fra loro due, per esempio sul fatto che Kit dice di essersi “solo appisolato un momento”, mentre Tex lo avverte che ha “dormito per un bel po’.” – beh, alla fine sono soltanto sciocchezze. Però i due necessitano di una vacanza, mi sa.
I nostri due eroi a poco a poco scoprono chi sono i colpevoli del delitto e, dopo averli rintracciati e neutralizzati, ora non rimane che andare a trovare il capo dei capi, il colonnello ex sudista Hamilton. Ex? No, anzi, come tutti gli altri, egli si sente ancora un federalista, costretto a vivere sotto il giogo di una dominazione straniera a cui non riconosce alcuna autorità.
Strana e filosofica figura, quella di Hamilton. Ha appena confessato a un complice d’essere ammalato di cancro e che scamperà ancora pochi mesi. Mentre Tex sta entrando nella sua abitazione, gli dice, con atarassica serenità: “Entrate, Willer. Mi aspettavo la vostra visita.” – e poi s’informa di cosa stia succedendo. Tex gli risponde schiettamente: “Abbiamo dovuto abbatterli prima che ci sbranassero.” – alludendo a quattro cani furiosi; ma va da sé che il discorso si può estendere ai suoi avversari umani, anche a Muller che, dice il ranger, è stato neutralizzato anche lui, anche se “prima ha tentato di spedirci all’inferno.” – e tutto questo bailamme non rappresenta una novità rispetto agli album passati. Eppure, qualcosa ancora non quadra…
Lo ammette anche Kit, quando, uscendo dalla casa del colonnello, dice a Tex: “Mi venga un accidente se avrei mai immaginato che le cose avrebbero preso questa piega!” – e il pard non può che ribattere: “A chi lo dici!”
Il colonnello fa pena a entrambi, anche se per Tex non si può “dimenticare che ha creato la sua fortuna a spese della brava gente…” – di quel paese. Hamilton aveva però precisato che, pur non andando “fiero di quello che ho fatto”, la sua “è stata una forma di rivalsa contro la distruzione del mondo in cui era nato e cresciuto, fatto di eleganza e di buone maniere, che oggi rimpiango profondamente.”
A Carson, che gli ricorda che in quel raffinato mondo “gli uomini di colore vivevano in stato di schiavitù”, Hamilton ammette che è vero, anche se “nella mia famiglia gli schiavi erano stati liberati molto prima che arrivassero i nordisti a imporcelo con le armi. E venivano trattati meglio di quanto facciano oggi i loro ‘liberatori’.”
La sua “è stata una rivalsa contro il nord, a cui non è bastato sconfiggerci sui campi di battaglia, ma ha compiuto i più vergognosi ladrocini i danni della nostra gente umiliata e impoverita dalla guerra.” – e aggiunge: “Non si era ancora spenta l’eco dei cannoni, che già torme di speculatori scendevano dal nord come avvoltoi, per derubarci delle nostre case, delle nostre terre, del nostro sistema di vita” – e la sua violenza è nata come reazione a quella altrui: “ci siamo ripresi con la violenza ciò che con la violenza ci era stato tolto.”
Mi domando in che misura l’attuale temperie bellico-politica abbia influito nella confezione della presente Storia.
Ogni parola è stata pronunciata con una serenità mista a malinconia e a profonda tristezza. Hamilton sa di essere un imminente morituro e che tutto andrà per lui sarà perduto, rimanendogli quell’incerto onore che è disposto a difendere coi denti.
Scende in cortile e sfida Tex a un duello con la pistola (senza manco caricare la propria).
Oltre un centinaio di pagine prima, un certo Harry Vernon, anch’egli facente parte della congiura, aveva spiegato ai due ranger che “il colonnello Hamilton aveva giurato di vendicarsi.”
Vernon non era un uomo d’armi, ma un semplice contabile e, pur considerandosi “un inetto con le armi”, considerava i suoi solidali come degli eroi.
Poco prima dell’arrivo dei due pard, il colonnello, presagendo la fine, aveva detto ai suoi servitori neri: “… nel cassetto della scrivania troverete del denaro e una busta gialla che contiene il mio testamento.” – in cui era scritto che “in mancanza di figli e di altri parenti”, ogni suo bene era loro destinato, come premio della loro indiscutibile “fedeltà”.
Dice Tex: “Il colonnello non passerà i suoi ultimi giorni in un carcere…” – pronta replica di Kit: “Amen… e così sia!”.
Tutte le guerre sono crimini contro l’umanità. È concessa la legittima difesa, ché diversamente Tex e C. sarebbero trapassati da tempo.
C’è da chiedersi se non sia meglio rimanere nella propria riserva, luogo chiuso ma sicuro; oppure inseguire l’ultimo sogno, quel Saṃnyāsa che, si dice, conduce verso il culmine della vita spirituale d’un asceta.
Con tutta la mia volontà non riesco a immaginare il mio Tex assiso nella posizione del loto, non più intento a fissare alcunché, che non sia un fagocitante punto di non ritorno, una Singolarità da cui non si riesce più a evadere.
Inoltre, Tex è mosso da un’aspra dea che non gli concede mai requie. I Greci la chiamavano Dike, i romani Iustitia.
Il ranger pare di un inguaribile ottimismo quando, a uno scettico pard, che gli dice che c’è poco da stare allegri, risponde: “Su con la vita, vecchio gufo! Secondo la strega papago camperai fino a cent’anni, mentre io ho firmato un contratto di immortalità.”
Tornando agli umani che vivono la loro breve seppur caotica esistenza, ricordo che Agatha Christie diceva che si uccideva principalmente per tre motivi: passione, soldi o vendetta. Ciò non giustifica alcunché, ma spiega un mucchio di cose.
Pur non servendo granché rinvangare il passato, coi suoi misfatti e miserie, giova ricordare che la violenza ricrea sempre se stessa, i delitti conducono ad altri delitti, che le colpe non se le vuole addossare nessuno, e che solo ad alcuni (a Tex, a Kit e a pochi altri) interessa rinvenire una soluzione, dovunque essa vada celandosi.
Pare a Heidegger che la Verità, qualora esista davvero, sia dispettosa e fuggevole. Eppure Tex non ha mai smesso di darle la caccia! Maldita bandolera!
Non posso che concordare con quel vecchio cammello di Kit, saggio nonché epicureo. C’è ben poco da fare in questo planetario e montaliano male di vivere, perciò… Amen… e così sia!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Claudio Nizzi, Giampiero Casertano, Maxi Tex I quattro vendicatori, Sergio Bonelli Editore, Ottobre 2022
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