“Una storia incontra la storia” di Vainer Burani: una vita con poeti e rivoluzionari di tutto il mondo
In genere si indica la storia di piccoli uomini e donne con la s minuscola, e quella che coinvolge l’umanità intera con quella maiuscola. Similmente, si può dire tanto il Dio quanto il dio delle piccole cose (celebre romanzo di A. Roy), ma si dice necessariamente nel nome di Dio Padre l’Onnipotente. Tutto cambia a seconda che il nome (o il Nome) sia inteso come comune oppure come proprio. Eppure nessun Dio, che io sappia, possiede un Suo Codice Fiscale e il relativo Tesserino Sanitario, né può esibire un certificato di residenza.

La lettera maiuscola la si pone per attirare l’attenzione: ecco che mi viene l’idea che, per la storia dell’intero genere umano, la maiuscola non serva affatto, perché incombe comunemente (basta leggere un giornale o accendere la tele). A raccontare la vicenda di Stefano, un bambino che non si voleva alzare dal letto, fingendo di dormire ancora, e allora la mamma gli diceva: Lo so che sei sveglio! e gli sollevava la coperta e le lenzuola ed, essendo inverno, e in quel tempo non esistevano i termosifoni, faceva tanto freddo, allora si deve intendere la Storia di Stefano, anche al fine di riscaldarlo, povero piccolo, con l’iniziale decisamente alta.
Un libro lo si può iniziare a commentare da pagina 5, 36 o 72, o dall’ultima pagina, o dove vuoi, anche dalla prima di copertina. Reagisco già a pagina 2 ne Una storia incontra la storia, dove si spiega che si tratta di una “composizione di fotografie storiche” – e che nei cinque cerchietti sono raffigurati altrettanti eroi (o presunti tali, perché la storia, a ogni suo incrocio, può presentare, per fortuna e per disgrazia, divergenze di opinioni) della libertà. C’è anche, “sullo sfondo Tommie Smith e John Carlos, con il pugno alzato, alle olimpiadi del 1968” – mentre a sinistra, silente, fa capolino un certo Peter George Norman, inclito eroe anche lui, medaglia d’argento, il cui nome è stato quasi dimenticato (ho dovuto cercarlo su Google). Era stato medaglia d’argento nei 200 metri, assurdo viso pallido fra tanta fiera negritudine. Pochi sanno che la solidarietà da lui espressa pubblicamente gli costò il favore dell’opinione pubblica del suo paese.
Il libro di Vainer Burani tratta di persone che hanno lottato per la libertà e per la democrazia, concetti che per me differiscono appena, in quanto sono entrambi fondati sul medesimo principio: ogni uomo è diverso dall’altro, ma al contempo deve godere di uguali diritti.
Nel primo capitolo, che tratta della generazione precedente alla sua, e poi della propria, l’autore ricorda che “il regime fascista” ha costretto “un’intera generazione di giovani mandati a combattere una guerra non loro” – come poteva capitare a lui, o a me, e com’è successo anche nei decenni passati. In Italia oggi il servizio militare non è più obbligatorio e chi sceglie di svolgerlo lo fa per scelta o per necessità economica, intendendolo come un mestiere simile agli altri.
“Burani Luigi figlio di Giovanni e di Panini Albertina, Matricola 38891”, spiegò ai figli “che, fra loro, i soldati italiani e i contadini greci che vivevano nelle zone occupate, non c’era ostilità, ma una collaborazione fra contadini, che parlavano un’altra lingua, ma erano vittime della stessa guerra.” – il parlare lingue diverse e l’appartenere a una differente nazione rappresenta a volte un grande problema.
Sogno un’unica lingua (magari l’esperanto), eppure ci tengo a salvaguardare i vecchi detti in arşân, il più bello dei quali è piânşer fa trî e réder fa trî: se il risultato è lo stesso è meglio farci sopra una risata; il più saggio continuerà per sempre a essere tót i cajòun a gh ân la só pasiòun – tutti, eroi, aguzzini o santi, coltivano con amore il proprio prezioso e a volte immondo ideale.
La divisione fra nazioni e la confusione sui significati delle parole delle lingue sono alcune delle cause principali delle guerre. Il principio che reca alla difesa dei propri ideali, che diventa talvolta offesa a quelli altrui, per cui quel che è affermato nel titolo del paragrafo è La rivoluzione non è un pranzo di gala, ma un atto di violenza con il quale una persona prende il posto di un’altra, finora non ha falsificato la teoria di Tancredi Falconieri, personaggio de Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che disse un giorno al nobile zio: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Contro il muro di gomma della storia, che pare rimandare tutto indietro, sono andati a sbattere una caterva di eroi, molti dei quali persero la vita e tutto quanto possedevano, senza mai rinunciare ai propri ideali.
Il mio teologo, padre Aldo Bergamaschi, nelle sue Omelie, a cui assistevo ogni festa comandata pur non essendo credente, fautore di un’unica lingua al mondo (più l’esperanto del latino, diceva), confidava nella costruzione di un’Eu-topia, un’Ecclesia, “un modello di convivenza in cui siano risolte tutte le alienazioni dell’uomo, da quelle religiose a quelle socio-economiche”, in cui fosse finalmente risolto il conflitto fra padrone e operaio, fra stato e cittadino, fra donna (e uomo) e uomo (e donna). E in cui si assistesse a una divisione delle etiche, cioè a una loro convivenza, purché ognuna di esse fosse conciliante con tutte le altre. Chi vuole mangiare carne di maiale lo faccia, ma non guardi con disprezzo e ira chi non la pensa come lui. E viceversa. E il rispetto deve sempre riguardare tutti e tutto, purché nel prossimo tu veda un tuo simile, e non un antagonista da combattere. Questa Eu-topia non esiste ancora, ma è stata soltanto immaginata. Forse è soltanto una favola, una Terra di Nessuno, in cui io, ignorante di Dio, vorrei chiedere asilo politico.
Secondo Marx “la violenza” è “la levatrice della storia” – il che “rendeva legittimo resistere in ogni modo” – tale concetto ostetrico è scritto a pagina 21 e ripetuto due pagine dopo. Violenza deriva dal latino vis, forza, ma anche prepotenza. Virus le è consanguineo: la radice indoeuropea vis- è adattabile a qualsiasi necessità umana, essendo il vigore quel che ci permette d’avanzare, d’aiutare il prossimo a camminare, oppure di calpestarlo con rabbia.
Il giornalista salvadoregno Armando Herrera, scrisse di aver conosciuto il professor Vainer Burani, quando fu da questi invitato a parlare della propria esperienza nella classe dove quello insegnava, all’Istituto Don Zefirino Iodi,: “Vainer è un uragano. È l’attività in sé. Non riposa nemmeno quando dorme; la velocità è la sua esistenza. Mangia, parla al telefono, legge i giornali e conversa allo stesso tempo…” – che è una frenesia caratteristica del prototipo arşân. Mia madre diceva a se stessa: Su, Rosina, mèt ‘na gàmba davànt’a cl’êtra – metti una gamba davanti all’altra. Una tipica locuzione reggiana è dàt na mosa… Muoviti! Pochi tipi umani sono più virulenti (e a volte perniciosi) di noi reggiani, che sappiamo essere, quando occorre, arditi e combattivi. La nostra tradizionale testa quêdra, celebrata dal Tassoni, sicuramente reca il suo bel (si fa per dire) contributo. Ancora: l’arşân l ē brót ma s-cèt – brutto ma schietto, e Vainer Burani e il sottoscritto ne siamo la marmorea conferma.
L’autore scrive delle sue origini familiari, delle sue esperienze di studente contestatore e della sua militanza in Radio Tupac, celebre emittente reggiana, che fu ispiratrice per molti giovani, malvista dalle istituzioni e soggetta a controlli da parte della polizia; e, dopo aver conseguito la sua laurea in Lettere, della sua attività di docente di scuola pubblica, presso cui lavorò “fino al 6 ottobre 1980, quando sono stato, di nuovo, arrestato, stavolta con l’accusa di aver promosso una associazione sovversiva costituita in banda armata e di una serie di reati specifici…”.
La sua detenzione preventiva si concluse “il 28 aprile 1983, con un’altra assoluzione”.
Infatti, nel febbraio 1979, la polizia aveva “fatto irruzione nei locali di Radio Proletaria, dov’era in corso una riunione nazionale pubblica, del centro Nazionale raccolta Dati sul Carcere e ha arrestato tutte le ventisette persone presenti; fra queste c’ero anch’io.” – e quella volta gli era andata decisamente meglio: “poco più di due mesi di carcere preventivo”.
In galera Vainer Burani cominciò a studiare Legge, finendo di laurearsi nel 1986, quando era tornato a essere un uomo libero. Continuò poi a insegnare nelle scuole fino al 2018, alternando tale attività a quella, sempre più impegnativa, di avvocato.
Molti personaggi e autori celebri, come Luis Sepúlveda, accettarono di venire presso l’istituto tecnico in cui lui insegnava, riuscendo ogni volta a stabilire con gli studenti una correlazione che, immagino, mai cesserà. Dice ancora Armando Herrera: “Durante la lezione le ragazze tengono comportamenti diversi: alcune ascoltano con attenzione altre conversano soavemente e mangiano. Non portano divise, la maggior parte indossa jeans e altre vestono costumi eleganti e raffinati. Le loro acconciature sono alla moda, abbondano gli stivaletti. Con Burani hanno un rapporto eccellente; non lo chiamano professore o maestro, semplicemente Vainer.” – e così farò anch’io.
Che differenza tra questo piccolo paradiso e l’ambiente liceale che frequentai negli anni ‘70, di cui ricordo, perché emblematica di quegli anni, l’espressione con cui il prof di lettere talvolta ci redarguiva, sparandoci addosso un voi e i vostri porci comodi!
La successiva attività di avvocato consentì a Vainer di intervenire in situazioni internazionali, quali il conflitto dei curdi in Turchia o dei palestinesi nel paese a loro sottratto, e qui non posso non annotare l’episodio di quel ragazzino (non occorre specificare di quale etnia: si tratta di un eroico cucciolo di homo sapiens sapiens) che sfida le autorità: “… i capelli nerissimi, la pelle scura, i lineamenti sono induriti, ma il viso è bello, dolce, quello di un bambino…” – di una quindicina d’anni o su per giù. E lo sguardo di sfida che egli getta all’ufficiale, termina con un sorriso a Vainer: questa è una Storia che merita un’enorme maiuscola, perché consente all’uomo di confidare in una nuova ricchezza, che non si tramuti mai più in quella miseria che già fu.
Uno dei paesi più visitati da Vainer è la Turchia, fucina di contraddizioni ancor oggi. Al termine della descrizione di una sua incursione in quella terra, egli commenta: “Forse è servito a poco, ma quel viaggio dovevamo farlo perché, anche su questa terribile pagina della storia di quel martoriato Paese non calasse il silenzio.” – allora le carceri turche “ospitavano 75.000 detenuti, 13.000 dei quali accusati di ‘ terrorismo’, fra questi circa 10.000 militanti curdi.” – un esercito!
Il capitolo è intitolato Fare l’avvocato, anche così: in giro per il mondo, non tanto per accusare i prepotenti, ma tentando di difendere i deboli, (e talvolta il passaggio di mansione è inevitabile).
Se un giorno incontrassi Vainer, di cui ammiro l’espressività nella scrittura, non riuscirò a non chiedergli del perché della sua scelta stilistica (di natura ideologica?), per cui egli scrive “il 10”, “il 13” ma anche “il 8” e “il 11”. Che ci sta sotto, un’esigenza d’uguaglianza? Dopo quest’intrigante facezia, cercherò di tornar serio.
Nel processo a carico di Mohammed Daki, accusato di terrorismo, cliente di Vainer, una sentenza tribunalizia stabilì: “il dato differenziatore, in un contesto bellico o di occupazione militare, non appare tanto lo strumento utilizzato quanto l’obiettivo preso di mira…” – determinando in tal modo la differenza tra guerra e terrorismo.
Per gli apache il massimo del valore guerriero consisteva nel toccare una parte del corpo del nemico, prima eventualmente di ucciderlo, gesto che mi pare non omogeneo a quello del pilota americano che mollò, il 6 agosto 1945, come mortifero dono alla città di Hiroshima, la bomba atomica che aveva chiamato Enola Gay (come la sua amata mamma): egli non aveva idea dell’identità delle sue vittime, che erano semplicemente carne nemica da sopprimere.
Da qui nasce, per me, quel dato differenziatore: non come, ma chi si colpisce: le forze armate nemiche o i civili inermi? La guerra è sempre un crimine contro l’umanità, ma a volte diventa una legittima difesa dall’offesa altrui. Un conto è però rapire un generale o un politico nemico, un altro è innescare un ordigno esplosivo in una piazza, colpendo senza distinzioni un’umanità generica: adulti, anziani e bambini. Si tratta di due situazioni ontologicamente diverse.
In merito alle sentenze che, in quel celebre caso giudiziario, in diversi gradi di giudizio, si sconfessarono l’una dopo l’altra, a essere passibile di critica è il divergente valore che i vari giudici conferirono alla medesima questione.
Nel capitolo Incontri con la storia, Vainer narra delle figure di martiri (termine che indica il testimone che, a volte, dona la sua vita in nome del suo ideale) purtroppo dimenticati o sconosciuti ai più, me compreso.
Il libro è così ricco di preziosissimi aneddoti, che non può essere in alcun modo ridotto a una sintesi. Occorre soltanto leggerlo.
Su Wikipedia Leila Khaled è definita politica e terrorista palestinese. Di lei Vainer scrive che “era stata un simbolo perché, con la sua kefiah e il suo kalashnikov, aveva saputo dimostrare a tutti, me compreso, che non ci si poteva arrendere all’ingiustizia, che si poteva sfidare anche chi appariva invincibile.”

Terminata la sua vicenda di guerrigliera, Leila oggi è una donna libera. Scrive ancora, Vainer, di lei: “Io l’ascoltavo e, dentro di me, rivivevo le emozioni, difficili da raccontare ora, che hanno segnato per sempre la mia vita…” – e questo suo tragico sentire che ogni volta si ripresenta rende per me assurdo elencare in modo tassonomico i dati anagrafici di quei testimoni, magari in rigido ordine alfabetico.
Vainer assunse nel 2001 la difesa del palestinese Khaled Hussein, il cui nome risulta assente da Wikipedia, il quale “stava espiando una condanna alla pena dell’ergastolo”, recluso nel carcere di Parma e che, trasferito poi in quello di Benevento, in quel luogo morì nel 2008. Di lui Vainer scrive: “A me restava l’amarezza di non essere riuscito a trovare alcuna soluzione alla vicenda politica ed esistenziale di quell’uomo, uno dei tanti che le vicende storiche , nel loro divenire inesorabile, fanno passare nel ‘tritacarne’ della storia…” – che nulla è se non l’odioso marchingegno con cui l’uomo in rivolta è annullato dal Potere che, secondo Pier Paolo Pasolini, è l’unica possibile forma di anarchia e l’odioso carnefice di chi non intende accettare la sua vile prepotenza.
Il Belpaese “per decenni è stato governato…” – e qui intendo sintetizzare il suo pensiero, che è quello di chiunque ragioni: da una classe politica che fu in certi casi collusa con la delinquenza organizzata, con cui ha stretto patti scellerati, nonché serva dell’imperialismo straniero. E tale infame sorte è condivisa da tante fazioni politiche che operano in altre nazioni democratiche.
Juan Carlo Cirillo, un combattente per la libertà, giudicato per anni un terrorista, è anche un cattolico praticante. Vainer, similmente al sottoscritto, è una specie di ignorante di dio, consapevole di non poter saper nulla di quel che è Ineffabile. Con Juan Carlos egli decide “di ‘praticare’ un terreno di ricerca e di discussione contiguo alla collocazione ideologica di entrambi e di leggere insieme alcune pagine scelte dall’opera di Kant.”
Vainer frequenta “la casa di Juan Carlos a Roma” – dove conosce “la sua compagna, Linda”: anche loro dei martiri.
“Non poche volte ho dovuto discutere a lungo con loro per ‘costringerli’ a uscire e mangiare una pizza offerta da me: secondo Linda e Juan Carlos sarebbe stato più giusto preparare qualcosa in casa e devolvere il denaro risparmiato al F.M.L.N.” – il che somiglia all’integralismo di certi movimenti cattolici che prima o poi sono però sfociati in un mare borghese e destrorso. Quanta idealità umana ha fatto quella miseranda fine…
Vainer e io abbiamo un amico in comune, Nicola, il quale mi ha donato il libro. Dopo che ha saputo che l’ho letto, m’ha domandato come avrei potuto definire Vainer, che egli conosce personalmente da anni. Mia pronta risposta: un idealista, un coraggioso eroe, un amante della lotta politica, della socializzazione. Ma, più di tutto, Vainer è un tipo pratico, che svolge ad hoc le sue funzioni.
In più punti del libro egli scrive ragionamenti del tipo: “Al Jazeera mi ha invitato a intervenire in uno speciale trasmesso dopo il notiziario della sera, per spiegare l’accaduto, e illustrare agli ascoltatori i motivi per i quali la nostra delegazione voleva recarsi a Gaza e le ragioni per le quali ci era stato impedito di farlo. L’ho fatto.”
La più azzeccata definizione che darei di lui è: un seguace del fatto. Quel che più gli interessa, come già all’autore de Il principe, è lei: l’ambigua e sempre appassionante Verità Fattuale. Un ultimo quesito: è Vainer un mio concittadino? Sì, nella misura in cui lo è del mondo.
L’arşâna an l’ē mia gînta durmîda mó e gh piês insugnêres in grând!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Vainer Burani, Una storia incontra la storia, Edizioni Sensibili alle foglie, 2019