“Uomini e topi” di John Steinbeck: la vita di un uomo vale quanto quella di un topo?
Un sogno, inseguire un sogno minimo forse senza neppure crederci.
Sognare un destino migliore perché la vita ti ha trascinato sempre più in basso come le rapide di un fiume. A scendere, spinto da una corrente che non si controlla, dentro un mondo spietato, dove la vita di un uomo vale quanto quella di un topo. A sopravvivere verso il basso, così in basso, che il sogno lo cerchi nell’ultimo metro di una strada che sai già che non riuscirai mai a percorrere.
Nelle pagine scorre la storia di due amici, braccianti in un ranch americano nel periodo della Grande Depressione, nel cuore degli anni Trenta. Davanti ai nostri occhi il film scorre in bianco e nero, con un retrogusto di remoto che sa di nostalgia. I colori poi ce li mette Steinbeck per illuminare il racconto, ma sono colori tenui, sfumati come un acquerello impressionista. E allora tutto sale di tono.
Uomini e Topi è un capolavoro eterno della letteratura mondiale.
Uno di quei libri che entrano sempre nei primi cento, o secondo alcuni, nei primi dieci di ogni tempo. Scritto da John Steinbeck, premio Nobel per la letteratura nel 1962 e pubblicato in Italia da Bompiani, tradotto, nella prima versione, da Cesare Pavese. Per chi riesce a trovarlo, una vera chicca. L’edizione disponibile adesso è quella tradotta da Michele Mari, che ha attualizzato il linguaggio. Così ci ritroviamo a leggere una storia di quasi cento anni fa nel gradevole sottofondo della nostra lingua attuale. Viviamo il libro nell’incanto di parole e immagini suggestive che vengono da lontano, senza mai sentire la distanza delle parole.
Anche il titolo ci porta verso vecchie immagini, mai scadute, ma mangiate nei bordi dal verderame.
Uomini e topi nella traduzione letterale dovrebbe essere “Topi e uomini”, preso da dei versi molto cari all’autore, per esprimere in termini crudi il disastro della Grande Depressione che soffocava ogni sogno. La poesia donatrice del trapianto lessicale è del poeta scozzese Robert Burns (1759-1796), e raccontava infatti dei “migliori progetti per topi e uomini”, per indicare che i sogni di miglioramento di topi, come di uomini, sono destinati a naufragare allo stesso modo.
I due protagonisti del romanzo, George e Lennie, per tutta la loro avventura anelano un pezzo di terra da coltivare in proprio, senza nessun padrone che li comandi. In ogni snodo narrativo, quanto più sono trascinati lontano da ciò che sognano, tanto più si raccontano, si inventano, si struggono nel futuro immaginario di una fattoria tutta loro con gli animali e i conigli, dove poter vivere in pace, accontentandosi di poco.
Quando il loro sogno entra in scena, arrivano momenti toccanti, di amicizia e di speranza. Steinbeck è bravissimo a colorare di dettagli emozionanti la vita che sperano di avere. Anzi, ne sono sicuri, e se lo ripetono in continuazione. Ma l’autore dentro questa visione ci mette dentro quel po’ di angoscia che stride con la speranza. Il lettore, l’autore, e forse i protagonisti lo sanno già. Non c’è speranza. Non ci può essere speranza nella loro durissima vita di braccianti. Il sogno potrebbe anestetizzare un presente drammatico, ma forse non riesce a fare neppure questo. Tra le pagine si apre una ferita, perché intanto quel sogno si allontana da loro come l’origine degli arcobaleni.
Però si arrabattano, anche solo per per cercare di sognarlo, il progetto di un futuro migliore. Ma i giorni gli passano sopra come una pariglia di buoi, a calpestarli, a ucciderli solo un pochino. Tutto li colpisce, ma forse riescono a resistere perché loro hanno un piano segreto: arrivare, alla fine, nell’eden della piccola fattoria coi conigli.
George e Lennie sono male assortiti, o forse bene assortiti perché l’autore li disegna terribilmente bene come due reciproci. Minuto e astuto George, gigantesco e con una forza sovraumana e incontrollabile Lennie. Ma quest’ultimo, a dispetto delle enormi proporzioni fisiche, mentalmente è rimasto alle fasi della prima infanzia. Le sue manie e la sua sventatezza lo portano sempre in guai molto grossi. Ma lui non si rende conto, è George che lo tira in salvo. È George che sacrifica la sua vita per prendersene cura. E in questo sodalizio d’amicizia, complicato e lacerante, c’è la spina dorsale del romanzo.
Forse l’amico mingherlino è la voce della coscienza, e quello grosso è la forza dirompente della disperazione. Di una disperazione senza salvezza, a fare i conti con la durissima vita nei campi, con un padrone dispotico e prepotente.
Resistere fino alla sera, esausti tutti e due, per raccontarsi che usciranno dall’incubo. Che avranno la loro fattoria con i conigli. Con i conigli di tanti colori, rossi e blu e verdi, e di quelli a pelo lungo come hanno visto alla fiera di Sacramento, si recitano come una preghiera.
La tenerezza tratteggia incosciente i tratti del gigante, che non capisce, perso nella sua follia.
Forse, nella Grande Depressione che ci racconta Steinbeck, non c’è via d’uscita, se non nella tenerezza della follia. Le loro avventure crescono d’intensità, implodono, negli ambienti degradati, nel vivere senza più sperare, nel tirare un giorno alla volta. La vita scorre lenta, ai bordi del grande fiume e nella polvere dei ranch, sognando qualcosa di più di un bicchiere e di un bordello.
La piccola fattoria con i conigli colorati forse non la trovi, forse non ti salva. Oppure ci arrivi in quel silenzio infinito che è l’unica vera salvezza.
Non si fanno sconti, è la vita dura dei grandi ranch americani negli anni Trenta. Così lontani da noi, così adesi a quel senso di ingiustizia che si prende gli ultimi quando non c’è rimasto altro.
Arriveranno i conigli verdi? Forse nelle stelle, e da lì arriverà la salvezza.
Written by Pier Bruno Cosso