“Terrore oltre il postmoderno” di Félix Duque: per una filosofia del terrorismo

Il terrore, ci viene incontro nella quotidianità, lasciandoci inermi dinanzi a che cosa? A un Altro che volutamente cela se stesso al senso comune.

Terrore oltre il postmoderno di Félix Duque
Terrore oltre il postmoderno di Félix Duque

A questa nostra contemporaneità è stato affiancato il termine, un po’ come definizione e categorizzazione, di postmodernità.

Ma quando e come nasce il postmoderno?

E cosa ha a che vedere il terrore con esso?

“Il postmoderno sorge […] verso la fine di un periodo chiave, quello della Guerra Fredda, che incrudelisce a partire soprattutto dal 1949, con la nascita della DDR e l’infittirsi della “Cortina di Ferro”. In tale periodo si possono trovare esempi artistici di genuino terrore, specialmente in due film del maestro Stanley Kubrick, Il Dottor Stranamore (1964) e Arancia meccanica (1971), per non parlare delle numerose manifestazioni controculturali sorte intorno alla guerra del Vietnam, la cui coda sarebbe stata magnificamente cantata, alla maniera nietzscheana, dal tandem, John Milius-Francis Ford Coppola in Apocalypse Now, del 1979”[1]. Da lì in poi, prosegue l’autore ne Terrore oltre il postmoderno”, scarse sono state le espressioni autentiche del terrore, nonostante il pullulare senza sosta di pellicole horror e thriller.

Ma che cosa è il terrore? Da dove e da che cosa nasce?

Il terrore viene definito da Félix Duque, con una disamina filosoficamente precisa, come “il sentimento angoscioso sorto dalla combinazione, inattesa e subitanea, del sublime e del sinistro[2]. Anzitutto è un sentimento che pare inclinare più verso l’angoscia che non verso la paura: il filosofo tedesco Martin Heidegger distinse con chiarezza questi due stati d’animo, precisando che “l’oggetto della paura è sempre qualcosa di determinato, un ente che si incontra nel mondo, o come una “cosa” che resiste ad essere meramente contemplata a distanza e stando al sicuro, o come un “utilizzabile” o strumento che all’improvviso si rivela minaccioso e nocivo, oppure come un altro uomo, come un “simile” che non meno opinatamente ci si contrappone[3]. Il terrore, dunque, ci viene incontro nella quotidianità, lasciandoci inermi dinanzi a che cosa? A un Altro che volutamente cela se stesso al senso comune.

Nondimeno, l’unione del sublime e del sinistro è il tratto più determinante che rende angoscioso il terrore. Duque precisa che il “sublime”, in questo caso, ha poco a che fare con Kant: “com’è noto, il sublime è per Kant il sentimento che risulta da uno scompiglio del gioco libero, puramente formale, delle facoltà conoscitive: l’intelletto e l’immaginazione[4] Quest’ultima, nello specifico, si trova dinanzi un Qualcosa, un’Alterità che oltrepassa sia la sua capacità di comprensione (ossia di unificare una serie di percezioni in un’immagine regolata da uno schema) sia la sua capacità di apprensione (ossia di stabilire un senso alle diverse percezioni). Tuttavia, prosegue Duque, “il sublime […] si trova per così dire addomesticato a priori in Kant. In primo luogo, perché questo “Altro” impresentabile è catturato all’interno di un nome di fondo ben conosciuto: la Natura. E sulla natura l’uomo ha il potere, o meglio è la natura stessa a incitarlo, a “sfidarlo” costantemente ad esercitare il proprio dominio su di essa mediante la tecnica”[5]. In questo caso, dunque, il sublime potrebbe apparire attraente.

Per Duque, in relazione al nostro “terrore”, sarebbero decisamente più valide le concezioni di Adorno e Lyotard. “Dinanzi a una natura vinta, umiliata e prosciugata da ogni Illuminismo che ha finito per perdere ogni “lume” a furia di trasformare in mito irrazionale il proprio programma fondativo, il “sublime” si sarebbe rifugiato piuttosto nelle arti, e soprattutto nell’arte non figurativa, laddove “Questo” – come nell’espressionismo astratto o nell’arte concettuale – si rifiuta di essere ricondotto a uno schema tecnico o estetico, mostrando invece in tutta la sua brutalità la propria componente materica, lasciandovi intravedere qualcosa di rabbiosamente “inumano””[6].

E in questo c’è qualcosa di più.

Il perturbante, in questo caso, non nascerebbe semplicemente nella rappresentazione estetica del dolore e della sofferenza: qui siamo un passo avanti rispetto al terrore, ossia nell’orrore, nella misura in cui quest’ultimo viene a configurarsi come “il sentimento timoroso dell’esasperazione del disgusto, della ripugnanza (in quanto decomposizione di qualcosa di bello, quando l’oggetto produttore, al tempo stesso in cui sembra diventare subitamente pericoloso, […] mostra tuttavia la sua vulnerabilità […] non appena  siamo capaci di contestualizzarlo all’interno di una narrazione o di uno schema di riferimento, insomma, all’interno di un insieme coerente di giudizi di valore”[7].

L’orrore garantisce così all’essere umano il suo posto nel mondo o, meglio, nell’universo, poiché soccomberà se non sarà n grado di far fronte a questo orrore: in Alien, di Ridley Scott, chi sopravvive? La donna tenente, la quale non si fa sopraffare dalla paura e unisce le sue conoscenze tecnologiche a una condotta virile. Stante ciò, si potrebbe dire che l’orrore contribuisce in maniera determinante al rafforzarsi del soggetto che riesce a contrapporsi ad esso.

Dal 1968 in poi, nell’ambito artistico, si va affermando una sorta di terrore bianco, “in quanto smantellamento e messa in evidenza degli strumenti e mezzi di produzione espressiva dell’orrore[8], che ha il suo illustre precedente nella kafkiana macchina da scrivere che troviamo in “La colonia penale” del 1919.

Un esempio di tale smantellamento si può trovare nel regista Pere Portabella che, nel suo Cuadecuc-Vampir (1968), fa sì che lo spettatore passi dalla visione di un film a tema vampirico “alla anagnòrisis della sua messa in scena, rompendo il ritmo narrativo e intromettendosi sfacciatamente nella ricostruzione narrativa dello spettatore, al punto che questi sperimenta la vertigine di essere lui il soggetto parcellizzato e persino squartato dalla cinepresa, consapevole dell’inanità di tutti i suoi sforzi di ricomporre una “storia”, vista l’impossibilità di distanziarsene[9].

Possiamo tuttavia incontrare anche la tendenza opposta, ossia il mascheramento della bellezza, messo in atto per denunciare la mercificazione dell’arte: l’artista bulgaro Christo e sua moglie Jeanne-Claude sono esempi di questa tendenza, “dediti a impacchettare tanto edifici e ponti quanto isole e scogliere[10]. Da qui si passa poi ad esaltare l’emblema più evidente del consumo, ossia l’hotel di lusso e il centro commerciale: ne è un esempio il Plaza Norte 2, un centro commerciale che si trova a San Sebastiàn de los Reyes, nei pressi di Madrid.

Buona parte dell’arte plastica contemporanea ha scelto di oscillare dal disgusto all’orrore, creando così un’espressione postmoderna di quest’ultimo, suscitato catarticamente dall’esagerazione verso ciò che crea la vita e verso l’escrementizio attraverso un marcato uso protesico, facendosi beffe del dipinto “L’origine del mondo” di Courbet.

Nel postmoderno, finzione e realtà si confondono in maniera convulsa e congestionata in una superficie che è un continuum senza fondo: non è certo un caso il parallelismo tra le immagini del terrore cinematografico e la strategia dei gruppi terroristici, che, nella loro strategia di distruzione dell’Occidente sono “ispirati dalla logica simbolica delle immagini dell’Occidente, inscenando massacri come se si trattasse di spettacoli mediatici[11].

Si può esprimere il terrore anche (e forse soprattutto) attraverso situazioni estreme in cui i limiti del corpo vengono toccati e a volte anche superati: è il caso di Marina Abramovic la quale, nelle sue manifestazioni di dolore (auto-)inflitto mescolate a sensualità, interagisce con il pubblico, “il quale cessa così di essere un mero voyeur, lasciando che affiorino in tal modo insospettate reazioni di crudeltà o di perversione in pacifici borghesi”[12].

Negli ultimi due capitoli di questa esposizione viva e profonda, l’autore si interroga sulle conseguenze e sugli esiti di questo tipo di arte, specialmente nel rapporto con la società. “Cos’è accaduto? La proliferazione e ripetizione […] di immagini terrificanti (reali o fittizie) ha comportato saturazione e stanchezza, corrodendo fino al midollo i vincoli sociali di solidarietà, e contribuendo loro malgrado al narcisismo individualista proprio del tardo-capitalismo e della sua “logica culturale” (come direbbe Frederic Jameson)”[13].

Una società che pare oramai assuefatta al terrore.

Ma sarà davvero così?

Félix Duque
Félix Duque

Terrore, orrore, disgusto, paura: sono le forme in cui il perturbante si esplicita e, in fin dei conti, è sempre stato così, sia nella storia delle società umane che nella storia dell’arte.

Ciò che turba lo spettatore, ciò che discende nell’anima turbandola, è un qualcosa di intimamente connesso all’essere umano, ma che di umano ha ben poco: forse pre-esiste ad esso. Ctonio e cosmico al contempo, nascosto e manifesto, intimo ed estraneo, sfugge ad ogni chiara definizione e ad ogni rappresentazione, dunque l’arte lo richiama, lo evoca cercando di trarlo fuori la sua dimensione di angoscioso mistero.

Ed è stato così anche per Bruegel e Bosch, di cui mi sono occupato in un recente passato.

Questi due artisti inventavano creature d’incubo per mostrare come l’anima posseduta dal male sarebbe divenuta: la lotta tra Bene e il Male, tra Dio e il diavolo, stanno alla base delle opere di questi due artisti.

Ed ora? Ora lo scenario sembra abbia subito un cambiamento: le persone non sono più atterrite dalle spaventose figure dell’arte, poiché paiono come anestetizzate, distaccate, rassegnate grazie ad una superficialità che le fa galleggiare sulla superficie della vita stessa. Tanti pensano basti voltare la testa dall’altra parte o fare un’elemosina magari virtuale, attraverso Internet, così da non dover neppure avvicinare il povero o il malato. Similmente, molte persone pensano basti chiudersi la porta alle spalle, la sera, perché il male non faccia loro visita e in tanti casi è così.

Ma quanti davvero sono consapevoli che il male, l’orrore possa essere dentro di loro e possa riversarsi anche nei luoghi che loro ritengono più sicuri, nei luoghi e tra le persone della loro quotidianità?

Quanti di loro sono consapevoli che potrebbero incarnare loro stessi il male e l’orrore?

 

Written by Alberto Rossignoli

 

Bibliografia

Félix Duque, “Terrore oltre il postmoderno. Per una filosofia del terrorismo”, Edizioni ETS, Pisa 2006

 

Note
[1]    Félix Duque, “Terrore oltre il postmoderno. Per una filosofia del terrorismo”, Edizioni ETS, Pisa 2006, pp. 12-13.
[2]    Ibidem, p. 14.
[3]    Ibidem, pp. 15-16.
[4]    Ibidem, p. 18.
[5]    Ibidem, p. 19.
[6]    Ibidem, pp. 20-21.
[7]    Ibidem, pp.25-26.
[8]    Ibidem, p. 31.
[9]    Ibidem, pp. 31-32.
[10]  Ibidem, p. 33.
[11]  Ibidem, p. 51.
[12]  Ibidem, p. 60.
[13]  Ibidem, p. 68.

 

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