“La libraia che salvò i libri” di Kerri Maher: una libreria in pericolo ed un romanzo proibito
Un romanzo storico la cui lettura ha in un primo tempo faticato a convincermi.

Per svariati capitoli de La libraia che salvò i libri di Kerri Maher mi pareva di leggere un’agiografia e, al contempo, una mitizzazione di quel che in quel magnifico allora fu. I dialoghi mi parevano artificiosi e meccanici, come se svolgessero la mera funzione di collegare i personaggi della storia e non anche a esprimere l’anima dell’autrice. Credo di essermi sbagliato, non ne sono certo e sto ancora cercando di capire.
Sylvia Beach è un’americana, il cui sogno è di tornare in patria e fondare “una libreria francese a New York”, poi una fulminante idea d’incanto la intriga: “E se invece di una libreria francese in America ne aprissi una americana a Parigi?”.
La Parigi del dopoguerra è un luogo dell’anima, anzi, dove le anime più inquiete del mondo (artisti, scrittori, filosofi) tendono a dimorare, quasi ammassandosi, ogni anno di più. Non è una semplice moda, ma una necessità esistenziale: in quella città pare possibile realizzare ogni sogno, o quantomeno continuare a sperare di giungere al di là, dove?, non si sa, ma forse ci si andrà.
È il luogo dove la morale comune, che tanti lutti addusse ai popoli civili, si evolve continuamente, fondandosi sulla libertà di poter finalmente essere quel che si è: per esempio una donna che ama, ricambiata, un’altra donna. Sylvia ama Adrienne, la quale, pur essendo più giovane di qualche anno, è già da tempo libraia e ora l’aiuterà a fondare su basi solide quel suo sogno e, nel frattempo, l’amerà con tutto il suo corpo, cuore compreso, nonché la mente.
Notevole frase, non so se dell’autrice, di qualche autore citato o della stessa Sylvia, che la dice a Gertrude Stein: “Essere proprietari di una libreria è molto più che vendere frasi. È mettere le frasi giuste nelle mani giuste” – che fu per qualche mese il mio sogno di poco più che ventenne, vissuto in modo incerto, ma crollato quando m’accorsi che non ero nato per il negotium, bensì per l’otium. La vita poi decise a modo suo, come sempre.
Sylvia ha invece un’anima che ama incrociarsi anche 24 ore al giorno con quella del prossimo, negandosi ogni privacy, nel caso ve ne sia bisogno. Non la invidio, l’ammiro da fuori, pronto a esaltarne le lodi, ma a distanza. Dentro di me la paragono a una missionaria, esaltata dal suo fine: l’attento ascolto, la calda protezione e la virtuosa diffusione delle anime altrui, delle migliori, s’intende, anche se non sono sempre simpatiche, facili da conviverci, anche quelle impalpabilmente ma inesorabilmente borderline.
“L’umore di Joyce era tetro come il crepuscolo parigino che calava troppo scuro e troppo presto ogni sera di quel settembre” – in cui ogni giorno determinava l’ombra e poi, sotto forma di aurora, la nuova luce, un’oscurità che si schiariva a intermittenza.
Joyce, J.J., cita a Sylvia un detto di Margaret Anderson: “… l’artista non ha alcuna responsabilità nei confronti del pubblico” – la quale è una gran frase, interamente assurda, incredibile, ma forse parzialmente vera. Non esiste una particella del cosmo che non sia tenuta a seguire delle regole nei suoi rapporti con le sue consorelle: tutto è entangled, correlato, ma è sua facoltà tentare di scorrere dove vuole lei, nella misura da lei desiderata, e quel che sarà sarà.
Scrive Kerri, l’autrice, che “chiunque leggesse così tanto doveva essere predisposto all’empatia” – il che è vero e falso al contempo. Chi scrive fugge il mondo per poterlo incontrare altrove; se la dà a gambe al fine di farsi acciuffare. Il che vale pure per chi legge. Si chiude in sé, in un luogo remoto, per poter meglio comunicare con quell’anima in fuga, in una sorta di seduta spiritica Kerri utilizza alcune strategie per attirare il lettore, tra cui la narrazione di quei piccoli gesti che, almeno una volta, chiunque ha vissuto di già: Adrienne, alla domanda di Sylvia “Vieni con me?”, dapprima “fece un verso di disapprovazione, poi la baciò affettuosamente. ‘Ovvio.’” – da intendersi: è ovvio che ti amo e che ti seguirò ovunque volerai, ma giochiamo col nostro amore!
“Infilando la lettera nella cassetta della posta si turò il naso e trattenne il fiato, augurandosi che l’avvocato e sua madre accettassero.” – è narrando simili gesti che Kerri raggiunge la sua massima espressività. I dialoghi sono perfetti, innaturali, però inevitabili e mai inutili: mirati al senso, questo essere fin troppo conosciuto.
Per Sylvia la libreria è la sua creatura, partorita insieme ad Adrienne, l’amante ostetrica che tanto l’ha aiutata. Lasciando la commessa Mysrine per qualche ora da sola a gestirla, “pensò che la sua sensazione fosse simile a quella che provava una neomamma quando affidava il suo bambino a una tata per la prima volta.” – un pizzico di femminilità è presente in ogni individuo, ma in alcuni, come in Sylvia, è il sentimento dominante.
L’oggetto del romanzo storico di Kerri è la storia della libreria e, insieme, dell’evento più eclatante: la pubblicazione di Ulysses di J. J., secondo miracoloso parto di Sylvia, che la turbò più del primo, non riuscendo però ad annullare in lei la voglia di connessione col mondo.
Leggendo la sua storia provo dei brividi a pensare a come possano esistere individui così poco egoistici, tanto da atterrire in chi crede nel suo smanioso ego, che tanto gli serve per sentirsi vivo.
Il soprannome che viene dato a J. J. è “Gesù disonesto” – e mi sono chiesto perché. Ignoro anche se sia un’invenzione di Kerri o un dato storico. J. J. è un egoista sui generis, seppure disposto a sacrificarsi nella scrittura, al fine di assurgere in quel remoto cielo, grazie alla liberazione da quel daimônion che cerca d’essere emesso, e anche il suo è un doloroso parto, che fatica deve fare!, e per liberarsi di quel corpo J. J. deve consumare interminabili pagine e flussi di coscienza.
Altra piccola perla da quasi nulla, ma è quel quasi che colpisce. Una battuta dell’istrionico G. B. Shaw, che non ne voleva sapere di acquistare una copia del romanzo, “l’aveva fatta sogghignare tutta la mattina. Assumendo una posa teatrale con un braccio sollevato, provò a imitare un forte accento irlandese e un tono burbero…”.
Altro espediente letterario di Kerri, ripetuto innumerevoli volte. Il personaggio Sylvia (solo lei) ascolta oppure parla, ma nel contempo è presa da dei pensieri del tipo: “Proprio questo non sono mai riuscito a comprendere: come essere Sylvia Beach di fronte a Chopin, Whitman e Joyce.” – che significa che ella pensa di camminare sulle spalle di giganti, non capendo che sono i giganti che stanno usufruendo esistenzialmente delle sue risorse umane, economiche e culturali. Vorrei sottolineare la loro forma corsiva, essendo più dinamici delle parole dette, istantanei, ma che servono meglio a esprimere in maniera celata i propri concetti.
Eureka! Oggi il bimbo Ulysses è nato!
“Trattandolo con la cura che avrebbe riservato a un neonato, Sylvia andò alla pagina indicata e stampato là, sotto Ulisse e il nome di Joyce, vide ‘Shakespeare and Company’” – Evviva! Auguri!
Fantastico è ancora il personaggio di G. B. Shaw, che interviene senza apparire in scena tre volte, se non di più. Ezra Pound porta in libreria una cartolina inviatagli dal barbuto irlandese, con cui egli sbeffeggia mirabilmente il destino del capolavoro del suo connazionale e “lui, Sylvia e Mysrine risero tanto da vere le lacrime agli occhi, e Sylvia dovette tenersi il fianco per il dolore.”
I rapporti sessuali fra le due amanti libraie sono narrati con dovizia di particolari, che riescono ogni volta a parere graziosi, seppure arditi: compito non facile per uno scrittore, che descrive l’atto erotico in modo che appaia l’atto d’amore che è: “Quando furono nude a letto, Adrienne le disse: ‘Chiudi gli occhi e non aprirli per nessun motivo.’”
Come sei materna, Sylvia! Saresti anche una maestra ideale. Joyce ha avuto una terribile notizia, per cui entra in libreria frignando come un bimbetto, e tu gli dici, semplicemente: “Sono sicura che troveremo un rimedio, di qualsiasi cosa si tratti.” – e poi lo ascolti, cercando poi di consolarlo.
Ti dice Adrienne, alludendo a Joyce: “I geni non sono sempre buoni mariti.” – se è per quello nemmeno le mediocri nullità.
Le due donne si amano come di più non si può. Sylvia dice: “Sei la persona meno egoista al mondo.” – e le replica Adrienne: “No, chérie, quella sei tu.” – meglio di così un rapporto non può andare (finché durerà!).
Altra istantanea: qualcuno dice qualcosa a Sylvia che ammette che è vero, e “i peli sulla nuca cominciavano a darle fastidio.”
Infastidita da uno scocciatore (mandatole da J. J.), “abbassò lo sguardo sui libri contabili, anche se i numeri sembravano fluttuare di fronte a lei come tanti pesci…”. E ancora: “Risero così a lungo e con tale gusto che Sylvia avvertì una fitta al fianco e dovette accomodarsi nella poltrona verde…” – sto cominciando davvero a preoccuparmi.
Pensieri sparsi, come fili di gomitoli:
“Come fa a saperlo?”
“Non mi piace dire cosa siamo l’una per l’altra.”
“Per lui sono sacrificabile.”
“Dopo tutto quello che ho fatto.”
“Io non sono diversa da Harriet o da chiunque altro nella sua vita.”
“Mio Dio, sembra davvero solo.”
… in un flusso di coscienza calmo, significativo, bene organizzato e mite. Ogni tanto capita che un umano lo sia.
Durante la festa in cui una caterva di scrittori e i poeti, francesi e americani, mirabilmente si mischiano, per manifestare a Sylvia la loro ammirazione e riconoscenza, Adrienne dice, come per caso: “… un agente letterario americano è passato la settimana scorsa per chiedere se lei non voglia scrivere un memoir.” – lei risponde di no, grazie, ma poi (Dio sia lodato e beneficiato!) farà di sì.
“Sylvia si sentiva rilassata e felice. Tutte le persone che amavano sembravano riunite lì, in un unico posto.” – in una singolarità ordinata come poche, che non durerà più di qualche attimo. Però quei momenti magici ci furono davvero ed è quello che importa.

Leggo, con una certa avidità, la Nota dell’autrice, la quale ammette di non aver svolto tutte le mansioni tipiche di un biografo, non avendo nemmeno “consultato i bollettini meteorologici. Se mi andava bene che piovesse in una giornata specifica, pioveva.” – e questo la rende il Giove Pluvio che tutti vorrebbero, ma che solo alcuni fortunati possono ambire di diventare.
“… quando leggiamo romanzi storici, interpretiamo l’interpretazione dell’autore –, e così scrittore e lettore si avventurano insieme in un territorio ancora più lontano dalla verità effettiva di ciò che è accaduto” – e qui aggiungerei: borgesianamente.
“Come tutti gli autori in questo romanzo, mi sono sentita fortunata a essere scrittrice a Parigi e a poter ammirare la cattedrale gotica in fase di riparazione dopo l’incendio del 2019, ricordandomi che l’arte molto spesso nasce dalle ceneri.” – simile a quel magico volatile; e di tutto questo io ti ringrazio, Kerri.
Alla fine che ne è della mia perplessità intorno ai dialoghi? Era motivata ma errata, non potendo non essere artefatti (essendo il romanzo una fiction) e chissà se questo libresco ventennio, così finemente descritto, prima o poi trasvolerà in una trasposizione cinematografica.
Ignoro se il mio sia un augurio sincero. Tradurre è un tradimento talvolta doloroso e necessario.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Kerri Maher, La libraia che salvò i libri, Garzanti, 2022