“Curumatára” di Raffaele Catà: viaggio nell’Amazzonia interiore
Il sottotitolo dell’opera “Curumatára” di Raffaele Catà (reportage, memoria, diario di viaggio che sia) indica che il viaggio di cui narra l’autore è un’esperienza intima che è svolta esageratamente all’esterno che più esterno non può essere: l’Amazzonia è da fuori che colpisce l’anima, con la propria umidità, le zanzare, le formiche rosse, i vampiri assassini, i mille bimbi che scorrazzano liberi, e a volte anche felici.

Una volta chiesero a Edmund Hillary perché si era deciso a tentare di scalare l’Everest e questi, con flemma tipicamente inglese, si limitò a rispondere: Perché era lì. Questo è il motivo per cui ho letto la quasi totalità dei libri, e forse perché ho fatto tutto quel che ho fatto. Il lì è un concetto tanto vago da parere metafisico. Il qui, invece, anche.
“‘Curumatára’ nella lingua tupi significa ‘bimbo viaggiatore’. Il nome indica il rito di passaggio attraverso cui il ragazzo entra nella foresta alla ricerca di sé stesso…” – al fine di diventare parte integrante di quell’organizzazione umana, che diventa istituzione, e che si chiama tribù. Il senso di appartenenza è spiccato ovunque, con tutti i rischi e le potenzialità connesse. Nel sud Italia per chiedere di chi uno è parente si chiede: a chi appartiene? Il genere umano, come tribù unica, non esisterà fino a che il mondo sarà diviso in tante piccole, a volte microscopiche, micro-tribù, ognuno coi suoi diritti e soprusi, ognuna intenta a creare e a santificare l’ingiustizia di chi è nato dalla parte giusta e a sminuire la disgrazia di chi è nato altrove.
Cosa induce a partire per un così assurdo viaggio il fermano Raffaele (per la precisione di Porto San Giorgio, Fermo)? Se ora cito Monod c’è un perché (oltre che per non essere da meno dell’autore, filosofo e studioso, che non lesina le citazioni): pochi scienziati come il francese hanno reso evidente che barcolliamo tra due estremi, il caso e la necessità.
“Le culture indigene mi affascinavano, in qualche modo sentivo di farne parte…” – e poi l’autore narra che da piccolo stava “dalla parte degli indiani…” – io piazzavo i soldatini cowboy su un monile e i pellerossa su un altro, e i due gruppi si fronteggiavano, mi auguravo, con rispetto. Ero un curioso ragazzo di diciassette anni quando iniziai la raccolta dei fascicoli di Indiani e Storia e leggenda dei pellerossa (Compagnia generale editore), enciclopedia in cinque volumi che mutò la mia opinione su quanto i film western avevano fino ad allora propagandato. Film come Soldato blu e Il piccolo grande uomo completarono la mia esperienza a riguardo. Qualche anno prima avevo letto I fiumi scendevano a Oriente di Leonard Clark e ancora rimango sgomento a pensare a quell’uomo rinsecchito in toto (non solo il cranio) che fu offerto all’esploratore americano da uno Jivaro in cambio di Inez, la sua compagna di viaggio; Clark, sebbene a malincuore, non se la sentì di accettare lo scambio.
Ho sempre amato quel che è diverso perché mi è parso rappresentare un’ulteriore opzione per vivere completamente la vita di ogni giorno (oggi, domani, passato domani, a anche quello che a Pixuntum chiamano, piscriddu, il giorno successivo al piscrai, che viene dopo il crai, il domani; gli antichi, anche se a volte non pare, erano più previdenti di noi).
“Poi, nella primavera del 2015, un’amazzone mi ferma per strada…” – si tratta di Íaçá che, casualmente, invita l’autore a partire con lei “per il Brasile”. Fu frutto del caso o della necessità? Posso necessariamente rispondere a caso: fu merito d’entrambi.
Il primo viaggio inizia nel luglio 2015, prima destinazione Belém do Pará. Nella cittadina di Barcarena, poi, vanno a trovare Hilda, la nonna di Íaçá (un’età compresa tra i 99 anni e i 101), la quale dice che il cuore dell’autore “è come quello di un bambino in un corpo di un uomo…” – e che forse quello è l’effetto di “una ferita nell’infanzia e che la mia nuova vita può ricominciare ora…”.
Raffaele alterna concise descrizioni dell’ambiente a illuminanti considerazioni: “C’è una luce inesauribile nello stare da soli, in solitudine.” – Leonardo un giorno scrisse: “quando sei solo sei tutto tuo”; poiché nessuno ti fa ombra. Non so se abbia ragione il citato Mario de Andrade, secondo cui “la monotonia è uno degli elementi più grandiosi del sublime.” – io sento che il sublime è tale solo se è privo di dimensioni che, come si sa, sono dati solo relativistici.
“Mangiare o venire mangiati, ecco la legge dell’Amazzonia…” – non solo, anche nel mondo i cui viviamo, ovunque viviamo, essendo la fame uno degli stimoli più imperiosi che si conoscano.
“Accettarsi come si è, senza voler essere perfetti, o anche solo diversi, è il primo paradossale passo per riuscire a cambiare.” – si chiama consapevolezza (che tutto scorre, compreso il nostro piccolo, incredibile, nonché vorace spirito).
Raffaele racconta un piccolo episodio che serve a sconsigliare caldamente al lettore un viaggio in Amazzonia: infastidito dalle formiche rosse, si getta a caso su un corso d’acqua, non sapendo se esso ospiti piranha o rettili cannibali, tutto ciò tra le risa fragorose di un gruppo i ragazzini. Il problema del solletico è risolto, però.
Sa l’occidente “pensare l’altro da sé”? – purtroppo non sa ignorarlo né conoscerlo, se non per fini egoistici, a quanto mi par di capire.
Raffaele, citi Derrida (autore fra i più lampanti e meno chiari che abbia mai letto), secondo cui “cultura” deriva da “colo”, cioè “colonizzare”. Colere significa coltivare, quello che faceva mia mamma nel suo orticello. Un atto non è di per sé negativo, né positivo: dipende a cosa si mira.
In riquadri esplicativi, inserisci particolari storici e geografici, alcuni dei quali, come quello che è a pagina 76-77, è terrificante: a volte mi chiedo se si possa ambire allo stato di apolide non rispetto a una nazione o a una cultura, ma a una specie animale; ma poi comprendo che tale idea è nefasta. Credo che chi compie un genocidio sia preso da una sorta di ebbrezza, per cui nulla gli pare più essenziale del suo mestiere di serio assassino seriale. È una forma di pazzia, senz’altro, se questo termine significa incapacità di controllo delle proprie azioni.
Alcune tue considerazioni sull’amore che, per te, “non è un prodotto della mente”, mi fa venire in mente che esistono tre verbi che significano più o meno lo stesso concetto, con diverse sfumature: rimembrare, ricordare e rammentare. Membra, cuore, mente: a me non va di rinunciare a nessuna di queste tre risorse naturali, a cui devo tutto quel che sono.
In un altro riquadro descrivi vari animali pericoli, fra cui l’“anguilla elettrica”; ma il mio preferito è il pesce stuzzicandenti “candirù”, che è, per te, “il più grande ‘figlio di puttana’ dell’Amazzonia” – un giorno mi auguro di non incontrarlo sott’acqua. Un fatto notevole riguarda le “formiche”, che costituiscono “più del 30% della biomassa dell’Amazzonia.” – Edward O. Wilson, socio-biologo che spero che tu conosca, emigrato Colà Colà solo pochi mesi or sono, ha avuto di certo un suo bel daffare a classificarle! In alcune definizioni (fra cui quella del “pacù”, che “attacca le persone e ne mangia i testicoli”), pare proprio che ti stia divertendo a terrorizzare l’incauto lettore.
Citi con frequenza uno dei miei maestri, Jiddu Krishnamurti, la cui opera che ricordo maggiormente è Libertà dal conosciuto. Lessi una decina di opere sue e devo ammettere di averlo capito intellettualmente, ma non so quanto psicologicamente. Però un po’ m’ha cambiato. Non so se anch’io ho cambiato lui (quando è trasvolato Colà non ero neanche trentenne).
Leggo a pagina 115, che “presso gli indios Tariana e i Tukano, le salme venivano esumate alcuni mesi dopo la sepoltura e arrostite sul fuoco…” – e poi mangiate, con tutta la loro residua saggezza.
A Pixuntum dicono: quannu su muortu tinni fai nu tianu, un tegame. I giovani hanno sempre cannibalizzato i vecchi, scavando dove quelli hanno costruito, giungendo a distruggere fin le fondamenta. Così la lingua italiana sta cercando di soppiantare il dialetto. Ora accade che i genitori si trovino di fronte della progenie che ha atteggiamenti e idee per loro affatto incomprensibili, tanto che spesso si chiedono: Mi è figliu? Altro detto celebre di quell’ameno paese è crisci figli – crisci puorci; e i porci tengono sempre fame, come tutti gli esseri (stavo scrivendo i cristiani).
“Un maestro non ha nulla da insegnare…” – poiché “è un discepolo della vita stessa…” – una volta lessi di un santone che provava meraviglia per tutto quel che si muoveva. Anche quello che è (relativamente) fermo non è però male. Qui finisce il tuo primo viaggio, per cui ora torni a Fermo.
Inizia il secondo. A volte faccio fatica a comprenderti: “il tempo è il dottore del cuore, la mente è il dottore del tempo, il cuore è il dottore della mente.” – è un po’ come quando si è bimbi e si gioca al malato e al dottore, scambiandosi ogni volta i ruoli.
“Come non esiste un’onda separata dal mare così non esiste un io separato dalla coscienza…” – l’onda è il mare, che a volte è ondoso e a volte no. L’io è coscienza, ogni tanto assopita.
“Che ognuno lavori su di sé quotidianamente, nel proprio orto interiore, contribuendo per quel che può all’elevarsi della coscienza…” – anche Derrida era un colono, anch’io, che amo vangare, anche tu.
Nel riquadro di pagina 148-149 parli dello scempio delle lingue avvenute in Amazzonia: per lo più non scritte, disperse per sempre. La scrittura a questo serve: salvare il salvabile, come diceva Bennato. La differenza è un Bene da amare, purché non attacchi gli altri beni, diventando il Male.
“Sembra non esistano oggetti o individui qui, solo processi. Tutto marcisce, sboccia, fiorisce, digerisce, costantemente.” – anche la scrittura, dove le lettere scorrono, diffondendo corsi d’acqua, più o meno zampillanti. Scrivere è partorire o evacuare: poi si vedrà l’esito.
Mi ha colpito che in Amazzonia, nel “regno del sovrumano”, “le unghie e i capelli crescono più rapidamente”. Un giorno spero di carpirne il motivo.
“Gli indios vivono nel presente, come gli animali.” – hic et nunc.
Sentire i rumori della foresta, rende l’animo di chi ascolta “più silenzioso, più umile, più umano, più vivo.” – difficile comprenderlo in questa mia stanza silenziosa. Ci proverò. Intanto chiudo insieme a te questo tuo secondo viaggio.
Inizia il terzo. “… la vita di ognun di noi è ‘simbiosi con l’universo” – è il destino (non l’odiato Fato che tutto arroga per sé), ma la possibile di ognuno di noi di andare da qui a lì, senza urgenza alcuna.
L’eroe, dici, “è colui che è in grado di andare oltre le proprie identificazioni…” – da qui a lì, è l’uomo del proprio e dell’altrui destino, a ognuno il suo: essenziale è mescolare sé con l’Altro.

La “non-dualità della realtà” – e questo mi fa pensare che il cosmo è sempre alle prese con il tramutarsi energia in massa e viceversa. Questo cosa significa se non che, forse, è dalla dualità che si comprende l’unità del Processo? Finito il terzo viaggio.
Inizia il quarto. Secondo “un professore universitario” la foresta è “una costruzione umana” realizzata dagli indigeni. Tale è gran parte delle colline emiliane (quelle che conosco meglio), frutto di piani quinquennali di rimboschimento; tale è la costiera amalfitana, che frequento di sovente. Lo è la cilentana, che ogni tanto viene arsa da dei delinquenti. Il paesaggio è sempre artificiale: a questo la Natura non è mai riuscita a sottrarsi, e forse non gliene cala nulla.
Poiché ti definisci “bamboccione”, ti invito a continuare a giocare, ognuno come sa.
Questo “bambino interiore”, di cui parli spesso, è un esempio della frattura che c’è fra te e te, e fra me e me. Ascoltiamoli ma prima o poi chiediamo loro se è consentita una mutua annessione fra le varie parti di noi.
Parli spesso dei “caboclos”, figli di un bianco e di un’india (il contrario no?), poveri, disgraziati, a volte armati di “smartphone” e di “TV al plasma”, a volte no. Non hanno nemmeno gli occhi per piangere, però ridono spesso.
Si è tutti entangled, correlati, come dici tu: come le particelle che vengono a contatto e poi restano interdipendenti. Poiché veniamo tutti da una Singolarità, siamo tutti collegati nei nostri vicendevoli destini.
Nell’ultima parte del tuo libro parli della tua esperienza umana, familiare, amicale e delle varie tecniche, studiate da psicologi e filosofi, tese a capire come risolvere il tuo, il mio, il loro problema esistenziale. L’esperienza amazzonica rimane un po’ sullo sfondo, ogni tanto però fischietta.
“Tra poco pioverà – come ogni giorno – e questo mi fa venire voglia di piangere.” – ammettilo: la tua è tutta (umida) invidia!
Ti invito a meditare su una banalità: non occorre rinvenire i colpevoli, ma la soluzione alla sofferenza, come disse quel tale, inclito principe mi pare, che forse morì di mal di pancia.
Il passato, occorre riscriverlo ogni volta, anche infinite volte, finché anche la tua ri-scrittura non diverrà un passato da riscrivere.
Quand’ero piccolo trascorrevo intere giornate in cortile coi miei amici. Ora questo non è più possibile. Non ci sono più i cortili né gli amici di una volta. Bisogna andare per forza in Amazzonia per ritrovarli? Ti suggerisco un libro: La casa vivente di Andrea Staid.
“Arrendersi e inchinarsi alla forza e al mistero della vita, accettando che è più grande di noi e ci ha generato: questa è la lezione che ho appreso dall’Amazzonia.” – quel che è più grande di noi fu una volta più piccolo, e viceversa. Panta rei!
“Occorre compiere un grande viaggio per scoprire di essere a casa da sempre” – a me per oggi è bastato reagire al tuo libro, dopo averlo letto per tre giorni. Tre giorni qualsiasi e preziosissimi.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Raffaele Catà, Curumatára, Scienze e lettere 2021