“Colazione da Tiffany” di Truman Capote: esistere in una drammatica frammentarietà

Penso alla Bambina che corre sul balcone di Giacomo Balla: una bambina, tante bambine, nessuna bambina in particolare, tanti particolari di bambina o una bambina particolare? Il tempo spezza la vita di ognuno di noi, e prima che sia sera, è lecito per ciascuno di esistere come può, vuole e deve.

Colazione da Tiffany di Truman Capote
Colazione da Tiffany di Truman Capote

Né si può far diversamente, essendo tutti noi circondati da infiniti casi e necessità, tanto che al termine di una giornata (o di una vita) una persona fortunata potrà dire: alla fine me la sono giocata!

“Mi sento sempre attratto dai posti in cui sono vissuto, le case e i loro dintorni” – ammette l’io narrante. Ora qualcosa di nuovo, d’inaspettato, gli accadrà. L’io narrante è soprattutto un io osservante, che poco esiste, ma a quel poco è saldamente legato al proprio luogo.

La protagonista del breve romanzo Colazione da Tiffany di Truman Capote è Holly Golightly, una ventenne che si rivela una consumatrice incallita di esperienze umane, nessuna delle quali memorabili, ma ognuna significativa e degna di essere rammentata e trascritta dall’io narrante, a cui un tale di nome O. J. Berman dice che aveva proposto a Holly di fare un provino per un film di un celebre regista: “Sputo l’anima e organizzo tutto: le faranno un provino per la parte dell’infermiera del dottor Wassell” – lei però se n’era andata a New York per una ragione molto semplice: “… Perché non ci ero mai stata.” – e la cosa va in fumo.

Questa è Holly, una che è necessariamente altrove rispetto a dove sarebbe meglio che sia. Lei però ha un amore sconfinato per un luogo: da Tiffany, la famosa gioielleria: “Non che me ne freghi molto dei gioielli. I brillanti sì…” – ma il motivo vero è che quel luogo è terapeutico: “Sapete quei giorni, quando vi prendono le paturnie” – che non sono i momenti di malinconia che vengono “perché si diventa grassi” – reattivi a qualche disgrazia, non quelli: “Si è tristi, ecco tutto. Ma le paturnie sono orribili. Si ha paura, si suda maledettamente, ma non si sa di che cosa si ha paura. Si sa che sta per capitarci qualcosa di brutto, ma non si sa che cosa…” – e l’io narrante, che prova spesso quel sentimento, lo chiama “angst” – che ha lo stesso etimo di angoscia, dal latino angere, stringere, soffocare, rendere sempre più angusto il canale dove normalmente scorrono, salutando, le risorse esistenziali grazie a cui sopravviviamo.

È un’illusione, una delle tante e, forse per questo, fa ancora più male. A quel punto, più che un’aspirina o una canna, serve una fuga: “Mi sono accorta che per sentirmi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany.” – e l’angustia s’allarga (momentaneamente). “È una cosa che mi calma subito, quel silenzio e quell’aria superba: non ci può capitare niente di brutto là dentro, non con quei cortesi signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d’argento e di portafogli di coccodrillo.”scopo della sua vita è di trovare un posto simile per sé e per il proprio gatto (a cui non darà un nome, finché non avrà un padrone).

Holly insegna al suo infatuato io narrante a rubacchiare: “Fuori, corremmo per alcuni isolati, per rendere più drammatica la situazione, immagino.” – felici, per qualche prezioso e indimenticabile attimo. Una volta rubare era per lei una necessità. Ora vuole solo mantenersi in esercizio, non si sa mai…

Holly regala all’io narrante una “meravigliosa uccelliera” – ma gli fa promettere di non metterci “mai dentro una creatura viva”.

Quel che l’io narrante scopre di Holly è terribile, ma non voglio fare da spoiler. Se si legge il libro, lo si scopre tranquillamente (in meno di un centinaio di pagine). Se si guarda il celebre film con Audrey Hepburn e George Peppard qualcosa si può percepire, in forma ridotta e un po’ edulcorata. Il romanzo è ben altro. Dovrei rivedere il film per capire bene in che senso. Il film era terribilmente grazioso. Il romanzo di Capote è graziosamente terribile.

Anche ora Holly è costretta a rubare,solo che adesso lo chiamo ‘avere le paturnie’”.

Cosa di Holly attira l’io narrante? Forse la sua irriducibile tendenza a fuggire, a cercare la sua indipendenza, peccato che le paturnie spesso le blocchino il passo! Come pure gli affetti che continua a provare e poi ad abbandonare a se stessi, finendo col rallentare il proprio passo.

“E, a un tratto, accadde. Mentre guardavo i colori sfumati dei capelli di Holly balenare alla luce rosso-gialla delle foglie, l’amai abbastanza da dimenticare me stesso, le mie disperazioni egoistiche e da essere contento perché le stava per succederle qualcosa che lei pensava felice…”lei era la sua colazione da Tiffany. Poi, sempre all’improvviso, tutte decade, svanendo in uno degli innumerevoli abissi da cui il caos, che sta laggiù, ridacchia mirando i nostri corpi precipitare.

O. J. Berman è impietoso ma onesto nel giudicarla: “… parliamoci chiaro. È pazza. Una montatura, ma una montatura autentica, mi capite?”

Truman Capote nel 1959
Truman Capote nel 1959

Holly confessa all’io narrante il suo fine ultimo: “… la patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.”

Holly libera il gatto, abbandonandolo, come fa con tutti. L’io narrante le dice: “Sei proprio una carogna.” – al che lei torna indietro, e cerca disperatamente il felino, ma non lo trova, è disperata, e l’io narrante le promette di cercarlo finché non lo troverà. Lei gli dice: “Ho una paura terribile, brutto…” – così lo chiama. Una volta gli aveva donato il nome del suo amato fratello, che ora non c’è più, avendo finito di soffrire (in guerra). E poi continua: “Sì, perché non può continuare così per sempre. A non sapere che cosa è tuo finché non lo butti via. Le paturnie non sono niente…” – sono come quelle pustole rosse che ti si formano nelle braccia e nelle gambe quando assumi troppo calore, e che più ti gratti più prurito avrai.

Lo scopo di questa scrittura non è guarire, non è dare sollievo dal male, ma renderti consapevole che tu sei tu e soltanto tu, in un oceano in cui, accanto a te, sguazzano libere e spesso egoiste infinite altre creature, in cui, se ti va bene, potrai riconoscerti per qualche fuggevole istante. E che gli attimi siano tutti fuggevoli ben lo si avverte leggendo il romanzo di Capote come guardando quel dipinto di Giacomo Balla.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Truman Capote, Colazione da Tiffany, Garzanti, 2019

 

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