Intervista di Raffaele Lazzaroni ad Alberto Girotto e Francesca Bellini: vi presentiamo il film “Purché sia fuori dal mondo”
Qualche settimana avanti la première di “Purché sia fuori dal mondo” alla quarta edizione di Edera Film Festival, tenutasi a Treviso la sera del 4 agosto 2022, ho avuto il piacere di conversare con il regista Alberto Girotto e l’attrice Francesca Bellini nella loro dimora, durante una cena alla quale ero stato gentilmente invitato.
Per aiutare i lettori a calarsi più profondamente nell’atmosfera in cui io stesso ho trascorso quelle ore liete, si darà anzitutto conto del menu: crostini al salmone, pepata di cozze e calamari al forno, il tutto accompagnato da fluente vino delle colline venete. Dopotutto, è ben noto come da almeno 2500 anni la tavola imbandita sia uno dei luoghi topici in cui promuovere il dialogo fra interlocutori amanti della parola assennata e rispettosi dell’opinione altrui.
Vicino al soffitto, un nugoletto di falene vagolava confusamente attorno a una pallida fonte luminosa che, pur assomigliando a un neon, m’era stato detto non lo fosse; sul parquet sfilava graziosa Malatesta, con buona probabilità un gatto d’Angora dal folto manto nero come la pece, la quale di tanto in tanto pareva commentare i nostri discorsi labirintici con eloquenti miagolii.
L’amicizia che lega il sottoscritto a Francesca è nata ai tempi dell’università; originaria di Castegnero, un ameno paesino di provincia, negli ultimi sette anni ha portato in scena diversi spettacoli, la maggior parte dei quali lavorando per La Piccionaia, centro di produzione teatrale aperto a Vicenza negli anni ’70. I titoli sono i seguenti: “La battaglia dei pedali” (2015, per un pubblico dagli 11 anni in su), di cui Oubliette Magazine ha peraltro recensito una recita, “Cucù” (2016, dagli 0 ai 5 anni), “Mignolina” (2017, dai 3 ai 7 anni), “Paciv Tuke” (2018, dagli 11 anni in su), “Spostati un pelimetro” (2018, dai 3 ai 7 anni), “Maxima” (2021, dagli 11 anni in su) e “Wonder Me” (2022, dai 2 ai 5 anni).
Assieme a Giulia Costantini è recentemente risultata finalista alla nona edizione del Premio Scenario Infanzia con “Inciampo. Nà e il filo rosso” (dai 3 ai 7 anni): i primissimi giorni di settembre, nell’ambito di Scenario Festival, al progetto vincitore verranno assegnati 8.000€ da destinarsi ai futuri spettatori.
Nel caso di Francesca e Alberto è proprio il caso di dire “galeotto fu ‘l film e chi lo diresse”: una volta terminate le riprese, i due si sono infatti fidanzati e da diverso tempo vivono a Treviso, città natale di lui il cui quartiere di via Pisa, sormontato da un unico solitario grattacielo, tanto gli ha saputo dare negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza. Alberto si recava spesso al civico 13/b, quando esercitava ancora Dirtmor, spazio culturale dov’era possibile fare esperienza di vera autonomia e facoltà espressive, e collaborava coi Disturbati dalla CUiete, duo che mescolava rap e punk, hip hop e metal, mentre a Roma si diplomava alla Libera Università del Cinema.
Da allora ha realizzato numerosi spot commerciali e videoclip (fra cui anche otto per La7), ma soprattutto ha licenziato tre lungometraggi (“Animata resistenza”, 2014, co-diretto da Francesco Montagner, “Per quello che sono”, 2019, e “Purché sia fuori dal mondo”, 2022), cui intende far seguire un quarto più “classico, canonico”: conoscendo l’autore, è lecito dubitare dell’attendibilità di simili aggettivi e chi scrive può assicurare si tratti di una fortuna.
Questo terzo film riprende, nel proprio, il titolo di un componimento di Ernesto Ragazzoni, nato a Orta Novarese l’8 gennaio 1870 e morto il 5 gennaio 1920 a Torino: poeta che nell’arco della sua non lunga vita pubblicò un’unica raccolta, “Ombra” (1891), studioso di inglese, francese, tedesco, spagnolo e cinese, traduttore di Grant Allen, Byron, Bürger, Robert Eustace, Goethe, Hugo, L.T. Meade e soprattutto di Poe, nel corso della sua carriera fu impiegato di banca, bigliettaio, distributore di bollette, conferenziere, direttore della “Gazzetta di Novara” in breve licenziato, collaboratore e corrispondente estero di giornali quali “La Stampa”, “il Resto del Carlino” e “Il Tempo” di Filippo Naldi.
Va aggiunto che assunse un atteggiamento anarchico, soddisfacendo assai di frequente il proprio gusto per la boutade irriverente, e mantenendo un costante senso dell’autoironia finanche nelle sue ultime volontà, le quali prevedevano un pasto all’osteria per i partecipanti al suo funerale e “sei porcellini tinti in verde e giallo” che trascinassero la sua spoglia mortale.
A questo segno, prima di presentare l’intervista vera e propria, non resta che cedere la parola allo stesso Ragazzoni, affinché i lettori possano da sé farsi un’idea della sua poetica stralunata e avvincente; vengono di seguito riportati alcuni stralci di una poesia e uno scritto in prosa, arbitrariamente smembrati in maniera simile a quanto avvenuto nel film non tanto per esigenza di sintesi, quanto in ragione di precise logiche narrative da perseguire.
Oltre che per la ricercata messinscena, la quale, attingendo a un copione già di per sé ricco e intricato, propone allo spettatore un caleidoscopio di visualizzazioni via via più sorprendenti e quasi in nulla rassomiglianti l’una all’altra, in questo senso, infatti, l’opera di Alberto Girotto si ritiene a buon diritto libera da ogni convenzione di sorta, mantenendo al tempo stesso una solida coerenza di fondo, e può in tutta coscienza affermare di aver colto lo spirito autentico dell’autore novarese.
“Solo è Allah nel Paradiso/ del Profeta Makometto/ solo è il naso in mezzo al viso/ solo è il celibe nel letto,/ ma nessun, da Polo a Polo,/ come me sul globo è solo,/ né mai fu, per quanto germe/ ebbe lune del lunario,/ perch’io solo sono il verme/ lungo verme/ cupo verme/ cieco verme/ bieco verme/ triste verme/ solitario. […] Una vaga fantasia/ alle volte pur mi coglie,/ la mia mente vola via/ e m’immagino aver moglie,/ mi par d’essere, o cuccagna,/ un bel nastro, una lasagna…/ non più fitto in membra inferme/ nel mio vil penitenziario/ e non più essere un verme/ lungo verme/ cupo verme/ cieco verme/ bieco verme/ triste verme/ solitario. […] Pure il giorno verrà, il giorno/ che uscirò fuori a vedere/ come è fatto il mondo intorno/ miserere, miserere,/ finirò la vita trista/ nel boccal di un farmacista/ pieno d’alcool ed erme-/ ticamente funerario,/ perché io non son che il verme/ lungo…/ cupo…/ cieco…/ bieco…/ triste verme/ Solitario.” – da “Elegia del verme solitario”, pubblicata postuma nel 1956
“La terra aveva perduto l’elisse, cosa che può succedere ai migliori pianeti, ed era in balia del sole che pian piano, senza fretta se l’attirava affascinata e sorbiva. La cosa era talmente evidente al Poeta che, quasi traverso il fumo della sua pipa, aveva il rimorso di avere provocata una simile catastrofe […]. Sulle prime, l’umanità non se n’era avveduta. Qualcuno aveva notato trasparenze strane in fondo al cielo, al momento in cui il cielo doveva essere già tutto spento, mediante regolare tramonto. Ma pel tanto avvicendarsi di ore legali e illegali, astronomiche e fittizie, i più avevano creduto a qualche nuovo decreto che imponesse la tessera al giorno ed alla luce […]. Senonché, quell’iridescenza vespertina, non solo persisteva ma si accentuava, si faceva impertinente. […] Gli orologi, fuori di sé, non sapevano più dove mettere le sfere. […] «Non sappiamo più se siamo ieri od oggi!» dicevano disperati i foglietti degli almanacchi. […] E la luce, che aveva divorato tutte le nuvole, tutte le nebbie, era diventata vampa, era diventata rogo, era diventata incendio ed il giorno più non chiudeva gli occhi. Il mattino e la sera si davano la mano. Poi non ci fu più né il mattino né la sera… […] L’umanità, abbacinata, arsa, si traeva invano a cercar refrigerio nelle caverne. […] Ucciso era stato il verde. In breve ora, i boschi, le foreste, le praterie balzarono rosse in un volubile guizzo, con crepitar immenso di ginepri accesi, e per poco il bagliore della vampa terrestre vinse quella del sole. Le più tarde a lasciarsi conquistare dal fuoco in questa universale bufera di fiamme – dobbiamo dirlo a loro onore – furono le fabbriche di fiammiferi! Poi tutto diroccò e non ci fu più ombra. […] Il sole vinceva crudelmente trionfale, e sempre più prossimo, sempre più prossimo non altro aveva che struggersi lo scheletro della sua preda succhiata: la carcassa arroventata della terra. E questa, non più che sabbia e rupe e cenere, si rompeva in schianti, si sgretolava, si volatilizzava sibilando… E finalmente più non fu che una immensa nuvola di polvere, un turbine di molecole che ritornava vaporando al caos, e che nemmeno più il sole si degnava di raccogliere, ma lasciava sparpagliare e sperdersi intorno a sé nell’universo. Quella era stata la terra”. – da “La terra che brucia. Fantasia in tempo di marzo torbido”, 8 aprile 1919
R. L.: Alberto, come hai incontrato Ernesto Ragazzoni?
Alberto Girotto: Il mio amico Francesco Zanetti, appassionato lettore di poesie, un giorno mi ha allungato un libriccino, rarissimo a trovarsi, che secondo lui, per la mia idea politica e per tutto quello che sono, mi sarebbe piaciuto un casino. «Dobbiamo farci qualcosa assieme», mi diceva. L’ho letto e mi sono convinto. Quando trovi un poeta che ha una coscienza anarchica vera, seria, bella, ti vien voglia di portare sullo schermo anche delle poesie e delle prose, o delle traduzioni, volendo.
R. L.: La scelta dei testi com’è avvenuta?
Alberto Girotto: Il soggetto era originariamente di Francesco e una sua amica, Margherita; successivamente sono subentrato io e ho preso a lavorare al progetto assieme a Francesco soltanto. Abbiamo scelto assieme i testi, leggendo tutto ciò che trovavamo di pubblicato e selezionando i passi che ci sembravano più significativi. Abbiamo poi cercato di dar loro un ordine sequenziale che si adattasse bene ad un possibile racconto.
R. L.: Sarò onesto, io non conoscevo minimamente la figura di Ragazzoni…
Alberto Girotto: … nemmeno io!
R. L.: … ma mi ha catturato la sua capacità di scrivere poesie, quasi sempre in rima, in cui venissero usate parole con una sonorità e una pregnanza tali da risultare così straordinarie. La poesia, a differenza forse della prosa, riesce per l’appunto a scoprire la straordinarietà in un lessico che può essere anche ordinario: dandogli un assetto preciso, finisce per renderlo unico.
Alberto Girotto: Questa è la forza della lingua italiana, a parer mio.
Francesca Bellini: Ma poi, al di là delle singole parole, sono straordinarie le stesse immagini che usa: la fabbrica di fiammiferi che è l’ultima a bruciare… che meraviglia.
R. L.: Penso a come faccia parlare gli oggetti della vita quotidiana o gli animali: l’operazione, in sé, conduce a esiti che mi ricordano le tipicità del realismo magico, di cui in letteratura si parlerà solo diversi anni dopo la morte di Ragazzoni. Una curiosità: fin dall’inizio avevate deciso che il film dovesse essere costituito unicamente delle parole di questo autore?
Alberto Girotto: Ce lo siamo imposti. Tutto doveva corrispondere, non abbiamo cambiato una virgola, né un articolo. Ciò a volte ha costituito una difficoltà per gli attori, dato che il linguaggio giunge a essere particolarmente arduo. Ma era importante raccontare tutto come poteva fare Ragazzoni, il vero Ragazzoni.
R. L.: Al tempo stesso, il film non è solo “recitato”: gli attori “interpretano”. E la tua stessa regia lo fa, attribuendo grande rilevanza all’ambientazione dei diversi episodi. Penso al piano sequenza del “verme”: è una scelta singolare che tu abbia fatto vagare il personaggio di Francesca da uno schermo all’altro… quando non c’è nulla di tutto ciò nella poesia. Si tratta chiaramente di un’interpretazione personale.
Alberto Girotto: È una costruzione. Ho voluto cercare di descrivere la mia idea di un verme solitario che guarda se stesso, la sua miseria. Quando lo spettatore giunge a quella scena, segue un percorso: sugli schermi può scorgere immagini che ha già visto e che vedrà successivamente nel film, su schermi di dimensioni e tecnologia differenti, anche a tubo catodico. Questa scena originariamente avevo pensato di girarla in un teatro, sul cui palco si sarebbe creata la figura di un gigantesco verme utilizzando, per l’appunto, gli schermi. L’attrice avrebbe dovuto passarci davanti e recitare la poesia… e che poesia! Ricordiamoci che siamo a cavallo fra Otto e Novecento: che razza di provocazioni lanciava? Comunque poi ho optato per la creazione, sicuramente più economica, di una stanza, simile a quelle che si visitano assistendo a tante installazioni artistiche: volevo omaggiare questi tipi di spazi, compreso il fu Dirtmor di via Pisa, a Treviso.
R. L.: Francesca, per introdurti mi piacerebbe che narrassi come hai conosciuto Alberto.
Francesca Bellini: Ero in teatro, stavo provando “Paciv”, e lui è arrivato per fare delle riprese che poi sarebbero state utilizzate in “Ragazzi”, il documentario di Giulio Boato incentrato sul teatro ragazzi e sulla compagnia di cui faccio parte, La Piccionaia. Era il gennaio del 2018, diluviava, io fumavo una sigaretta, Alberto scaricava le cineprese dalla macchina.
Alberto Girotto: Io non sapevo neppure che lei fosse un’attrice. Ero un semplice operatore e non conoscevo il mondo del teatro ragazzi…
Francesca Bellini: … e si limitava a fare l’operatore, serio in viso, concentrato. Ha chiesto però i contatti a tutti, ha scattato una foto a ciascuno per ricordarne le fisionomie: stava già lavorando al suo progetto. Tempo dopo è arrivata una mail super seria di un certo Francesco Montagner [il direttore esecutivo di “Purché sia fuori dal mondo”, nonché regista di “Brotherhood”, presentato fuori concorso ad Edera Film Festival, ndr], tramite la quale venivo convocata per il casting: quando l’ho ricevuta ero al Bar Borsa di Vicenza, in compagnia di mio cugino Pierluigi di Procida, e sono mezza finita nel panico. Non avevo mai avuto esperienze cinematografiche. Sono salita a Treviso per la prima volta nella mia vita, Francesco e Alberto mi hanno fatto leggere delle poesie, con tanto di videocamera. Il resto è storia.
R. L.: Le riprese…?
Alberto Girotto e Francesca Bellini: Le riprese sono cominciate nell’autunno del 2018, si sono interrotte per poi riprendere in primavera, alla ricerca delle giuste condizioni atmosferiche. Hanno occupato meno di venti giorni in tutto.
R. L.: I set sono stati diversi.
Alberto Girotto: Eccome. Per prima cosa ho puntato la cinepresa verso il grattacielo di via Pisa, sede dell’underground autentico di Treviso: per come l’ho vissuto io dal 2008 in poi, uno spazio di libertà vera… È finito il vino? Abbiamo del Glera?
[In tre ci si mette alla ricerca del Glera, infine trovato e degustato.]
Francesca Bellini: I set sarebbero anche stati troppi a fronte del budget: ogni scena è stata girata in un luogo differente. Tra gli altri, siamo stati anche alla Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli…
Alberto Girotto: …o alle umidissime Grotte di Pradis, dove abbiamo trovato ad attenderci un serpente, prontamente rimosso e messo in salvo. Tutto ciò grazie alla preziosa mediazione della Friuli Venezia Giulia Film Commission, che ha sostenuto la produzione benché nella troupe non fossero incluse maestranze friulane. Per il resto, abbiamo girato spesso in case di amici.
R. L.: L’osteria?
Alberto Girotto: Che non è un’osteria, bensì un microbirrificio, il Mezanino di Montebelluna. [Mi fa notare che il bicchiere da cui ho bevuto proviene proprio da lì.] Ci ho girato in un giorno di chiusura, gratuitamente. Ci lavora un mio amico carissimo, Davide Tantulli, fondatore dei Disturbati dalla CUiete, per i quali ho realizzato i miei primi videoclip. Sono cresciuto con loro, io. Tutta la colonna sonora è scritta ed eseguita da Davide, a parte un singolo brano.
R. L.: Gli hai dato indicazioni in merito?
Alberto Girotto: Gli ho chiesto se aveva dei brani già pronti, magari mai pubblicati. Me ne ha offerto una rosa e da lì ho scelto: per me sarebbero andati bene così com’erano, ma lui da allora ha voluto modificarli in maniera che si adattassero ancora meglio alle immagini.
R. L.: Quale doveva essere il ruolo della musica nel film: accompagnamento, commento, che altro?
Alberto Girotto: Doveva soprattutto creare un tempo dentro al quale il pubblico dovesse essere costretto, doveva suggerire e a volte provocare, come già fa il montaggio in particolare. Ad ogni modo, mi sono affidato al gusto di Davide.
R. L.: Torniamo a te, Francesca: tu, da attrice di teatro, come ti sei misurata con l’esperienza cinematografica?
Francesca Bellini: La cosa che mi ha fatto più male è stata non giovare della presenza attiva del pubblico, che di solito è lì di fronte a me, lo sento emozionarsi, persino respirare con me. Attorno avevo solo un uomo che mi seguiva con la cinepresa in mano e un altro che mi accompagna col microfono… Mancava il confronto diretto.
R. L.: Ma sul set dovevi bastare a te stessa.
Francesca Bellini: Esatto, e sentivo un blocco allo stomaco; per scaricare la tensione mi è capitato persino di correre, cosa che non faccio mai. Dopo la serie di 16 ciak per filmare il piano sequenza del “verme”, Alberto si è reso conto che, se fossi stata un’altra attrice, probabilmente mi sarei rifiutata di affrontare una simile impresa. Alla buona resa del lavoro ha contribuito la mia ingenuità: io sono una che decide subito se una cosa le piace o no: ho conosciuto la crew, che ho scoperto disponibile e professionale, l’ambiente era accogliente… Poteva funzionare. A differenza che in teatro, però, dove all’occorrenza si possono sostituire delle parole, si può anche improvvisare…
R. L.: … qui la fedeltà doveva essere assoluta.
Alberto Girotto: Uno dei 16 ciak Francesca l’aveva girato magnificamente, ma avendo sbagliato una sola vocale gliel’ho fatto fare da capo.
Francesca Bellini: E la volontà di filmare tutto in presa diretta non lasciava scampo. Con l’eccezione delle scene in cui vengono doppiati oggetti e animali, naturalmente.
R. L.: Ti senti maturata dopo questa esperienza?
Francesca Bellini: Mi ha cambiata. Io sono abituata a rimanere sul palco anche un’ora di fila, mentre in questo caso i tempi dei ciak erano stretti. Tuttavia, quando scegli di fare arte, anche misurandoti con un campo che non è propriamente il tuo, se hai dalla tua la tecnica in qualche modo recuperi i gap. Non so se mi saranno offerte altre esperienze nel cinema in futuro, ma quello che posso dire è che senz’altro l’ambiente ha fatto la differenza: la serenità lavorativa, intendo. Nel teatro ragazzi il regista fa un po’ tutto: il drammaturgo, lo scenografo, a volte anche l’attore…, mentre qui la distinzione dei ruoli è netta. Una volta mi sono permessa di bloccare un ciak; più tardi, Francesco [Montagner] mi ha fatto notare che, su un set più grande dove solo il regista è autorizzato a dare lo stop, avrei potuto passare dei guai. Un’altra cosa: quando sei microfonato puoi lavorare su un tipo di espressività più intima, obiettivo che in teatro è molto più difficile da raggiungere.
R. L.: Ti è piaciuto ascoltare la tua voce?
Francesca Bellini: Sì. Inizialmente, al tempo delle riprese, credevo di no; in ogni caso, ho atteso quasi quattro anni prima di ascoltarmi, avendo chiesto espressamente che non mi venisse mostrato nulla. Rivedersi è sempre faticoso, sai già che avresti voluto cambiare qualcosa. In realtà, ho sentito una voce che mi piaceva, non era stridente come mi era capitato di temere. Il primo giorno di set avevo scritto preoccupata a mia sorella Anna, che studia fagotto, e lei mi ha rassicurato dicendomi che suonavo lo strumento più bello di tutti, la voce. Io non ci avevo mai pensato. Mi ha aiutato a credere di più in me stessa.
R. L.: Ti sei sentita modellata dal tuo regista?
Francesca Bellini: Più che modellata… direi accompagnata, rasserenata. Alberto non si è mai imposto, non è entrato a gamba tesa, ha sempre rispettato i miei sentimenti. Durante una ripresa sono scoppiata a piangere, era tardi ed io molto stanca. Lui ha chiamato i “cinque minuti” solo per me e mi ha invitato a fumarmi una sigaretta. Penso sia giusto che sia richiesto rigore dagli attori, ma anche, allo stesso tempo, che si tenga in considerazione fino a dove si possano spingere. Deve esserci il rispetto dei limiti.
R. L.: Per come è strutturato il film Purché sia fuori dal mondo, raramente gli attori condividono la scena. Come si è rivelato il rapporto con Francesco Zanetti?
Francesca Bellini: In particolare quando abbiamo dovuto doppiare gli oggetti e gli animali mi è stato di grande aiuto, illustrandomi come utilizzare intonazioni particolari della voce. Mi ha aperto dei mondi. D’altra parte, se io vengo dal mondo del teatro, lui viene da quello cinematografico.
Alberto Girotto: Prima da autodidatta, poi in accademia, ha fatto suo il campo del voice acting. Ha doppiato piccole parti in “Grey’s Anatomy”, “La bella e la bestia”, “La cura del benessere”… [e almeno un’altra ventina di produzioni, spesso d’animazione, ndr].
R. L.: Nel film Purché sia fuori dal mondo sono proposte diverse soluzioni registiche per mettere in scena un testo poetico; gli attori usano il proprio corpo e la propria voce in molti modi per rapportarsi con il mutare degli ambienti. Giungono persino a posare come fossero in una tela di Caravaggio e a dare fiato vitale a delle marionette: sono curioso di capire perché hai introdotto queste ultime.
Alberto Girotto: Le parole pronunciate dalle marionette sono così pesanti, così difficili da accettare (il mondo sta bruciando, il mondo è ormai finito) che gli attori, per incarnare fino in fondo la condizione di essere “appesi a un filo”, dovevano diventare dei veri e propri pupazzi.
R. L.: Sono stati coinvolti due artigiani per realizzarli, vero?
Francesca Bellini: Uno per il corpo e uno per la testa e le mani.
R. L.: Hanno trovato qualche difficoltà nel riprodurre i corpi umani?
Alberto Girotto: Sì, con Francesca.
R. L.: Per quale ragione?
Alberto Girotto: Io avevo mostrato agli artigiani delle foto, ma fra tutti gli aspetti era particolarmente complesso riprodurre lo sguardo. Io, a dire il vero, ne sono rimasto soddisfattissimo.
R. L.: Ascolta, le riprese de Purché sia fuori dal mondo sono state effettuate a partire dal 2018… Com’è che questo film arriva ad essere terminato solo nel 2022?
Alberto Girotto: Senza dubbio si è rivelata lunga la fase di montaggio, di cui mi son dovuto occupare personalmente non disponendo del budget necessario a pagare un montatore professionista. In più, sono esigente da me stesso e ho dovuto lavorare assiduamente ad altri progetti per mantenermi, pagare l’affitto e le bollette. Avevo bisogno di mente libera e tempo a disposizione. D’altra parte, in assenza di deadline, ho potuto gestirmi con una certa libertà…
R. L.: Ora che “Purché sia fuori dal mondo” sta per essere presentato al pubblico, hai qualche ripensamento?
Alberto Girotto: Nessuno, mai. Non voglio neanche pensarci. Una volta che hai completato l’opera, appartiene già al passato.
R. L.: Perché hai fatto questo film Purché sia fuori dal mondo?
Alberto Girotto: In fondo, ho fatto quello che volevo, ho parlato di ciò che mi stava più a cuore. Mi è comparso di fronte un personaggio che mi permetteva di parlare di poesia, di coscienza politica e di libertà, un uomo che scriveva a chiare lettere come per essere libero si debbano abbandonare tante certezze. Ragazzoni mi è sembrato subito inattuale, eccessivo per la sua epoca, e trovare qualcuno che più di cent’anni fa ha scritto quello che pensi tu oggi… era senza prezzo.
Francesca Bellini: Ciò che mi ha personalmente colpito è che alcune delle sue poesie fossero pensate anche per dei bambini. Lui era un giornalista e traduttore anarchico… che scriveva filastrocche, che dava attenzione a questo tipo di versi, offrendo peraltro diversi livelli di lettura.
R. L.: Alberto, nella realizzazione di questo film Purché sia fuori dal mondo hai sentito l’influenza di qualche autore prediletto?
Alberto Girotto: Non saprei dirti. Quando giro un film sono tutto teso a fare il meglio che posso, penso al momento. Agisco d’istinto, non cerco di imitare, non sono un manierista (il che mi riuscirebbe comunque molto faticoso). Ciò non toglie che nutra dei grandi amori per Ken Loach, Emir Kusturica, Charlie Chaplin, Aki Kaurismäki… Semmai costoro influiscono sul mio subconscio.
Written by Raffaele Lazzaroni
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