“Le relazioni pericolose” di Pierre-Ambroise-Franҫois Choderlos de Laclos: un circuito di anime gementi e razzolanti
Inizio la reazione a pagina 100 de “Le relazioni pericolose” di Pierre-Ambroise-Franҫois Choderlos de Laclos, dopo la quarantesima lettera. Prima impressione: si tratta di un mirabolante e baluginante pollaio sociale dove alcuni singoli gallinacei d’entrambi i sessi esibiscono livree in una parata complessa.
Nel luogo dove sto leggendo questo romanzo epistolare Le relazioni pericolose, far ‘a parata significa assumere un comportamento mirato a similare e a dissimulare le proprie intenzioni, pensando di aver carpito le altrui. Un’altra analogia è di tipo sinaptico: due neuroni tentano di collegarsi, al fine di condurre insieme una sinapsi, un ragionamento. Una anche di tipo quantico: due quark, più sono vicini, meno forte patiscono la rispettiva attrazione; più sono distanti e più cresce la loro interazione, che inevitabilmente cesserà, come capita a un elastico che, troppo tirato, finisce fatalmente per spezzarsi.
In una lettera (IV) il Visconte di Valmont scrive alla Marchesa di Merteuil: “Conosco il vostro zelo ed il vostro fervore, e credo che se quel Dio dovesse giudicarci in base alle nostre rispettive opere, voi sareste un giorno la patrona di una qualche grande città, mentre il vostro amico forse, riuscirebbe ad essere, tutt’al più, un santo di paese…” – (puntini del razzolante gallo) mansioni analoghe, ma diverso è il contesto.
In una successiva missiva (VI), egli descrive il primo contatto che ha con la sua preda, Madame di Tourvel, denominata La Presidentessa, coniugata con un marito pericolosamente, non si sa quanto felicemente, assente: avverbi di modo che orbitano sia intorno al consorte che esiste in un ambiente libero e distante, che a lei che permane lì, consenziente prigioniera, nel pollaio. L’occasione fatale sorge durante il superamento “di un fosso”, ostacolo che “una donna ritrosa ha sempre paura di saltare”, per cui “ha dovuto appoggiarsi a me, ed io ho tenuto tra le braccia questa casta donna!”, un essere così minuto e fragile, e poco più che ventenne e, al contempo, una savia signora che non esagera mai in alcunché e che, per esempio, “benché abbia i più bei dentini del mondo, non ride se non di ciò che la diverte.”
Si tratta di una santa miracolante, essendo stata in grado di restituire al visconte “le magiche illusioni della giovinezza; vicino a lei non ho bisogno di godere per essere felice”.
Nel frattempo, nella lettera V, l’invidiosa Marchesa, a cui lui si confida, aveva disprezzato quell’angelo definendola “fatta abbastanza bene, ma senza grazie” e con “il seno che le arriva sotto il mento”.
Un’altra pollastra, appena quindicenne, Cécile Volanges, scrive (VII) all’amica Sophie Carny (che è rinchiusa in un Convento delle Orsoline, anche lei nell’orbita della peccaminosa Parigi) che il giovine signorino (diminutivi miei) “signor Cavaliere Danceny” è un tipo che “non ha mai l’aria di fare dei complimenti, ma non dice una parola che non sia di elogio.” – ed è così carino che, “invitato, a un gran concerto, eppure ha preferito rimanere tutta la sera dalla mamma” – e qui non serve riportare l’ormai esausto detto che tira di più una… piuma, ma non certo quella della pennuta materna.
La marchesa scrive (lettera X) al Visconte: “Giunte al mio tempietto d’Amore, scelsi il mio abbigliamento più seducente, un abitino delizioso, disegnato da me, che non lascia intravedere nulla, ma permette nello stesso tempo di indovinare tutto…” – e anche qui i puntini appartengono alla gallina. Dopo di cui, consulta varie fonti letterarie (cito soltanto “una lettera di Eloisa”) “per ripassare i diversi toni sentimentali che avevo pensato di adoperare” – come se si trattasse di una recita cantata.
Il successo arride alle piumate sapute: “Credo di non essermi mai data tanto da fare per piacere ad un uomo, né di essere mai stata così soddisfatta di me…” – mi approprio anche stavolta dei puntini altrui. La donna ha un senso tattico, anzi una vera strategia a lungo termine: “Egli voleva per forza che noi fissassimo subito un nuovo incontro; ma io l’amo troppo per consumarlo così in fretta.” – l’entropia è sempre in agguato!
In una precedente lettera (IX) che Madame di Volanges, madre di Cécile, scrive alla Presidentessa, getta tutto il discredito che può addosso alla figura, pur così elegante, del Visconte (chissà se l’ha mai provato di persona?!), e questa inquietamente le risponde che “sarà forse l’aria di campagna che ha fatto il miracolo… ma vi assicuro che…” – che il Visconte è una perla di maschio dalle piume sgargianti (che non è affatto voglioso e assatanato, dico io, non lei).
Ora (XVI) Cécile scrive ancora alla sua amichetta rinchiusa: “Ci raccomandano tanto di essere buone e gentili, e poi ci viene vietato di manifestare tali qualità quando c’è di mezzo un uomo!” – è un’ingiustizia, però!, direbbe Calimero. Il tutto non le pare “affatto logico”. E pensa al suo Cavaliere.
In XX la Marchesa dice al Visconte una frase che mi fa meditare: “Vi incatenerei di nuovo, vi farei dimenticare la vostra Presidentessa; e se fossi proprio io, che non sono degna, ad allontanarvi dalla virtù… Cielo! Che scandalo sarebbe!”
In XXIII il Visconte alla Marchesa narra di una variazione sul tema del tentativo di cacciare la sua pollastrella. Specifico che la scelta che ho accordato a questa specie di pennuti è dovuta al fatto che gli zoologi affermano che essi siano fra i più intelligenti della loro classe, più dell’aquila che ha sviluppato la vista, idonea a percepire che qualcosa, pur assai distante, si muove anche di poco, ma a cui non serve affatto un cervello speculativo. Avrei potuto citare i fagiani, i pivieri (più o meno dorati) o gli ara-macao, ma poi ho ricordato che per la mia filosofica mamma nessun animale è più dispettoso della gallina, e più capace di porre attenzione ai segnali altrui.
Il Visconte, forse non giovanissimo ma sempre ruspante, riesce a porre le condizioni di un fortuito e fortemente voluto abbraccio con la sua pennutella maritata. E lei “si affrettò a ritornare al suo telaio, e a tutti sembrò che riprendesse a ricamare: ma io vidi benissimo che la sua mano tremava e non le permetteva di continuare il lavoro.” – l’ottimismo è l’arma affilata che serve a chi intende perseguire il proprio fine.
“Ma quale Dio osava invocare? Ce n’è forse qualcuno che abbia potere contro l’Amore? Invano ormai ella cerca aiuti esterni; ormai, solo io sono l’arbitro del suo destino!” – una vana illusione: il destino è tanto mio quanto tuo e di qualunque altra particella, che talvolta la smette di svolazzare e comincia a razzolare in cerca dello striminzito ma energetico becchime.
In una missiva successiva (XXXIV) il Visconte le scrive ancora: “Dopo i fatti del 19, la mia Disumana, che si tiene sulla difensiva, mi sfugge con una tale abilità, che la mia astuzia è presa alla sprovvista. Se continua così, mi vedrò costretto a ricorrere a mezzi più efficaci.” – tipo un bombardamento a tappeto, o più, subdolo, un avvelenamento delle fonti idriche, poiché: “non voglio assolutamente che ella mi batta su nessun punto.”
Il Visconte aveva dato prova di un imprevedibile slancio di generosità nei confronti di una famiglia di proletari che, senza il suo intervento, avrebbero perso la propria abitazione. In realtà egli era consapevole che il fatto sarebbe stato riferito alla signora, la quale ne avrebbe poi gioito. Dopo di cui il nostro titolato eroe le comunicò la sua infame finzione, al solo fine di esibirle una pur tardiva sincerità e, insieme a questo groviglio di verità e di menzogna, tutto la sua inconfessabile (si fa per dire) passione, recandole in tal modo una ferita dolorosissima. In quell’aneddoto pare chiaro la differenza di tipologia dei vari personaggi: da una parte gli incliti e giocondi nobili, dall’altra i degradati miserabili da utilizzare e, secondo il caso, da ignorare, favorire o condannare, in relazione alla loro mera utilità.
In XXXVI il Visconte scrive all’amata Presidentessa che, essendo “abituato a provare infiniti desideri e a coltivare solo quelli che la speranza incoraggia, io non conoscevo i tormenti dell’amore” – che mi pare un’improbabile fandonia. Anche lui fu giovane e inesperto, se ha senso il detto che nisciuno nasce imparato.
“Vi allontanavate per un momento? Mi si stringeva il cuore per la tristezza; al rumore che mi annunciava il vostro ritorno, trasalivo di gioia… Ormai vivevo solo per voi” – la lontananza è, secondo Enrica Bonaccorti e Denis de Rougemont, come quel vento che per lo più condisce la passione, almeno dal nostro occidentale punto di vista.
In XXXVIII la Marchesa gli comunica che sta assistendo all’evolversi della pulcina di talento, Cécile, che “non ha una particolare intelligenza, non ha finezza; ma nondimeno ha una certa inclinazione naturale alla falsità.” – che pertanto promette, anche se “non sa niente, ma proprio niente di ciò che desidererebbe tanto sapere… Si rivela impaziente per delle cose davvero curiose!” – e la Marchesa rivela di sentirsi “quasi gelosa dell’uomo cui è riservato questo piacere…!” – e il fatto m’incuriosisce. Il giovane che l’ama le fa dire: “Come sono stupidi questi letterati!” – e così incomprensibili: tanto che “non riesco a guidarlo secondo la mia volontà.”
Ecco la sua tattica di indecente docente: “… da una parte consolido la mia reputazione di donna virtuosa che un’eccessiva accondiscendenza potrebbe indebolire; e dall’altra aumento in lei l’odio di cui voglio che suo marito goda.” – nella consapevolezza “che non è consentito fare l’amore se non in quel breve lasso di tempo che ancora ha prima di diventare moglie per sempre…” – qui i puntini sono miei già in partenza.
In XL il Visconte le comunica che è sua intenzione di far litigare la sua Presidentessa con la non ancora identificata amica confidente, che è soltanto capace di suggerirle un’avvilente prudenza.
Afferma di rimpiangere “di non aver l’abilità di un ladro: è una grave lacuna nell’educazione di un gentiluomo che si dedica agli intrighi” – di uno sventurato Principe delle Femmine.
In XLVII le racconta, divertito, di una certa e assai sportiva Emilia, così compiacente che egli ha potuto usufruire “del suo fondo schiena come tavolino per scrivere alla mia bella devota, alla quale mi sono divertito a scrivere una lettera dal letto e quasi tra le braccia d’una ragazza e interrotta da un’infedeltà in piena regola… e nella quale io la informo con precisione del mio stato e della mia condotta” – al che mi vengono in mente due detti arşân: tótt i cajòun a gh ân la só pasiòun e l ē brót ma s-cètt, forse per niente brutto ma schietto sì.
Scriverà alla sua amata: “Se io richiamo ancora alla mente i piaceri dell’amore, è solo per sentire più intensamente il dolore d’esserne privo.”
La poveretta risponde: “… mentre credete di fare l’apologia dell’amore, che cosa fate voi, invece, se non mostrarmene gli effetti più terribili.” – come se fosse uno stupefacente dai disastrosi effetti collaterali, che reca dipendenza, come lo stesso Visconte, che si lamenta “del turbamento involontario” che essa causa inevitabilmente. Il pur buffo (dal suo punto di vista) tradimento diventa un’attestazione dello svanire dell’idillio da parte di lei, oltre che della I Parte del romanzo.
La lettera LI della Marchesa inizia con un sacrosanto “Caro Visconte, voi siete veramente insopportabile! Mi trattate con tanta disinvoltura come se io fossi la vostra amante…” – e manca poco che non dica p…ana. Mi fa sorridere come la nobildonna definisce la lettera che “la piccola” Cécile invierà al suo amato: “un capolavoro di gesuiteria”.
Meno umoristica ma assai perspicace è una sua asserzione: “la vera maniera di vincere gli scrupoli è di non lasciare alternativa a coloro che ne hanno”. I due tipi sono solidali in certi progetti, chiamiamoli pure immorali, ognuno col suo stile: più pratico quello del Visconte, più teoretico quello della Marchesa. Non so però definire (genuinamente fittizio?) la chiusa di LII, in cui il valent’uomo dice alla Presidentessa, parlando del proprio muscolo cardiaco: “Qualunque sia il destino che gli riserverete, non potranno cambiare i sentimenti che lo animano e lo legano a voi: sono inalterabili come le virtù che li hanno fatto nascere!” – bla bla bla, e che vivranno non si sa ancora quanto felici e contenti.
In LVII il Visconte scrive al suo alter ego femminile la solita frase ambigua: “Mentre io sto qui a disquisire, voi fate di meglio col vostro Cavaliere. Questo mi fa ricordare dell’infedeltà che mi dovete, come promesso” – e poi si lancia all’attacco (e pare un incontro di aikido): “Oh, lasciatemi fare, ed io vi costringerei ad ammettere che, se ci avete trovato qualche merito è solo perché mi avevate dimenticato.” – come se fosse possibile, essendo come scordare se stesso. Molto passionale, ma un po’ terra terra. In LXIII la Marchesa spara l’ennesima frase magnifica: “Gli sciocchi sono al mondo per farci divertire…”. La Signora è tanto buona, quando ricorda di aver consolato la piccola Cécile dandole “quelle consolazioni banali che solitamente non alleviano il dolore, ma anzi lo accrescono; in questo modo l’ho portata a un punto tale di disperazione che quasi soffocava per l’angoscia… Non poteva più nemmeno piangere…”.
Una frase ambigua, in cui ella minaccia il Visconte: “Ma se, alla fine di tutto, la piccola esce da questa situazione così com’è entrata, io me la prenderò con voi.” – cosa deve perdere la poverella, soltanto l’innocenza o qualcosa di più fragrante? I discorsi sono molto libertini: in LIX il Visconte le aveva detto che la lasciva (a dir poco) “Contessa di B***”, ironicamente, le aveva detto che “suo marito possiede il più bel bosco di questo mondo che mantiene con grande cura per il piacere dei suoi amici”, e il fatto la Marchesa lo riprende in culo alla sua missiva.
In LXV l’ingenuo Cavaliere Danceny scrive alla sua bella: “… ho come giustificazione la sfortuna e la necessità: sono stato guidato dall’amore che implora la vostra indulgenza, e vi domanda di perdonare una confidenza necessaria e senza della quale noi saremmo forse rimasti separati per sempre” – cos’è caso e cos’è necessita occuperà la mente di Jacques Monod, circa due secoli dopo.
Torniamo ai nostri due tennisti al top del ranking. Il Visconte è un Guillermo Vilas, dall’arto mancino ipertrofico, quello destro appena normale, grande seppur prevedibile combattente, maestro di resistenza. La marchesa è un misto di Björn Borg e di Monica Seles, abilissimi nei giochi a fondo campo, in grado di stroncare chiunque, ed entrambi impietosi nel rovescio a due mani. Sarà anche la nobildonna destinata a una carriera fulminante e a un ritiro anticipato?
Il Visconte mette involontariamente a repentaglio la reputazione di un’altra pennuta colta a caso, e poi fa di tutto per salvarla, perché, si domanda retoricamente: “potevo io sopportare che una donna fosse rovinata a causa mia, e non per mio deliberato proposito?” – destruo vel servo ergo sum: vel non aut.
In LXXII tocca al sempre più deperito Cavaliere Dancey, che è orante di fronte alla sua minuscola dea, Cécile: “Voi mi amate, non è vero? Sì voi mi amate con tutta l’anima! Io non dimentico che questa è l’ultima parola che vi ho sentito pronunciare. Come l’ho raccolta nel mio cuore! Come vi si è impressa profondamente, e con quanto entusiasmo la mia anima vi ha ricambiato! Ohimè, in quel momento felice, io ero ben lontano dal prevedere l’orribile sorte che ci attendeva!” – un discorso religioso, che raggiunge il suo culmine in quell’entusiasmo, èn-theos, colmo di quel dio femmina.
In LXXVI il faceto Visconte scrive alla consueta partner di allenamento: “Non mi credo più stupido di un altro; ho trovato cento, mille mezzi per disonorare una donna; ma quando avevo dovuto pensare come ella avrebbe potuto salvarsi, non mi è mai sembrato che ne avesse la possibilità. E, mia bella amica, nella vostra stessa condotta che è un capolavoro, cento volte ho creduto di vedere più buona fortuna che buon metodo.” – meno mestiere, in altre parole. Se qualcuno ha dubbi sulla capacità di penetrazione psicologica di Laclos (paragonabile a quella fisica del Visconte), legga: “… fra di noi si stabilì quella tacita convenzione, primo trattato dell’amor timido che per soddisfare il desiderio reciproco di guardarsi, permette bagli sguardi di succedersi in attesa che si confondano.”
In LXXXI la partner lo beffeggia: “Eh…! La vostra Presidentessa vi tiene a bacchetta come un bambino…!” – e poi dona un’altra delle sue perle: “In questa lotta ineguale, la nostra fortuna è di non perdere e la vostra disgrazia è di non vincere…” – detto in altro modo: alle signore basta un pareggio, anche a reti (e quant’altro) inviolate.
Lei dice di differenziarsi dalle altre donne in certi principi etici, che “sono il frutto delle mie profonde riflessioni, e li ho creati io…! E posso perciò dire che sono opera mia!” – l’etica è mia e me la gestisco io! Lei si approcciò all’amore, “non perché volessi privarlo, ma per tentare di ispirarlo e fingerlo.” – questa missiva è la più lunga finora ed è un racconto che non può non finire che con le parole: “Eccovi in due parole, il mio romanzo. Addio.” – almeno fino alla successiva volée sottorete: nella lettera LXXXV, la Marchesa dice al suo partner-antagonista di aver “portato a termine la mia avventura con Prévan” – un altro concorrente del torneo, disprezzato e invidiato dallo stesso Visconte, grande sciupatore di femmine (nel senso che sembra perseguire in primo luogo la loro rovina).
In LXXXV la Marchesa sbeffeggia i campioni di quel tipo: “Quanto è comodo aver a che fare con voi altri, uomini di principi! Può accadere che uno straccio d’innamorato ci sconcerti con la sua timidezza, e ci spaventi coi suoi infuocati trasporti: è una febbre che, come l’altra, ha i suoi brividi, e sempre varia nei sintomi ardenti; ma la vostra tattica è così facile da indovinare!” – essendo di tipo manualistico.
In LXXXVII la Marchesa termina la descrizione della corrida in cui quel famelico toro viene trafitto (e pure incarcerato) per delle malefatte che sono state freddamente preordinate e fortemente volute dalla Marchesa e in cui quel vile è precipitato. Con questa barbara esecuzione termina la II Parte.
Attuale consuntivo. La marchesa è la campionessa in carica, essendo la più abile nelle mosse e nelle contromosse, in grado di far convivere una calorosa passione amorosa con una glaciale capacità di gestire le sorti altrui. Il secondo nel ranking è il Visconte, il quale però spreca troppa energia nel bramare la voluttà erotica e che per questo pare destinato alla sconfitta, al tiebreak del quinto set, non per mancanza di intelligenza quanto per eccesso di stoltezza. Egli non è più sincero della marchesa, eppure si lascia ingannare dalle fandonie che racconta lui stesso. La Marchesa è un tipo molto consapevole (delle conseguenze cosmiche) ed è la miglior giocatrice del torneo poiché sa prevedere le mosse successive con estrema lungimiranza. La furbizia del Visconte è hic et nunc, quella della Marchesa è programmata nel futuro, tenendo ben salda la reminiscenza del passato. La sua arma più acuminata consiste nel fatto che, pur riconoscendo il senso delle passioni, sa pensare, con freddezza, ai suo inevitabili effetti.
In XCVI egli le dice che, essendo “da qualche giorno, meno maltrattato dalla mia dolce Devota e perciò meno interessato a lei, avevo notato che la piccola Volanges era davvero un bel bocconcino.” – con tutto quel che può conseguire da quest’amena constatazione.
“Mentre voi, maneggiando con la destrezza propria del vostro sesso, trionfate con l’astuzia, io, restituendo all’uomo i suoi diritti imprescrittibile, ho trionfato con l’autorità” – e qui verrebbe da dire che ha attestato il sacrosanto diritto a essere a sua volta matato, sacrificato.
“Ero ben contento, lo confesso, di aver così invertito le parti, e che il giovanotto facesse per me la parte che si credeva io facessi per lui.” – un giocatore di livello così inferiore che una sua sconfitta appare quasi onesta.
Nottetempo entra nella camera della ragazzina e la sottomette. Psicologicamente e fisicamente, prendendosela comoda: “Amo gli indugi – ve l’ho già detto – una volta che si è sicuri di arrivare, perché andar tanto in fretta?”
Il marpione è il maestro di arti marziale che vuol far crescere il suo uke, che riceve l’attacco, prima che diventi a sua volta, inevitabilmente, un tori, che lo causa: “usavo l’astuzia di usare solo le forze che lei era in grado di combattere”; fino a che “di debolezza in rimprovero, e di rimprovero in debolezza, noi ci siamo separati soddisfatti l’uno dell’altro…” – magari pure inchinandosi! – “e tutt’e due d’accordo per un nuovo incontro che si terrà questa sera” – finché dura l’effetto del riscaldamento. Di quanto è successo le uniche avvisaglie, che però non destano sospetti ma solo ansie materne, sono “Dei modi imbarazzati… una difficoltà nel camminare… gli occhi sempre bassi… e così gonfi, e così sbattuti! E quel faccino, tanto rotondo, come si era allungato! Il quadretto era davvero divertente!” – colgo sì del cinismo, ma anche molta com-passione, sia pure malevola.
In XCIX il Marchese scrive alla marchesa: “… nel cupo maniero della mia vecchia zia non mi sono ancora annoiato un solo minuto. Qui dispongo di godimenti e privazioni, speranze ed incertezze.” – quel che è assente è quel che produce l’energia per quel che è vigente.
Narra poi dell’incontro con la seconda uke, che in realtà è la prima, la virtuosa Presidentessa. E si confida all’altra docente di passioni amorose: “Voi avrete senza dubbio già osservato come, in queste condizioni, man mano che la difesa si affievolisce, le domande e i rifiuti si scambiano sempre più da vicino; come le teste e gli sguardi si chinino, e le parole, sempre pronunciate a bassa voce, si facciano sempre più rare e trattenute… Questi primi sintomi annunciano inequivocabilmente il consenso dell’anima, ma raramente arriva fino a quello dei sensi.” – però ora si è lì, nei pressi, e lei grida: “… sarete voi che mi salverete. Voi non volete la mia morte! Lasciatemi! Salvatemi! Lasciatemi, in nome di Dio! Lasciatemi…”.
Nel judo è un continuo spingere e tirare, un sacrificare parte del proprio equilibrio per proiettare il corpo altrui, oppure per sgambettarlo all’indietro, sfruttando l’energia altrui per il proprio fine: rimanere sopra all’altro, e dominarlo.
Nella lettera successiva alla sua solidale, il Visconte impreca per l’inopitata partenza della miseranda Presidentessa, minacciandola virtualmente: “… e quando sarà ben convinta della mia lontananza, piomberò su di lei e vedremo cosa saprà cavarsela quando ci troveremo di nuovo faccia a faccia!”
In CII l’ormai stravolta fuggitiva scrive a Madame de Rosemonde che lei, in VIII, descrisse a Madame di Volanges in termini esultanti: “Ella è sempre simpaticissima e la sua età nulla le ha tolto: ella conserva tutta la sua memoria e tutta la sua serenità; e se il suo corpo può avere ottantaquattro anni, il suo spirito ne ha appena venti…” – appena appena compiuti! Ora le scrive: “Amo! Sì, amo perdutamente!” – e si domanda “perché non è facile per lui leggere nel mio cuore, come gli è facile regnarvi?” – non essendo una questione di dislessia, quanto di volontà di potenza, che sempre, piazzandosi davanti al prossimo, impedisce la visuale. Lei si sentiva “destinata a fare continuamente la sua e la mia sventura; a non osarmi né lamentarsi né consolarlo; a difendermi ogni giorno da lui e da me stessa…” – eccetera eccetera. L’anziana poi le risponde che sa perfettamente di che cosa e di chi sta parlando e che anche lei continuerà, per prudente similitudine, a tacerne il nome.
In CIV la Marchesa scrive alla madre di Cécile che i due aspiranti mariti della figlia “entrambi sono nobili per nascita”, ma solo quello Monsieur de Gercourt (che ancora non è intervenuto nelle corrispondenze, ma solo nominato di tanto in tanto) ha, per dirla volgarmente, i mezzi di sostentamento, anzi, è davvero ricco; l’altro ha poco o nulla e che “la scelta del nostro avvenire non deve dipendere dall’illusione di un momento. Infatti, per scegliere bisogna comparare e come si può fare se noi ci occupiamo solo di un unico oggetto.” – santificandolo, quando non è nemmeno beato.
In CV tocca alla figlia a essere istruita sulla convenienza: “… da parte vostra, volete conservare la vostra saggezza per il vostro amante (che non ne abusa, in verità!); voi, dell’amore, volete solo i dolori e non i piaceri. Niente di meglio! Stareste molte bene in un romanzo.” – diciamo che se la cavicchia. “Malgrado le lodi che, come vedete, sono obbligata a farvi, voi avete lasciato incompiuto il vostro capolavoro: dovevate anche dir tutto a vostra madre. Avevate cominciato così bene. Vi eravate gettata nelle sue braccia, singhiozzando; anche lei piangeva. Che scena patetica.” – di quelle che rimangono in mente a uno spettatore di una piece teatrale. E poi le dà della bambina. E fa infine il doppio, anzi, triplo gioco: “Me lo ha scritto. Non esisterà a proporvi di sposare Danceny, e ciò per indurvi a confidarvi con lei…” – e dopo la sua confessione, l’unica conseguenza sarebbe l’immediata reclusione in un convento.
Le consiglia di fingere di non pensare più allo squattrinato, di non essere più mesta per la propria sorte e mostrarsi ipocritamente sottomessa al materno volere. Tanto, “per quel che ce ne facciamo di un marito, uno vale sempre l’altro; ed il più incomodo di essi dà sempre meno soggezione di una madre.” – madre = civiltà; amante = eros (quest’ultimo paragone lo si capirà forse dopo).
Ora tocca parlare di Valmont, il problema più cogente: “… solo molto difficilmente lo si può trattenere. Ed è pericoloso disfarsene…” – alternando “astuzia” a “docilità”. Egli può disfare una fortuna, ma anche crearla: con la sua amicizia, “vi metterà subito in prima fila tra le nostre donne alla moda”, tenendo anche a mente il postulato: “… gli uomini, al principio, sono i primi a sollecitarci; in seguito, quasi sempre tocca a noi andarli a cercare.” Non deve dimenticare, mentre è sul pezzo, che “al mondo non ci siete che voi alla quale io sia tanto amica da poter parlare così come faccio. Addio, angelo mio…” – e qui sento che, forse, un briciolo di sincerità emerga da un oceano di menzogne. E urge ripetere quello che in XXXVIII scrisse al Visconte, dove aver tessuto le lodi, pur intrise di difetti, della sua piccola animaletta: “A dire il vero, a volte sono quasi gelosa dell’uomo a cui è riservato questo piacere…!” – e la Nobildonna cela sempre nei puntini i suoi aneliti e piani, come fa ogni agente segreto che si rispetti. La chiusa della lettera è un appassionato “Addio, cara mia, vi bacio invece di sgridarvi, nella speranza che avrete per l’innanzi più giudizio.”
In CVI la Marchesa scrive al suo compagno d’armi, che era arrivato al punto di non ritorno con la sua Presidentessa, ma aveva all’ultimo rimandato. E lei se ne era fuggita. “E non poteva essere altrimenti. Che cosa volete che faceva una povera donna che si concede a uno che non ha il coraggio di prenderla?” – la fuga era un esempio da mettere “in pratica” anche da parte sua, “alla prima occasione”. Sparla poi dell’infanta, che aveva dapprima giudicata degna di diventare “un’intrigante di seconda mano”, e di assumerla come mia spalla; ma vedo che non “ha la stoffa…” – potrebbe diventare, al massimo, “una donna facile”, come mille altre.
In CX il Visconte ha la solita chiusa invocatrice, in cui domanda alla sua Amata e Santa Marchesa: “la ricompensa che mi aspetto da voi”. La quale, in CXIII fa come se non avesse sentito, ma lo avverte che “a Parigi si comincia a mormorare sul suo conto”. Tanto che il suo mito sta scricchiolando, e i suoi rivali incombono. Il motivo è che lo si crede infelice “in campagna”, debilitato da un amore infelice e ormai facile da trafiggere. Inoltre: la piccola pur donandole il corpo, riserva l’anima (e il pensiero) ogn’ora al di lei amato Danceny.
In CXV il Visconte non pare capire: “Addio, mia bella amica, abbiate il coraggio di liquidare Belleroche al più presto. Lasciate stare Danceny, e preparatevi a riavere e a restituirmi i deliziosi piaceri dei nostri primi amori.” – uomo pratico e privo di quelle pastoie connesse alla gelosia. Dieci lettere dopo finisce la III Parte.
In CXXV, che inaugura la IV, un sempre logorroico Visconte comunica alla sua compagna di sotterfugi l’esito favorevole della sua lunghissima ed estenuante caccia: la preda perde i sensi, per cui “finsi un grande sgomento e, sempre fuori di me, la condussi o la portai verso il luogo in precedenza designato come campo della mia gloria… Non ritornò in sé, se non quando ormai era sottomessa e già in balia del suo felice vincitore.” Egli si considera un condottiero “alla pari di Turenna e di Federico”, avendo “costretto il nemico a battersi, mentre non voleva che temporeggiare.” – anche se “ora temo d’essermi, come Annibale, infiacchito negli ozi di Capua.”
Mentre la selvaggina si agita come non mai, egli cerca di tranquillizzarla con “i più usati luoghi comuni”, tipo: “E voi, Signora, siete tanto disperata da avermi reso felice?”. No, anzi, gli dice: “… io non potrò più sopportare di vivere, se tutta la mia vita non servirà a rendervi felice. Mi consacro interamente a voi: da questo momento sono vostra,e voi non subirete più da me né un rifiuto né un rimpianto!” – e quando cade strategicamente “ai suoi piedi”, le dice cose mirabili “e, devo confessarlo, ero persino convinto di quel che dicevo”.
In CXXVII, un’indispettita Marchesa finge di veder diminuito il proprio valore, dopo quegli acclamati e variopinti successi, tornando a lei, sicuramente gli parrebbe abbassarsi di livello: “verreste a cercarvi dei piaceri, certamente meno piccanti, ma senza conseguenze: e le vostre attenzioni, sebbene un po’ rare, basterebbero a soddisfare la mia felicità!” – siffatta modestia è innaturale, venendo da una persona tanto cosciente del proprio fascino e valore. In CXXIX il Visconte la tranquillizza: “Oh, ma chi potrebbe superarvi nel dare piaceri deliziosi che voi sola avete l’arte di rendere sempre nuovi, sempre più piccanti?” – e basterebbe una parola e lui volerebbe “ai vostri piedi e tra le vostre braccia, e vi proverò mille volte…” – etc etc.
L’ottuagenaria zia, che di esperienza ne ha sicuramente maturata (fin troppo, temo) spiega alla Presidentessa l’opportuna distinzione fra i desideri dei due sessi: “Il piacere dell’uno è soddisfare i propri desideri; quello dell’altra è di fare nascere nell’altro il desiderio; per lui, piacere è un mezzo di successo; per lei, piacere è il successo stesso.”
In CXXXI la Marchesa scrive al Visconte che esso “è l’unico impulso che unisce i due sessi” ma “non basta da solo per stabilire un legame tra di essi.” – inoltre: “se è preceduto dal desiderio che avvicina, è poi seguito dal disgusto che allontana.” – indicativo è che tali affermazioni sono poste con frasi interrogative, che non ammettono che un assenso. Non va infine dimenticato “che il rimpianto è necessario in amore e che, per quanto gradita possa essere la nostra illusione, non dobbiamo mai pensare che essa possa essere durevole.” Dopo di cui comincia l’entropia gravemente preannunciata dal secondo principio della termodinamica. Il Visconte si fa sorprendere dalla Presidentessa “in compagnia di una sgualdrina, molta nota.” – (la stessa il cui nudo deretano servì una volta da scrivania) e lui la ce la fa ancora a convincerla della sua immacolata innocente. Qualcosa però accade e tutto va a farsi benedire, o maledire, che rende più l’idea.
Da notare che in chiusa di CXXXVII l’infido nobile dice alla sua amata: “Ah Signora, e ora voi mi condannereste a una disperazione senza fine?” – e che, nell’abbrivo di CXXXVIII, lo stesso confessa alla sua complice: “Insisto ancora, mia bella amica: no, non sono innamorato; e non è colpa mia se le circostanze mi obbligano a recitare questa parte.” Il fatto è che un campione come lui non giudica per nulla “decente che mi si metta alla porta”. E, dopo alcune terapeutiche mistificazioni, la Presidentessa, ormai sollevata, scrive all’anziana protettrice: “Al dolore, all’angoscia sono subentrate la calma e le delizie.”
Se tutto è bene quel che finisce bene, qui tutto è male. In CXLV la Duchessa prende atto della fine dell’idillio e, fingendo amarezza, ammette: “la vanità è nemica della felicità”. E una resa in cui è difficile credere: “… dovessi anche ridurmi alla disperazione e alla clausura, vada tutto, mi arrendo al vincitore” – che è il destinatario della lettera, l’ormai perduto Visconte, il quale sta cercando in tutti i modi di dare scacco col re alla regina: potrebbe mai accadere? La quale gli spiega: “… quando una donna colpisce al cuore un’altra donna, fallisce difficilmente il punto debole, e la ferita è mortale. Mentre io colpivo costei, o meglio, mentre dirigevo su di lei i vostri colpi, non dimenticavo che questa donna era mia rivale.” – il Visconte ha sacrificato la sua regina e ora il suo re è denudato e per sempre inerme.
Nell’allenamento del judo, alla prima parte della lezione in cui si provano le tecniche strutturate dei kata, ove si consente all’uke di sbagliare, segue il randori, la lotta dura, che non ammette pietà.
Ora tocca al Cavaliere Danceny patire le tattiche della Marchesa, di cui è irrimediabilmente e crudelmente innamorato: “… l’ora in cui potrò vederti finalmente s’avvicina; ti lascio subito per ritrovarti più in fretta.”
In CLII la Marchesa, da una parte rinfaccia a un Visconte inviperito e ingelosito di non essere più “il Valmont che io amavo”, il quale “era gentile, e, voglio dichiararlo apertamente, era l’uomo più amabile che avessi mai conosciuto.” – era. Dall’altro lo illumina sulla cruda realtà: “egli non farà alla vostra amante delle cose peggiori di quelle che voi farete alla sua”.
In CLIII il Visconte la minaccia di scendere sul piede di guerra. Al che lei risponde: “E va bene, sia la guerra!” In CLIX lei affonda lo stiletto, scrivendogli: “Quando ho da dolermi di qualcuno, io non lo prendo in giro: faccio di meglio, mi vendico.” Quando la misura è colma, c’è chi muore, chi va in convento, chi si becca il vaiolo, sfigurandosi, senza però trasfigurarsi.
Mi va d’identificare solo l’aspirante monaca, che è ovviamente la più giovane e ingenua del mazzo, unicamente al fine di chiedere a qualcuno se è informato di quanto Guido Piovene avesse in mente quest’amena storia quando concepì quella della sua Margherita, detta Rita.
La più saggia infine rimane sempre lei, Madame de Rosemonde, quando scrive all’angosciata mamma della penitente: “Il favore che mi resta da chiedervi è di non rivolgermi più nessuna domanda riguardo questi tristi avvenimenti; lasciamoli nell’oblio che a essi conviene, e senza cercare delle inutili o penose spiegazioni, sottomettiamoci ai decreti della Provvidenza, che non ci permette di comprenderli…”.
Cosa rimane di questo capolavoro? Nulla. E tutto. È soltanto un capolavoro, con quel quid ineffabile, che è vano tentare d’afferrare.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Pierre-Ambroise-Franҫois Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose, Feltrinelli, 2013