“Una tragedia americana” di Theodore Dreiser: l’impossibile Verità
Ecco una frase apodittica, tanto per iniziare: ogni romanzo è una storia a sé, che può essere dimostrata col ragionamento, ma non con dei fatti certi. Chi ha letto tutti i romanzi che sono stati scritti? Chi li ha compresi tutti? Eppure sento che non possa essere che così.
Non dico che siano le narrazioni migliori, ma le più commentabili, quelle che vanno a scatti improvvisi, con frequenti cambiamenti di ritmo, che ogni volta sorprendono il lettore e gli fanno aggiungere qualcosa che pare manchi, e che celano per lo più delle vere e proprie trappole tese dall’autore. Altri invece formano un corpo unico, dalle mille sfaccettature, ma messe in fila con un ordine così generale che i vari capitoli, capoversi, periodi, le singole frasi appaiono come le piastrelle multicolori che formano alla fine un unico disegno, senza alcuna apparente soluzione di continuità, come le scale di Escher.
Leggendo le prime duecentocinquanta pagine di Una tragedia americana di Theodore Dreiser mi è venuto in mente una fotografia della Scala di Santa Maria del Monte di Caltagirone, in loco detta A Scala dâ Matrici, che collega la parte più antica della città a quella nuova, che è costruita più in alto, e che, nel dettaglio, riporta una serie che pare infinita di piastrelle di ceramica. Caltagirone, al pari di Vietri, è una delle capitali italiane di questo tipo di decorazioni. Non vedo l’ora di finire il romanzo per iniziare a sognare di andarci, magari fra una settimana o due. Il libro è meglio che lo lasci a casa, pesa oltre un chilo.
E della storia di Clyde, che dire? Per quanto l’opera appaia, sia pure illusoriamente, granitica, non è che un susseguirsi di momenti diversi, in cui i personaggi principali tendono a spostarsi da un luogo all’altro, in cerca del loro miglior destino.
“Durante tutto quel tempo, Clyde era andato ripetendo a se stesso che non gli era più possibile vivere in quel modo e che i suoi genitori gli sembravano tocchi di mente e fuori dal normale.” Essi vivevano per la Missione di cui si sentivano investiti: predicare il nome di Cristo, campando alla giornata, come riuscivano meglio.
Il padre, Asa Griffiths, era “il prodotto di un complesso di circostanze materiali e di una teoria religiosa che assorbiva tutto l’essere suo, privandolo di qualsiasi iniziativa. Sensibile, tuttavia, o, piuttosto, si potrebbe dire sentimentale, ma con assoluta mancanza di senso pratico.”
La moglie era un po’ più spiccia, ma non troppo: “in lei pure mancava una chiara e realistica visione delle cose pratiche.” – Dio li fa e poi, se capita, li accoppia.
Quel che differenziava da loro quel figlio maggiore era “una fantasia viva e una certa intuizione del mondo e dei suoi abitati, su cui fissava la sua immaginazione.” Un aspetto del suo carattere: “Clyde era vano e superbo quanto era povero. Era uno di quegli esseri che si considerano fuori dell’ordinario e mai totalmente legati alla propria famiglia neppure per sentimento di gratitudine verso coloro che li hanno messi al mondo.”
Quando sua sorella Esta scappa da casa, mossa anch’essa da una fortissima volontà centrifuga, la prima cosa il padre sa dire è: “Tst! Tst!” – e poi: “Ebbene cosa credi che abbia potuto indurla a far questo?” Quel suo “Tst! Tst!” è un suo frequente modo per indicare lo sconcerto. Mentre i suoi genitori (la madre, più che altro) vanno a cercare una risposta che non sia quel “Tst! Tst!”, ipotizzando l’intervento di qualche “ignota potenza maligna”, Clyde si pone diversi quesiti esistenziali, innanzi tutto tentando di “darsi una ragione di una così tremenda sventura, almeno in quel primo momento. Però il ragazzo era ormai avvezzo a considerare che una ragione si sarebbe trovata. Con ferma e cieca fede i suoi genitori insistevano, come tutti i fanatici, nel separare io da tutto ciò che rappresenta danno, colpa o sventura, pur ammettendo la di Lui suprema reggenza in tutte le cose.” – e di questa filosofia, non meno assurda di altre, se ne può discutere ad libitum, o ad nauseam, senza venirne fuori (né dentro). Per equilibrare il periodo, che è già troppo lungo, citerei il solito mio Krishnamurti che è portatore di ben altro pregiudizio: la verità la si può osservare chiaramente come se fosse un cobra, senza altro pensiero che prenderlo a bastonate, oppure stare semplicemente a fronteggiarlo, dimenticando a quale specie di ofide appartenga, o quel che è successo al tuo bisnonno in un’occasione simile. Una totale mancanza di fede (nei pregiudizi) reca una sorta di fiducia immensa in se stessi, che a volte è completamente inutile. A volte no. Riporto il commento di Asa: “‘Ebbene, sia benedetto il nome del Signore!’ – esclamava di tanto in tanto, – ‘I nostri cuori devono essere sempre aperti… Non è a noi che spetta di giudicare, dobbiamo lodare il Signore sempre! Amen… Tst! Tst!’” Poi “Asa emise un altro ‘Tst!… tst!… tst!…’ e i ragazzi furono mandati a letto.”
Dei pensieri agitavano la mente di Clyde: “Chi erano quei ricchi, e quali meriti avevano per godere di larga fortuna, quando altri, non certo intellettualmente inferiori a loro, non possedevano nulla.” – il che è un quesito che ha mille risposte, oppure nemmeno una, a seconda dell’ideologia che si pratica o che si rigetta. Clyde si butta nella mischia, cioè esce, ogni volta che può, da quell’angusto ambito familiare e quando si chiede: se “doveva o non doveva bere”, si risponde: “prenderò io pure del vino del Reno con acqua di Settz.”
Egli ha ora trovato un lavoro, con cui aiuta un po’ la famiglia. La madre si rivolge a lui, e non al marito, per un improvviso bisogno di soldi, dicendogli: “Tuo padre è assai poco tagliato per gli affari, e pi è sempre così abbattuto…”. Clyde scopre che Esta è tornata, non com’era partita, più esangue e leggermente incinta, senza che nessuno più badi a lei, se non la mamma e, quando la scopre, il fratello maggiore, le cui misere finanze serviranno ad aiutarla e, al contempo, a finanziare una commessa di nome Hortensie, che con arti da maliarda, sta scombinando il cervello del giovane. Non essendo io innamorato di lei, la giudico vanesia e insopportabile, diversamente da Clyde, che è preso come mai lo è stato in precedenza. La prima sbandata non si scorda mai.
La storia fra i due, fra mille bassi e un paio di alti, finisce malamente quando un loro conoscente, a dir poco sventato, correndo a grande velocità investe “una bambina si nove anni, che voleva attraversare correndo…”.
Sparser, l’autista pazzo, spegne le luci, vedendosi inseguito dalla polizia, dopo di cui, inevitabilmente (quando si dice il fato, che forse non esiste o forse sì), va a sbattere contro un duro ostacolo, e tutto l’equipaggio subisce, chi più chi meno, un bel trauma.
Hortensie, che “era stata gettata completamente su di lui dalla parte del tetto che ora formava la parete di sinistra”, uscita dal veicolo, toccandosi la faccia, si accorge che “non soltanto la fronte, ma anche la guancia sinistra erano state graffiate e sanguinavano”, per cui, gemendo disperatamente, “senza più curarsi di nessuno, si era avviata verso la città col solo pensiero di arrivare a casa al più presto possibile per provvedere a se stessa.” – e a verificare cos’era rimasto della sua prodigiosa bellezza.
Tutti riescono a fuggire, disinteressandosi della sorte degli altri, tranne l’autista e una certa Laure Sipe, ancora tramortiti per la botta presa. In attesa che prendano coscienza, termina il Libro Primo. Nel successivo, a pagina 142, si dice della “bimba di dodici anni, appartenente a una famiglia benestante, travolta da un’automobile e morta un’ora dopo”, per cui “Sparser e Laure Sipe all’ospedale” sono “in stato d’arresto e piantonati da un agente in attesa della loro guarigione.” – e per sempre resterà al lettore il dubbio di quale sarà stata l’età reale della piccola vittima di quel tragico e non si capisce quanto assurdo incidente.
Il Libro Secondo parla soprattutto d’altro: “A Lycurgus, una città di circa venticinquemila abitanti, nello stato di New York, a metà strada fra Utica e Albany” vive la famiglia di “Samuel Griffith” – fratello di Asa, ricco industriale, munto di soldi, di moglie e di tre figli, due ragazze e un giovane rampollo, Gilbert. che svolge il ruolo di dirigente presso l’industria paterna. Salendo una gran parte di quei gradini della scala sicula di cui dicevo, mi chiedo di perché quel nome, Lycurgus, che appartenne a un antico legislatore spartano, ma che fu anche il titolo di una tragedia latina, di cui so poco o nulla, e se Utica abbia a che fare con l’isola di Ustica, se non addirittura con l’omonimo porto fenicio (ma sarebbe un caso veramente assurdo!).
Colgo i fatti essenziali, per esempio che, in fuga da tutto, dopo aver inviato una lettera alla madre, su consiglio di questa, Clyde va a trovare quel suo ricco zio che, benevolmente, lo assume, per cui viene adibito a una mansione che si rivela umile e faticosa. Quando lo zio lo vede così male in arnese e con vestiti arrangiati, ordina al proprio figlio Gilbert, cugino di Clyde, di destinarlo a un compito di sorvegliante delle operaie, una delle quali, “Roberta Alden”, residente in “Via Taylor 228”, desta in lui una certa passione.
La ragazza abita presso una famiglia, in cui nessuno “aveva mai letto un libro serio che illustrasse cognizioni utili” – la quale sembra un’immensità negativa per chi, come me, respira leggendo e legge respirando, ma che è una cosa normale per quelli, del resto “ottima gente, morale, religiosa, onesta, retta, timorata di Dio e, sotto ogni punto di vista, rispettabile al massimo grado.”
Anche Roberta sente dentro di sé una fortissima attrazione per quel giovane, che tanto assomiglia al figlio del padrone, ma che è, e il concetto viene ripetuta da più voci, di lui più alto, più bello e sopratutto meno insulso. A Roberta, “conquistare un giovanotto come quello, tutto per sé, suo e di nessun’altra al mondo! Le sembrava il paradiso, pensava che se avesse conquistato lui non avrebbe avuto più bisogno di nulla al mondo.” – il che è un’illusione che, quando la si prova, poi il risveglio diventa brusco e assordante.
I due colombelli si dichiarano reciprocamente, pur avendo coscienza che sarà un problema per loro frequentarsi, essendo mal visto, anzi, vietato, il fatto che un controllore frequenti un’operaia.
Roberta è una proletaria. Clyde è figlio di un poveraccio, però è nipote di un milionario e lei stessa si chiede: “che cosa sarebbe derivato da questa relazione. Legami sentimentali fra classi diverse non erano forse condannate in quel paese? Lo sapeva bene e quindi non aveva alcuna voglia di parlare con nessuno della sua passione.” Lui la invita a ballare, lei non ne è capace, non vorrebbe, ma “appena la musica riprese, egli l’attirò a sé, assunse la posizione dovuta e fece i passi indicati senza sforzo nel guidarla; ben presto scivolarono via insieme e in perfetto accordo. Com’era deliziosa a sensazione di sentirsi tenuta e guidata da lui! Che meraviglia quel ritmico accordo del suo corpo con quello di lui!”. Anche lui, qualche anno prima, si era fatto condurre da una più esperta ballerina e non è mai stato un Fred Astaire. In certe tribù il ballo è un rito sociale a cui bisogna adeguarsi, in altre è il luogo dove cova il sogno della trasgressione: mai che l’uomo sia coerente con se stesso, semmai lo è col suo contrario.
“Roberta, che non era mai stata intima di quelle ragazze e non aveva mai avuto la presenza di spirito che occorre per togliersi da un imbarazzo improvviso e inatteso, arrossì.” – segno non solo di timidezza, ma anche di buona creanza. Nel mercato degli schiavi una donna che s’imbarazzava era giudicata più affidabile di una che ti guardava con occhi torvi e carichi di disprezzo. Il rapporto che s’instaura fra i due amanti è pieno di momenti caldi e freddi, bui e luminosi, di interazioni ormai prossime oppure già distanti, costanti o instabili, lente o rapidissime, ognuna delle quali appare come un fenomeno a sé.
“Si erano baciati e ribaciati a lungo con la stessa febbre che li aveva sempre sconvolti sin dal primo incontro, ma che ora si era fatta più ardente.”
“… anche in lei ardeva quello stimolo tremendo, quel desiderio spasmodico, travolgente, frenetico.”
“… Il tono della sua voce era freddo, aggressivo, amaro come mai era stato fra loro.”
“Quella ostinata resistenza, quel togliergli le speranze gli richiamavano alla mente la lunga serie di delusioni che avevano così male ricompensato le sue premure per Hortense Briggs.”
“Tutti i suoi principî le imponevano di rimanere ferma, di non abbassarsi in quel modo; e tuttavia la sua febbre amorosa la spingeva a correre ancora dietro a lui affinché non fosse troppo tardi.”
“Udiva ancora l’eco dei suoi passi che si allontanavano.”
“Era la prima, atroce, sanguinosa ferita d’amore.”
“Il suo era uno di quegli amori assoluti e ardenti, al quale la giovinezza non può resistere.”
“Non vedeva nell’avvenire alcuna speranza che non fosse fondata su di lui; e se ora si fossero guastati per sempre ed egli l’avesse abbandonata, nella sua collera?”
“Ella discuteva con se stessa nell’oscurità della sua stanza, distesa sul letto.”
“… niente a che vedere con quello più intimo e urgente del desiderio di lui di arrivare fino nella sua stanza.”
“E poiché i pensieri tormentosi non cessavano e una sensazione di freddo orribile la penetrava tutta, tolse il copripiedi dal letto, vi si avvolse e aprì una rivista, per lasciarla cadere subito dopo.”
“… quando il chiarore dell’alba penetrò nella stanza avvertendola che si avvicinava il momento di doversi vestire, non era giunta ad alcuna conclusione…”
“… in fatto di avventure era davvero un ingenuo, troppo facile ad accendersi e a scoprire il suo gioco, facendo subito capire di essere innamorato, mentre, essendo fisicamente assai piacente, non aveva alcun bisogno di correre dietro alle ragazze, se non erano queste a mostrare il loro desiderio per lui.”
“… così intensa era l’attrazione esercitata da Roberta su lui e sui suoi sensi, che nonostante questo supremo avvertimento del pericolo a cui andava incontro, continuava a dirsi che se ella non gli avesse permesso di entrare nella sua stanza, non avrebbe più voluto saperne di lei, perché contenersi era ormai superiore alle sue forze.”
“Egli sollevò subito lo sguardo ancora freddo per quell’insieme di pena, di inquietudine e di risolutezza che lo aveva inasprito durante tutta la giornata.”
“Leggendo quelle parole appassionate, tutte le fibre del suo corpo furono vinte da un languore senza nome.”
“… gli occhi le si illuminarono in una luce di trionfo; provò un senso violento di vertigine, come se il sangue, arrestatosi per un attimo nelle sue vene, riprendesse ora il suo corso, e tutto il suo essere fosse di nuovo inondato di una corrente radiosa di vita e di amore.”
“Ella l’avrebbe guardato negli occhi, e non si sarebbero staccati mai più, mai più.”
“La gioia e la delizia del legame fatto più intimo, degli scrupoli vinti, di una felicità sicura, inondavano tutto il loro essere.”
“… attendevano l’avvicinarsi della sera con una passione che era come una febbre!”
“… un piacere violento ed insaziabile li aveva presi entrambi, dominando tutti i loro pensieri e i loro atti…”
“… non c’era possibilità in loro che per la gioia impetuosa del possesso e tutta la giornata non era che un desiderare spasmodico che venisse la sera a celare nell’ombra la sognata ricompensa dell’attesa.”
“E Roberta già scrutava paurosamente nel buio avvenire…”
“… si affrettavano all’appuntamento in qualche luogo, per scivolare più tardi, nel silenzio della notte, in quella camera senza luce che era il loro paradiso, tanto è indomabile la febbre della giovinezza.”
Il cosmo, diceva Einstein, non è infinito, ma è illimitato, come una sfera, che continuamente piroetta su se stessa. E, a quanto si dice, è discontinuo, e a temperatura assai variabile.
E fuori incombeva, come sempre “quel senso di movimento e di vita così dinamico e pieno di seduzione! Oh, poter entrare in quel mondo!” – ma per farlo, Clyde Griffiths doveva disertare per un po’ quell’oscura e statica camera.
“Ora che Sondra era così improvvisamente riapparsa nella sua vita, e in quel modo, aveva portato una febbre d’agitazione in tuta la sua fantasia.”
“Il pensiero di Sondra e del suo interessamento per lui lo dominava troppo.”
“Forse le voleva bene, sì, gliene voleva, quantunque ora, nella gran luce da cui era accecato, potesse a malapena scorgere ancora la figurina di Roberta che gli sembrava insignificante.”
“In che modo regolarsi? Come poteva, con quel suo affetto improvvisamente divenuto freddo e indifferente, fingere una passione che non sentiva?” – che aveva cessato di interagire con lui…?
“Doveva continuare la relazione che, appassionata e intensa appena quindici giorni prima, appariva ormai del tutto priva di calore e di interesse?”
“Il suo contegno era troppo strano, i suoi baci troppo freddi, il tono della voce privo di un accento di vera tenerezza.”
Lei, allora “cercò di farsi forza e di fare appello alla propria fierezza. Vi riuscì in parte, dicendo, freddamente: – Bene, non voglio che tu faccia tardi Clyde. È meglio che ti affretti. Io non rimarrò dai miei che sino alla notte di Natale…”
Il nostro eroe ha altro per la testa, che ha perduto di nuovo, per una minorenne così fulgida e ricca: “È più forte di me, Sondra! È più forte di me! – esplose egli ad un tratto con veemenza. – Voi non sapete che sentimento mi avete acceso nel cuore. Siete così bella! Oh, quanto! Penso a voi senza posa, sempre a voi, Sondra, solo a voi…” – e continua a sciorinare tutti gli scombinati effetti della sua passione.
“Poi, improvvisamente, la cinse con le braccia e se la strinse al petto. Sondra, eccitata e in parte vinta dalle sue parole, invece di resistere fermamente come avrebbe fatto in qualsiasi altra occasione, lo guardava estatica, affascinata dal suo entusiasmo…” – fra tutte le passioni umane, quella amorosa è forse la più religiosa: il gioco consiste nel credere e nel far credere all’altro che è una divinità, nulla di più, né di meno, che mai si cesserà di adorare.
“Sondra, da parte sua, notando quella sottomissione da schiavo verso il padrone, ne provò un vivo piacere e al tempo stesso se ne irritò perché, come Rosetta e Hortense, anche lei preferiva, in fondo, essere dominata, piuttosto che dominare.” – e questo è un pregiudizio che a volte funziona, a volte no. In altre parole è una frase che trova un suo senso solo talvolta, peccando in razionalità.
Con Roberta ora è tutta un’altra storia. Clyde “riprese l’atteggiamento freddo e distante che aveva tenuto gli ultimi giorni in fabbrica.” Del resto, “come egli ardentemente sperava, dovevano essere quelle le ultime volte che stavano insieme.”
Roberta ha però un ritardo significativo nel ciclo e teme di essere incinta. Clyde le porta un rimedio per tanta disgrazia, e pur notando “quella freddezza!” – lei “gli sorrise con tenerezza.” – chiedendosi cosa accadrebbe “se quel rimedio non facesse effetto ed egli perseverasse in quel suo contegno freddo e distante verso di lei e si rifiutasse persino di aiutarla ancora”. Di tutto, oppure di tanto: per lei si profilava un futuro incerto e gravato da problemi.
“Nel volto di Clyde, duro e rigido, ella vedeva rispecchiato lo sfacelo di tutto il suo breve passato, e comprendendo che l’indifferenza per lei era giunta al punto di renderlo capace di disporre della sua rovina e della rovina che doveva venire al mondo, in un mondo così crudele e spietato…” – e così gelidamente infernale!, “… si sentì non solo esasperata, ma anche atterrita più che mai da ciò che significava un tale atteggiamento nei suoi riguardi.” Ora Sondra significava tanto per Clyde, e viceversa, e i due si vorrebbero sposare subito, se non fosse che lei è ancora minorenne. Ci sarebbe da pazientare un po’, e tutto questo mentre Clyde “era agitatissimo e cosciente di non essere mai stato, nella sua vita, così paurosamente sospeso sull’orlo d’un abisso.”
Clyde vive in una terrificante alternativa: “Sondra, la primavera, l’estate, la poesia, l’allegria, la posizione, la potenza, tutto… per andar via con lei, sposarla e appartarsi in qualche luogo sconosciuto. E poi l’orrore!… Con un figlio, alla sua età! Oh, perché era stato così sciocco e debole da legarsi così intimamente a quella ragazza?”.
Ispirato da un fatto di cronaca, egli comincia a sviluppare un piano: non propriamente lui, ma un demone che gli sta covando dentro:
“Morte! Assassinio! L’assassinio di Roberta!
Ma per liberarsi di lei e da quella sua assurda, tremenda pretesa… Già si sentiva gelato e bagnato di sudore solo a pensarci…”. Egli “scattò in piedi e rilesse la notizia sconcertante, con la maggior freddezza possibile, pensando così di allontanare da sé una volta per sempre, quella suggestione raccapricciante.”
Sondra è sempre più appassionata: “Gli prese la testa fra le mani e la tenne stretta, baciandolo furiosamente e ardentemente più volte.” – e gli manifesta tutta la sua passione. “Clyde, rapito e sbalordito da quella dichiarazione, si sentiva infiammato dal pensiero che quello era appunto il momento di suggerire la fuga e il matrimonio e di liberarsi dalla tremenda minaccia che gli pesava sul capo…” – che era l’altro matrimonio con una donna molto graziosa ma povera in canna. Questa, in dollari, la morale della favola. Sondra era riuscita a “suscitare in Clyde una passione così fremente, così delirante.” – Sondra però gli chiede di aspettare la sua maggior età.
Due passioni stanno lottando dentro di Clyde, non una contro l’altra, ma entrambe contro di lui: “Le mani gli tremavano, le palpebre gli bruciavano… sentiva uno strano formicolio alla radice dei capelli e brividi gli correvano per il corpo… L’assassinio…”. Egli “si passò una mano sul volto ardente e pallido…” e “ora il demone del suo io più oscuro e più debole diceva dentro di lui: – Potrai sfuggire alle esigenze di Roberta, che sino a questo momento ti sono apparse inesorabili? Ecco! Te ne indico io la via. La via del lago!…”. E quel Tanghero gli spiega che ora deve fare una scelta: “… conquistare ciò che vuoi sopra ogni cosa, bellezza, ricchezza, posizione, il conseguimento di ogni tua aspirazione materiale e spirituale, o di avere in cambio povertà, volgarità, lavoro duro e di scarso profitto. E devi scegliere… scegliere. E poi agire. Devi! Devi! Devi!” Il dover assolutamente scegliere è un momento difficile per chiunque, che mantiene davanti a sé varie prospettive, una delle quali è quella sociale, ed essa, a detta di tanti, è la più importante. Quella psicologica, che riguarda cioè l’anima, è per lo più giudicata infantile, ridicola, fuorviante. Roberta ha simili problemi, ma colti dall’altra parte. Per lei Clyde è stato, fin dall’inizio una promessa di riscatto da una vita grama. Il fatto che fosse anche un bel giovane ha aiutato il formarsi in lei la passione amorosa che l’ha avvinta a lui, al punto che ora ha in sé un dono meraviglioso e al contempo abietto: un bimbo. In una brevissima lettera lei lo mette alle strette. Deve incontrarla e sposarla, risolvendo il suo fatale problema: “Con questa lettera tra le mani, Clyde restò agghiacciato dal fatto che ora doveva senz’altro decidersi. Ella stava per giungere!” Intanto, “parve che il terribile genio del male, il quale già una volta si era annidato in un cantuccio del suo cervello, si trovasse nuovamente al suo fianco parlandogli freddo, cinico, insistente, mentre egli stesso, Clyde, taceva.” – questa è la giustificazione a cui è difficile rinunciare: non sono io che penso il Male, è il Male che pensa me: “Abbi in te la certezza di riuscire. Sussurra. Sussurra, fa’ che il tuo linguaggio sia dolce, il tuo accento tenero, magari amoroso; così deve essere, se vuoi assoggettarla alla tua volontà. Così parlava il genio del male, dal fondo più tenebroso del suo io.”
Quando Clyde incontra Roberta, essa appare “davvero scarna e pallida e in confronto a Sondra assai malvestita, con quel suo abito da viaggio turchino e il cappellino scuro che si era messo per l’occasione: simbolo della promessa di una vita ben ristretta e difficile di fronte a quella che gli sarebbe stata offerta da Sondra.” – negli umani l’abbigliamento serve solo apparentemente per difendersi dal freddo, ma più che altro per esprimere ciò che s’intende apparire, ed essere. Nella maggior parte dei casi è più indicato il condizionale: che s’intenderebbe essere. Per questo sono da ammirare i nudisti, anche se in taluni casi il proprio nudo è indossato come uno sgargiante vestito.
“E quale diversità di atteggiamento fra le due ragazze! Sondra, che aveva tutto, gli offriva ogni cosa e non gli domandava nulla. Roberta, che non aveva nulla, gli chiedeva la vita.” – Clyde dimenticava che era stato lui a pretendere, con ostinazione, che lei gli concedesse quel poco che aveva: se stessa.
“Se ella avesse potuto penetrare nel suo cervello e avvertire tutto ciò che vi era celato di tenebroso e di tormentato, come sarebbe fuggita da lui a precipizio!” Ormai il piano era stato concepito da quella buia metà dell’anima, e non occorreva che un po’ di coraggio (che però iniziava a mancargli) per giungere al successo di quell’atroce impresa. “Subito la faccia e le mani lo inondarono di quel sudore freddo che aveva segnato i suoi stati d’animo più agitati e terribili nelle scorse settimane.” Non tutto gli era chiaro, sentiva che avrebbe dovuto decidere ancora, e forse per sempre: “Uccidere e poi fuggire… o meglio uccidere e fingere di essere annegato con la vittima… mentre lui, il vero assassino, sarebbe corso di nuovo verso la vita e la felicità… Che piano infernale! E d’altra parte come fare? Come? Non era venuto fin là per questo? Si preparava ad indietreggiare, ora?”
Roberta ormai “gli pareva una figura quasi immateriale in atto di scendere entro una barca irreale e di scivolare sopra un lago puramente fantastico…” – un disegno che si può anche cancellare.
“Gran Dio! Ma intanto egli parlava, come se il giorno dopo ella dovesse essere ancora al mondo. E invece non sarebbe stato così!” – nei momenti topici si nomina, a seconda dei casi, il nome di Dio o del suo Opposto, quasi come se fossero un’alternativa su cui la scelta s’impone da sé. Caso o Necessità, si chiedeva il filosofo Monod, che era soprattutto uno scienziato.
“Se, almeno, non gli tremassero le ginocchia e il sudore non continuasse a inondargli le mani, il viso e tutto il corpo!”
Clyde sentiva di una strana forza insorgere in lui, con o contro di lui? “Ma che cosa suggeriva essa, con tanta forza? Morte! Morte! Più chiaramente di tutto quello che mai visto prima. Morte! Ma un genere di morte tranquilla, quieta, senza angoscia, in cui si potesse, con anima riconoscente e serena, sprofondare volontariamente sotto l’impulso di una forza magnetica o per una inesprimibile stanchezza, tanto era quieta, ombreggiata e immobile. Anche Roberta manifestò questa impressione…” – entrambi uniti, in qualche modo arcano, forse per sempre, dalla “stretta di mani forti ma amichevoli…” – e “quale conforto gliene veniva! Che calore! Che vigore! Pareva che gli infondessero una strana energia ed egli le amava, ne amava il potere animatore e sostenitore. Oh, se non si stancassero… se rimanessero sempre là, quelle mani misteriose ed amiche!”
Roberta “era diventata un’ombra, un pensiero, una forma d’illusione più eterea che reale. E benché ci fosse in lei qualche cosa del colore e della forma che affermava la realtà, ella gli parve priva di sostanza, e astratta; e una volta di più si sentì stranamente solo.”
L’uomo, captivus diaboli, non può che sentirsi isolato dal resto del mondo, lontano da chiunque, anche da quel se stesso che fu e che non sarà mai più. In questo senso egli è innocente in quanto è l’unico abitante di un luogo che esiste soltanto per lui, un mondo immacolato da ogni peccato.
“Provò anche un senso di freddo, singolare… Il fascino di quella strana bellezza che lo dominava con una specie di brivido. Era venuto fin là per che cosa? E che cosa doveva fare? Uccidere Roberta! Oh no!” O sì. O forse. Entrambi erano scivolati in quell’angusto acquitrino, forse neanche troppo profondo, lei che gridava: “Aiuto, aiuto! Oh, mio Dio, affogo, affogo, oh, mio Dio! Clyde! Clyde!”
Clyde fu catturato da un pensiero salvifico: “… Roberta non l’aveva effettivamente uccisa lui. No! no, grazie a Dio! Non l’aveva uccisa! Però (intanto si fermava sulla sponda più vicina e si scuoteva l’acqua dagli abiti) non l’aveva proprio materialmente uccisa, no, ma si era trattenuto dall’andare in suo soccorso…”. A salvarlo provvisoriamente è che con questi pensieri mozzi termina il Libro Secondo.
Un’altra immagine che mi suggerisce questo romanzo sterminato è la Grotta Gigante di Sgonico. La visitai per la prima volta quand’ero militare. Si scendeva in basso, facendo molta attenzione. Ricordo che la scalinata da percorrere non era insidiosa, ma lo spettacolo naturale era così formidabile che si rischiava di perdersi un po’. Una signora, ricordo, disse al marito che si sentiva poco bene e che doveva fermarsi a riposare un po’. Alla fine del tragitto, si tornava su verso l’entrata. Quando ci tornai un paio d’anni fa, le cose erano cambiate. Si scendeva da un lato, fino al punto più profondo e da quell’imo si risaliva, ma dalla parte opposta. Era stata eretta una seconda scalinata.
All’inizio di questo Libro Terzo mi domando cosa succederà, non tanto al disgraziato suo protagonista, quanto alla storia stessa. Da che parte avverrà si potrà riemergere per rivedere la luce del sole? Innanzi tutto, ci sarà data quest’eventualità?
Il Procuratore distrettuale Orville Mason fa visita a Titus Alden, padre di Roberta, e, dopo averlo interrogato un po’, gli comunica la straziante notizia della morte della sua adorata figliola: “I gesti convulsi e i gemiti di Titus, a questo punto, lo sconvolsero talmente che gli fu impossibile spiegare con la calma che avrebbe voluto il modo in cui poteva essere avvenuta quella pretesa disgrazia. Dal momento che egli aveva pronunciato la parola ‘morte’ riferendosi a Roberta, lo stato mentale di Alden pareva sconfinare nella pazzia. Dopo le prime domande, cominciò ad emettere dei lamenti strozzati, inumani. Pareva gli fosse venuto a mancare il respiro, mentre si contorceva come sotto uno spasimo fisico insopportabile; infine batté le mani e se la portò alle tempie.”
Uccidere una persona è un sacrilegio, perché offende l’anima di chi rimane orfana di una persona amata. Non è tanto il decesso che spaventa quanto il lutto di chi, disperato, rimane lì a piangere.
In certi casi può esistere un rimedio, per quanto assurdo e macabro: “Appena poté intendere il senso di quelle parole e balenò alla sua mente l’idea di una violenza compiuta verso la propria figlia, l’istinto della vendetta, insito nella natura umana, bastò a far ritrovare la ragione a Titus.” – solo pochi istanti prima era una persona da compiangere, ora era da temere. La nemesis diventa l’unico farmaco possibile.
“Se c’è un Dio, – esclamò concitato il vecchio, – Egli non permetterà che una canaglia simile rimanga impunita! Ah no, non lo permetterà!” – non poteva mancare il richiamo al Grande e Saggissimo nonché Terribile Giustiziere.
Che ne è ora di quel diabolico killer? Sta tremando: “Lo scricchiolio di un ramoscello secco bastava a farlo sobbalzare come una lepre braccata.” – poverello, secondo me lo uccideranno! Intanto va a rifugiarsi in quell’altro lago, dove sta passando una splendida vacanza la sua amatissima Sondra, nonché tutto un turbinio di giovani e anziani altolocati e spensierati.
“Appena entrato, Sondra gli aveva mormorato con broncio vezzoso, senza farsi udire da Bertine: – Cattivaccio! Starvene via tutta una settimana che avreste potuto passare qui; e Sondra che faceva ogni sorta di progetti! Meritereste che non vi guardassi neppure! Pensavo di telefonare oggi per sapere dov’eravate! – Ma intanto i suoi occhi esprimevano l’amore che provava per lui.” – intrigante questo (già occorso un paio di volte) parlare di sé in terza persona, come dire quest’essere che voi adorate e che, non per mero caso, reca il mio nome!
Giovinetta ancora minorenne, però munifica: “Corse su per le scale in camera sua e ridiscese subito, tenendo stretto in pugno un rotolo di biglietti di manca che aveva messi da parte.” – e poi gli fa: “Zitto, non una parola! Serviranno per pagare la colazione, se perdiamo o per qualcosa d’altro, vi spiegherò dopo, andiamo, tesoro mio!” – ma cosa si vuole più da una donna dotata di tanta passione, di un bel gruzzoletto di contanti e di una faccina sempre allegra?! Il confronto con la miserella Roberta diventa impietoso. Quella simpatichina lo costringe ora a comportarsi come tutti gli altri: “E sul campo da golf, guidato e diretto da lei, giocò come meglio gli permisero la sua scarsa pratica e il suo turbamento.” – che non vuole abbandonarlo se non per brevi attimi, pur in quel caleidoscopio di fugaci brillanti. Ogni cosa sembra avere un’origine paradisiaca, eppure in quell’eden miracoloso egli si sente angosciato, manco avesse appena ucciso, magari non del tutto volontariamente, una povera disgraziata: “Non doveva essere difficile sapere dove egli fosse andato, se pure giù avessero conosciuto il suo nome. Dalle notizie dei giornali sembrava però che non lo conoscessero. Perché dunque vivere in quell’ansia continua, senza gustare quella gita così meravigliosa, mentre egli e Sondra potevano stare di nuovo insieme?” – me lo chiedo anch’io. Tutto pare andare bene, nessuno sta bombardando il quartiere, eppure basta un pensiero di traverso (per esempio il timore di finire sulla sedia elettrica o di aver perso il portafoglio) perché l’animo si avveleni e il cuore s’intristisca.
Ora un poliziotto gli sta puntando, con una certa gentilezza però, una pistola contro, intimandogli di seguirlo. Poco dopo viene messo sotto il torchio delle interrogazioni da parte del buon (ma non troppo, e oltretutto portatore sano di un naso schiacciato, che lo rendeva orrendo da vedere) Cornille Mason, il quale pensava: “A soli quattro giorni dall’assassinio di una disgraziata giovane, se la spassava con quest’altra, sperando di sposarla, come Roberta aveva sperato di sposare lui. Come è crudele, come è spaventosa, talvolta, la vita!”
Ogni tanto mi pare di leggere un romanzo di Dickens, ma poi m’accorgo che siamo intorno agli anni Venti. Una frase dà l’idea del periodo: “Clyde, a queste parole, scattò come una macchina in cui venisse introdotta una moneta; tuttavia restò immobile e con lo sguardo fisso.” – un juke box, più o meno. Clyde è combattuto fra il dire la sua verità, di cui lui stesso non è certissimo, e il negare ogni addebito. A una domanda insidiosa, “livido in volto e con voce fioca rispose: – Non ho nulla a che fare con la morte di quella ragazza. È tutto quello che vi posso dire. – Ma mentre parlava, pensava che forse avrebbe fatto meglio a non risponder così… a dire… che cosa?” – lui stesso lo ignorava con relativa incertezza! La sua fisionomia non lo aiutava: “Stille di sudore gelido gli bagnavano di nuovo il volto e le mani, tutto il suo corpo era preso da un gelo mortale.” Egli ora confessa qualcosa, riconducendo il tutto a uno spiacevole, anzi, tragico incidente: “Mentre diceva tutto ciò, il suo volto si era fatto improvvisamente rosso, e così anche le mani. Gli occhi erano dilatati, ed esprimevano un’immensa disperazione.” – si pensi a cosa può provare un condottiero che si crede a un passo dalla vittoria e che all’improvviso vede le sue truppe annientate! Ognuno di noi è il generale di se stesso e si sente talvolta gettato allo sbaraglio, in lotta contro un Fato crudelmente avverso. Non ho mai provato una grande stima per questo ragazzo, ma un’infinita pena sì: quando era piccolo, sognava un’esistenza diversa da quella in cui era stato costretto da un padre come il suo. In lui ho sempre apprezzato la smaniosa volontà di andare sempre e comunque avanti, nello sforzo di migliorare la propria condizione.
Ripenso al Bel-Ami di Maupassant, non meno né più gradevole di Clyde, solo più fortunato, e se devo porgere (anche se non so a chi) una preghiera perché venga salvato, io prediligo questo miserabile yankee, piuttosto che quel brillantino francese. I giochi però sono già stati fatti e il titolo del romanzo non dovrebbe consentire alcuna speranza di resurrezione a chi ha sbagliato. C’è stato un penoso delitto, seguirà un castigo, non meno efferato. Punto. Clyde ora “sudava e tremava”. Più tardi, “appena si trovò nella sua cella, Clyde si gettò sulla branda di ferro prendendosi la testa fra le mani, in preda alla più atroce disperazione.”
E Sondra? “… cadde riversa tra le braccia di Grant. Fu subito trasportata nella sua tenda e appena rinvenne, gridò: – Non è vero! Non credo una sola parola! Non può essere! Povero ragazzo! Oh, Clyde! Dov’è? Dove l’hanno portato?”
Soltanto Theodore è, alla fine, il vero artefice dell’incidente procurato a quella disgraziata (e a quel tapino di un giovane), per cui correggo ora la descrizione della sua scrittura. Egli ogni tanto accelera, senza quasi darlo a vedere. Se fosse un ciclista lo definirei un passista-scalatore alla Eddy Merckx, che le salite le affrontava non con agilità, ma di forza, e che a un certo punto adottava un passo che solo chi era dotato di una certa resistenza riusciva a mantenere, almeno fino a un certo punto. Un errore per chi sta leggendo il romanzo è posare il libro per qualche giorno, per poi riprenderlo, quando si è più tranquilli e meno afflitti da stanchezza esistenziale. Si rischia di non farcela più a seguire lo spirito, non tanto della storia, ma dei singoli personaggi. L’opera consta di 740 pagine scritte fitte, e ogni capoverso è essenziale per comprendere il precedente e per preparare la lettura del successivo: quel che capita normalmente in ogni tipo di narrazione, ma che in questo romanzo di Theodore mi pare sia un fatto estremamente cogente. La stampa, non soltanto quella locale, ormai quasi non parla d’altro che del presunto, quasi certo delitto perpetrato ai danni di quella ragazzetta. Mason preferiva, al momento, non “rivelare il nome di Sondra e si limitava semplicemente a dichiarare che si trattata della figlia di un ricco industriale di Lycurgus, di cui non intendeva fare il nome, pur essendo disposto a mostrare il fascio delle sue lettere che Clyde aveva conservate e legate con un nastro”. Invece, “le lettere di Roberta furono riassunte minutamente dai giornali, che ne pubblicarono anche alcuni periodi più commoventi e sentimentali perché la morta era priva di un protettore che potesse opporsi a tali indiscrezioni.” – senza risorse economiche da viva, figuriamoci da morta annegata.
Per l’opinione pubblica, “quel giovane non era altro che un crudele, un odioso assassino, e l’impiccagione sarebbe stata ancor troppo poca cosa per punirlo!”
Quando ode la figlia singhiozzare, il padre di Sondra “la prese fra le braccia e, tentando di consolarla, le sussurrò: – Su! Su! Per amor del cielo, che cosa può essere successo alla mia piccina! Che cosa le hanno fatto?” – a prescindere dall’emotività del momento, mi preme sottolineare che, non solo quando Sondra parla di sé, ma anche quando qualcuno le parla, ama usare la terza persona singolare.
Il romanzo ormai rientra nel genere giuridico-procedurale, assai interessante, anche se un po’ logorante. Si tratta di una scalinata di tipo nuovo, dove occorre semplicemente leggere senza commentare, se non in certi casi, come quando Theodore descrive “il Giudice Oberwaltzer, un uomo sobrio, retto, lento, meticoloso, attaccato in ogni campo ai procedimenti tradizionali…” – nonché dal cognome quasi impronunciabile.
Colgo una precisazione che Theodore coglie a sua volta nel discorso che Mason rivolge all’uditorio, quando descrive la vittima: “la cui esistenza è stata così atrocemente spenta in fondo alle acque del Big Bittern. Durante i vent’anni della sua vita – e Mason sapeva ch’ella ne aveva ventitré, ossia due più di Clyde – nessuna di chi l’ha conosciuta ha mai avuto una parola di biasimo sulla sua condotta.” – il che indica che ormai tutto si gioca, più che sugli eventi nudi e crudi, sulla loro interpretazione e traduzione in parole, non essendo fatti da analizzare con occhio scientifico.
“Ella era una ragazza semplice, sensibile, dignitosa, una ragazza appassionatamente innamorata.” – e chi ha più pleonasmi ellittici più ne metta! L’astuto Mason parla di una lettera, l’ultima, che Roberta aveva scritto alla madre, e dice, con l’opportuna enfasi: “E questa lettera è qui ora sul mio tavolo. A quella comunicazione Clyde batté i denti e tremò tutto come se avesse la febbre…”.
Quello che importa è una fittizia verità effettuale che, menzognera, sortisca conseguenze prevedibili in senso favorevole per l’esito dell’esperimento: una vera e propria prestidigitazione verbale.
Quando l’effetto fortemente ricercato e ottenuto da Mason si rivelò non troppo significativo, Belknap e Jephson, i due avvocati difensori-taumaturgi “trassero, allora, un gran sospiro di sollievo, perché ciò non contrastava con il loro piano.”
La rappresentazione che oserei dire teatrale, se non cinematografica (ché così bene si adatta a una trasposizione filmica) prevede un cast molto nutrito: “Una fila interminabile di testimoni… Centoventisette! Le loro deposizioni e in modo particolare quelle dei medici, delle tre guide e della donna che aveva udito l’ultimo grido di Roberta, furono tutte vibratamente contestate da Belknap e Jephson, poiché dalle incertezze e dagli errori evidenti che essi potevano cogliervi dipendeva la forza di tutta a difesa di Clyde.” – è un incontro di tennis, dove occorre battere bene e rispondere meglio, alternando colpi secchi a volée. Diversi sono i compiti delle parti in causa. Mason ha il compito di utilizzare tutte le fonti di prova a sua disposizione, derivate sia da oggetti che da testimonianze. I due avvocati di Clyde devono ora catechizzare per bene il loro cliente, suggerendogli ogni possibile risposta alle proprie e alle altrui domande, per cui gli impartiscono, e ogni tanto gli fanno ripassare, delle vere e proprie lezioni, che lui dovrà imparare necessariamente a memoria.
“Questa deposizione era abbastanza grave, perché anticipava di un giorno la confessione che Clyde doveva dichiarare di aver fatto di Roberta – ma Jephson e Belknap più tardi andarono intesi che la confessione avrebbe potuto anche avere una fase preparatoria…”.
Mason si sentiva, anzi, era un attore, per cui mentre leggeva dei brani di una lettera della vittima, addirittura “piangeva”, per poi, alla fine, esclamare, con un senso di mesta religiosità: “La Pubblica Accusa ha finito.” Missa est! Tutta questa sua “impressionante e drammatica presentazione che ne aveva fatta era bastata a determinare in Belknap e in Jephson, come pure in Clyde, l’impressione di aver subito una completa sconfitta…” – almeno in questo primo set. E “di non aver più alcun elemento né alcun mezzo per tentare di convincere i Giurati che Clyde non fosse un delinquente cinico e odioso.”
Il XXIV capitolo di questo Libro Terzo contiene l’interrogatorio che i due legulei fanno al proprio assistito: una sceneggiatura con dialoghi serrati, lunga 28 pagine. Varie volte leggo frasi del tipo: “E Clyde, già preparato e istruito dai suoi avvocati, passò ai particolari del fatto sino…”, tanto che “Magnificamente inscenata – borbottò Mason sottovoce, irritato e sarcastico, rivolgendosi al senatore Redmond. – Una straordinaria commedia!– rispose Redmond.”
Clyde si rivela un discreto attore, che solo talvolta si emoziona, quando per esempio risponde “non senza uno sforzo, né senza sgomento, mentre gli sembrava udire le ultime grida di Roberta e sentiva su di sé quei suoi occhi dilatati e disperati… sì che dovette trarre di tasca un fazzoletto tergersi il sudore gelido che gli bagnava il volto e le mani. – Inscenato proprio magnificamente – mormorò di nuovo Mason. – Un’astuzia straordinaria… proprio senza pari – commentò Redmond.” Anche poco più innanzi, Clyde, “mentre parlava, la fronte e le guance gli si inondavano ancora di sudore.”: tanto che Stanislavskij, celebre per il suo metodo di immedesimazione attore/personaggio, si sarebbe levato in piedi ad applaudire. Continua la drammatizzazione: “… E mentre parlava, la fronte e le guance le si inondavano ancora di sudore.” Poi: “Un brivido agghiacciante parve correre per le vene di tutti i presenti, insieme a Clyde…”
Il Pubblico Ministero è una vecchia volpe e sa quando esagerare: “– Ma di bene in meglio – esclamò Mason molto irritato. – Vorrei che la smetteste infine di imbeccare cotesto pappagallo.” Jephson ci tiene a precisare: “Io sto interrogando l’imputato come ho diritto di fare e quanto a pappagalli ne abbiamo visti un bel numero qui, in queste settimane, che sciorinavano la lezione imparata, come scolaretti, a memoria.” – dopo di cui quei due cattivi maestri quasi si accapigliano, rischiando una “condanna a dieci giorni di arresto” se non presentano le scuse “alla Corte e tra voi reciprocamente”.
Quasi a ogni domanda Clyde ripete la lezione, anche circa “il nostro progetto” di viaggio (suo e di Roberta), dopo “che da due mesi, aveva continuato a discutere quel punto con Belknap e Jephson e ora faceva del suo meglio per apparire franco e convincente”. Risponde sempre “secondo le istruzioni ricevute”, anche allorché “dentro di sé sentisse la voce della coscienza che gli rifaceva presente le scene sul lago e gli toglieva le forze.” Una volta, però, “pronunziando quelle menzogne, si dimenò e mentì nel modo morboso che gli era proprio allorché s’imponeva qualche cosa che superava le sue forze in fatto di bugie o di astuzia.”
A proposito della mancata premeditazione ed esecuzione del delitto: “mentì, questa volta, Clyde, che sentiva in quella lotta per la propria vita di dire, tuttavia, anche con ciò, una parte di verità, perché il modo con cui era avvenuta la sciagura non era stato, dopotutto, né premeditato né ordito.” – cioè non del tutto premeditato, né del tutto ordito, ma solo in parte.
Nel capitolo successivo, tocca a Mason, che “aveva dato l’impressione di un segugio irrequieto, bramoso di essere lanciato contro la preda e finalmente giunto a poter scattare, con balzo finale, sulla vittima.” – della serie: avendo tu ucciso quella disgraziata, ora ti sistemo io. Mason riesce ad atterrire l’imputato, che mentre quello “tremava, gridava tutto, e Clyde, con la barca là davanti a sé e gli occhi e le grida di Roberta mentre affogava che gli si rinfacciavano alla mente con tutta la loro forza pietosamente tragica, si abbandonò, si rannicchiò sulla sedia atterrito dalle rievocazioni e dalle affermazioni di Mason, così terribilmente prossime alla verità.”
Quando Mason gli mostra due capelli di Roberta inseriti “tra il soffietto e l’otturatore”, egli non sa cosa rispondere. L’attento lettore sì: a pagina 511, si rileva che Mason “dopo intensa e segreta riflessione, stabilì di andare nella stanza mortuaria e procurasi quei pochi capelli”, che poi avrebbe sistemato là dove dov’era gioco farlo, per santificare le sue illazioni. Alla fine della pagina 643 riscontro un’altra inesattezza: tre guide avevano scorto il fuggitivo, e quello che ora loro e lui testimoniano non coincide, né fra di loro né con la realtà narrata a pagina 469. Panta rei, tutto scorre, soprattutto la Verità che s’intende confezionare a proprio uso e consumo.
“L’attacco era un tale capolavoro di studio e di logica che a Clyde parve tutto perduto.” – anche al sottoscritto; al pari degli azzeccagarbugli difensori vorrei che quel disgraziato “se la cavi con venti anni” e soprattutto desidererei salvarlo dalla pena capitale.
Riprendo l’allegoria della scalinata: l’autore reca con sé i propri personaggi (e il lettore), invitandoli a salire su di essa: ove, al suo culmine si presenta a necessità di una scelta. Vi sono altre due grandi scalinate, una a destra e una a sinistra, oppure si può proseguire su quella che si sta percorrendo. Si resta un attimo titubanti, poi si segue tutti l’autore, che pare pratico della zona. Ogni tanto si profila una breve scaletta, che conduce a casa di qualche residente, per cui si prosegue oltre, per non disturbare chi eventualmente sta riposando, oppure pranzando. La cosa straordinaria è che, come nella vita, non si sa dove si stia realmente andando, ma occorre senz’altro proseguire, accada quel che accada. Ognuno dei tre libri che compongono il romanzo è paragonabile a una di queste gradinate enormi, che portano da qualche parte, è vero, non si sa dove, ma sempre più in alto. Ci si augura che, giunti al culmine, si possa godere finalmente di uno spettacolo unico e mirabile.
Clyde scrive il testo di un telegramma da far inviare alla propria genitrice: “Cara mamma, sono stato giudicato colpevole – Clyde.” La donna è sconvolta. Il padre, invece, “per la sua inettitudine a comprendere le cose reali e presenti e per la completa inesperienza delle tempestose e irresistibili forze della passione, egli non era in grado di afferrare neppure una minima parte del senso di quella tragedia.”
La madre, giunta alla prigione, riesce ad abbracciare il figlio, che le professa la propria innocenza. Lei gli crede e decide di far di tutto per poter raccogliere i fondi per poter giungere a far appello alla sentenza. Quello che riesce a combinare è ammirevole, per quanto vano. Ed è forse la parte più bella e commovente della storia. Lo zio di Clyde, che finora aveva finanziato il costo della difesa, ha preferito ritirare il suo apporto, per cui la situazione è diventata sempre più disastrosa. Ora il recluso “fu trasferito ad Auburn, il penitenziario dello stato di New York, dove egli doveva rimanere segregato nella ‘Casa della Morte’ o ‘Sezione assassini’”, la cui descrizione è sconvolgente. Ora lui più che un uomo, era un numero: “77221”.
Commento di Theodore: “Certo, il fine atroce era quello di dare ad un uomo condannato a morte non soltanto la decretata sofferenza di quella morte, ma gli infiniti tormenti di mille morti, prima di giungere a quella finale.” – citando poi Dante: “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”.
Parte notevole della pena era vedere dal vivo il proprio destino. Un assassino italiano di nome Pasquale Cutrone viene ora fatto salire sulla sedia elettrica: aveva ucciso suo fratello, che gli aveva insidiato la moglie. In questo modo, Clyde “aveva veduto morire il primo uomo!” – anzi, il secondo, dopo Roberta. Riceve ora l’assistenza di un religioso, tale Mc Millan, a cui riesce a confessare tutto il groviglio, incomprensibile a lui stesso, delle passioni, pensieri e azioni che avevano condotto alla morte della ragazza. Egli ha mille indecisioni, per cui non sa lui stesso quanto sia realmente colpevole. In questa sua incapacità a giudicare le proprie azioni è sincero, come lo può essere un essere umano. Spinto da quell’uomo di fede, Clyde si rivolge a Dio, in cui confida, anche se nemmeno sotto questo aspetto gli è chiara la verità: “… era proprio in tali contingenze che il bisogno di aiuto si faceva vieppiù sentire, quando cioè un essere rimane isolato da tutti e stretto dalla legge… non dagli uomini, perché gli uomini non sono che gli schiavi della legge…” – come della religione, il cui termine contiene quel verbo religāre, unire insieme; anche se alcuni filosofi propendono per religěre, scegliere. Il problema è che, al massimo, si può scegliere il legame, non la libertà: essa ti sarà di volta in volta inibita, avendo l’uomo sia bisogno di catene che, quando può, di tentare la fuga, costi quel che costi.
“Ma avrebbe potuto, quella forza misteriosa, offrire veramente un grande aiuto? Esisteva quel Dio, che tutti invocavano, ed ascoltava le preghiere degli uomini? Il reverendo Mc Millan assicurava che era così…” – lui sì che aveva scelto di farsi legare, Clyde no, io nemmeno. Tu, Theodore?
Clyde è sicuro di essere confuso: “… non sono più certo di nulla. No, proprio profondamente addolorato non cedo di essere stato. no… aspettate… proprio non so, adesso… qualche momento mi pare di esserlo stato e qualche altro mi sembra di no…”. Si chiedeva, infine: “Che diritto avevano essi di giudicarlo tutti insieme, o ciascuno separatamente? La sua stessa madre non poteva emettere un giudizio su di lui, senza sapere quanto gravi fossero state le sue angosce fisiche e morali. Anche ora, rievocando il suo passato, se ne sentiva le punture nella carne, e l’insopportabile angoscia.”
Bisogna scegliere, anche se le alterative sono tutte assurde. Ora “Clyde sempre più riusciva a credere non soltanto che la fede era necessaria, bensì che egli la possedeva e andava acquistando la pace perfetta e certa.” Egli compilò un breve scritto, che venne poi modificato, anche se di poco, dal suo maestro spirituale. “Ma anche dopo aver scritto quelle righe, Clyde era in certi momenti preso dai dubbi. Poteva considerarsi davvero salvo? Era tanto breve il tempo che aveva dinanzi! Poteva avere i Dio quell’assoluta fiducia che…” – ci tengo a precisarlo: i puntini non sono di Theodore, né di Clyde, ma miei.
Alla madre disse di confidare in Dio, “ma intanto, fra sé, si chiedeva: ‘Me le ha veramente date?’” – riferendosi a “forza e pace”, entrambe così necessarie per vivere ogn’ora al Suo cospetto.
L’ultimo capitolo ha un titolo: Ricordo. In esso è descritta una scena che accade (anch’essa però è ora sepolta in un arcano passato) qualche anno dopo la morte di Clyde che, poco più che ventenne, fu ucciso dagli uomini della Legge. Ed è ormai anch’egli scomparso, ‘ncoppa a chilla scalinatella, perché tot à fîn, come diceva la mia non più scordabile mamma.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Theodore Dreiser, Una tragedia americana, Edizioni Accademia, 1973