“Stôrii mai cuntêdi” di Sergio Subazzoli: il dialetto vive di analogie

Contare deriva dal latino computàre, numerare, annoverare, ma c’è chi lo riferisce a cògnitus, contratto in con’tus. Ma, alla fine, fra córer e scapêr, fra correre e scappare poca differenza c’è. Per avere contezza di un fatto, occorre mettere in fila tutti i dati che lo compongono. E c’è sempre qualcosa che non quadra, perché uno di quei dadi si è, d’improvviso, dissolto nell’aria.

Storii mai cuntedi di Sergio Subazzoli
Storii mai cuntedi di Sergio Subazzoli

C’è anche chi scrive sette tomi sconfinati per tentare di ricercare il tempo perduto e che poi, dopo averlo presumibilmente trovato, è pronto per dedicarsi ad altri scopi, per esempio volare via per sempre, dritto verso l’eternità.

Sergio Subazzoli non ha di questi problemi, la sua memoria è ferrea e a volte, rimembrando le notti passate sotto i bombardamenti di quel Pippo che terrorizzava i cieli reggiani (così erano chiamati gli aerei che, a prescindere dalla provenienza, sempre Pippo era), sentendo ancora nelle proprie membra quegli assurdi frastuoni, ancora se li ricorda, li sente nel cuore, e mai li dimenticherà (sempre trampelleranno, da tramplêr, barcollare ma anche armeggiare; s’agiteranno e si ri-creeranno, in quella sua mente ancora vergine, si fa per dire, di bambino, che ancora non ha compiuto gli ottantanove anni).

Scrivere è salvare dall’oblio. Sergio lo sa meglio di me, è inutile che lo informi di questo semplicissimo fatto. Lo sto dicendo soprattutto a me stesso.

An só mia cuşa la gh abia in dal sanguv l’Oriana, l’è semp’rin moviment come una guindlina.” – nel sangue non si sa che cosa scorra, ma è sempre in movimento, come la zettatura incrociata del filo della matassa nella rocca, che scorre, un po’ a scatti, di continuo. Le azioni degli umani sono facilmente descrivibili prendendo a esempio quel che si vede intorno a sé, quotidianamente. La spiegazione di qualsiasi fenomeno è per lo più qui, in questa stanza, oppure in cortile, non cerchiamola sempre sui libri. Però c’è anche là.

Il dialetto vive di analogie, perché è una lingua che nasce nelle case e nelle strade, e scorre ovunque, senza eccessive astrazioni, ma fondandosi principalmente sugli oggetti reali, che sono posti sul tuo medesimo piano esistenziale.

Osvaldo, anima in pena e innamorata,e l eva anch cumincee ad alver al gòmet e dō-tre siri la stmana l andeva a lèt in ciarena” – in un leggero stato di ebbrezza.

Oriana è una donna, e a volte mi chiedo se sia politicamente corretto ricordare che la donnola deriva dal latino domìnula. Le feminae, assai più di noi masculi, sanno far perder ‘o suonno e ‘a fantasia, più che quando ci sono, quando scompaiono, dopo aver ridotto in fin di vita chi le aveva idealizzate (si legga a proposito L’amore e l’Occidente di Denis de Rougemont). Non sono cattive loro, siamo noi a perseguire in loro nome la nostra cattività. Sparendo, creano un vuoto che, se uno ha un cuore e una mente debole può, rinunciando a quel poco che gli è rimasto, puntare su quel Nulla che l’attira sempre di più nel suo vortice caotico.

Vola colomba vola è il titolo del primo racconto, straziante e bello. Speriamo che il prossimo non faccia così tanto gemere.

Autogrill è il secondo, dove “a gh è dla fumana”, c’è molta nebbia. Anche questo è tragico. A volte uno si chiede cosa sarebbe successo se… Sarebbe bastato un saluto, un chiedere come va? “Forse s’a gh es rivolt la parola…”.

Dato che non si può costruire la storia con i se… passiamo al terzo: Al casador dal fochi. Il cacciatore di foche di Salgari era l’unico libro che la famiglia Subazzoli aveva in casa, forse l’unico che suo padre avesse letto. “D’alora gh è pasee pió de ssant’ân damèş…” – il tempo è quella greve illusione che si mette sempre in mezzo fra due momenti incerti. “… me peder l ne ghe pió, anch al léber l è sparii, volatilişee…” – e questo è il terrore che prende anche il più titanico degli scrittori, la sparizione, l’oblio… “… ma an né mia sparii da la memoria al so ricord…” – meno male!

Al termine di un incontro con questo scrittore arşân, a cui assistei una sera ad Albinea, quelli dell’Associazione Léngua mêdra regalarono a Sergio una copia di quel libro e Sergio al sighêva cme un putèin (a Reggio diciamo invece putîn: sighêr significa piangere sia qua che a San Bernardèin). A Rèş anca al vèint al sîga… 

L’alegra storia di un scarpolen ‘d S. Vitoria: – dove c’è il palazzo Greppi, non inclito come il Bentivoglio, ma assai più social. La breve novella va soltanto letta, non potendosi sintetizzare facilmente (e incô a gh ò un po’ da fêr, in hoc die no tengo mucho tiempo): ed è un puzzle di scioglilingua, così “comuni nella bassa Reggiana”. Ne propongo uno solo, guardandomi bene dal dare la traduzione, così vi divertite un po’: “‘Sa gh è, mè ch at taca un tac a tè ch a t se tè ch at tach i tach a mè, tachtel tè ‘l to tach!”. Basta aver capito che “al scarpolen” è il calzolaio e il gioco è fatto! Occorre sapere che è il calzolaio Gigi che chiede a “Guido, detto Taco o Tachino perché piccoletto…” di attaccargli un tacco. Questo prendere in giro dalle nostre parti si chiama carghêr, caricare. Infatti, carghê a la misura giósta, Tachino risponde male. Tutto in quel paesino fatato finisce per aggiustarsi in giornata, prima di andare a coricarsi.

Cun la Roza al ‘Valli’: di questo racconto c’è tanto da salvare; mi raccomando tanto a organizzazioni come Léngua Mêdra di salvare il salvabile, mettendo in commercio quel che finora è fuori, tra i resi. Diversamente anch’esso evaporerà. Intendiamoci: questa è la condanna che ci vorrebbe infliggere il secondo principio della termodinamica, però… a gh è pió tèimp che véta, c’è più tempo che vita! E tót à fîn!, tutto ha fine!

Scelgo la frase più politicamente scorretta, ma mi sa tanto che è verosimile: “Ricordev ragas che al dóni i sighen quand i volen e i reden quand i polen.” – piangono a comando e ridono quando ci riescono. Mi tranquillizza il fatto che era la nôna cal “meteva in guerdia” i suoi amati nipotini (maschi e femmine).

La catura di storei – che è un racconto tragico, ma tant’è. La vita è questa, anche la storia. Gli storni sono i volatili che compongono i branchi più popolosi, ancor oggi, ma una volta anche di più: “i deven di dan enormi in dó paseven” – e i contadini dovevano ridurne il numero e, visto che c’erano, anche nutrirsi delle loro piccole ma anche succulenti carnicine. Passiamo al prossimo!

I pee a ràcheta: di quella donna, “la Cesarina”, che “la gh eva dû bèi titin”, vorrei ricordare soprattutto che “la ‘mneva la polenta”, quando “şmedşdeva ‘l cul da una pert e cl’êtra” – e qualche antropologo mi dovrà prima o poi spiegare perché la donna effettivamente sbatte verso l’esterno entrambe le natiche, nel camminare. Ci sarà un motivo! Come se rigirasse la polenta! Donne come la Cesarina dovrebbero essere poste fra i patrimoni dell’Unesco. Senza di lei molti di noi sarebbero restati casti e puri per svariati e gelidi decenni!

I ragas dal Carobi: proustiano come gli altri, ma forse un po’ di più: “La nostalgea ‘ed Carobi’ ogni tânt la leva la cresta e l’as fa sentir” – quel sublime quanto tenue sentimento alza la cresta come un galletto! Tutto sarebbe da riportare. Mi limito a due frasi, premettendo che “al metich Carobi” era il luogo dell’anima, e di tanti corpi, in cui è vissuto il nostro Sergio, dove “mèter ‘na ciavadura in dla porta alora l an gh eva mia sens, eren sol sold speş per gnint perché chi soquant ladrètt ch a gh era in di paragg, i gh penseven lor a fêr l guerdia per tgnir l’onor in cà”in certi posti anche il ladretto ha la sua funzione sociale, quando sorveglia la refurtiva prima ancora di essersela fregata.

“Tener indree cun la memoria l è pió facil che rincaşer a meşanot con un nebiòn che per ander avanti bişogneva tajerel cun al cortêl”un fatto a cui lo stesso Proust, talora annebbiato nella sua Parigi, non aveva forse mai fatto caso.

Giacomo cun ‘na scherpa d in sôrta: tragica sorte quella di sua moglie, morta ancor giovane (ma la donna amata rimarrà sempre quella ragazzetta che quel dì ti s’intrufolò nel cuore) e anche “Giacomo, da quand la moiera l’à voltee i pee a l us…” – voltare i piedi all’uscio, significa che era morta. Giacomo, dicevo, da quel giorno “al gh à in dal magon col che incoo i ciamen la depresion.” Il loro grande amore era nato sul treno che conduceva a “S. Bernarden”. Galeotto fu il paio di scarpe che erano “una ròsa e una blu”, s dolce come il salame, tanto che la ragazza chiese allo sconosciuto: “mi scusi, sa, Lei, o è un tifoso del Genoa o del Bologna.” – e poi fecero dei discorsi, si conobbero, si fidanzarono, si amarono e morirono, lei non volendo, lui… Leggetelo voi!

Non penso sia un difetto che ogni nuovo racconto mi pare sia il più bello, come m’è parso ora Rumor di ricord. In inglese rumour è la voce che si coglie camminando in mezzo agli umani, e la scrittura questo può, no, deve essere.

Avrei tanti riporti da offrire al lettore del lettore di Sergio. Mi sono imposto di limitarmi, sennò è finita. I familiari di Sergio erano “povrèt cme l’aj” – poveri come l’aglio, che dà una pur acidula idea. Erano svariate decine, fra vecchi, anziani, maturi, ragazzi, bimbi, lattanti, ma a capo c’era lui: “al nonon” – e mi ricordo quando andavo a casa di mia mamma, già colpita dalla demenza senile, che mi guardava e, forse per via della mia ciuntezza, cioè stazza che presso i contadini era segno di autorevolezza, diceva, lei che pareva sèinper un po’ dormita: Oh! L ē rivê al nonòun!

Una nonna materna era così macilentache quand l’as moveva da un post a cl’eter, per laseregh l’ombra, a me scapa dét, l’agh doveva paseregh dō volti” – per lasciarci l’ombra ci doveva passare due volte, finché non vi s’imprimeva. Salvifico e giustificabile dallo stesso Gesù è il fatto che Sergio e amici, “cun i vintin ch a tratgneven da l’oferta a cumpreven al gelato”, anche perché in tal modo “as siòm mei scotee i dii per impier di luş davanti ai Sant.” – che già illuminati erano di loro. Era meglio rinfrescarsi la gola che scottarsi le dita!

Gli anni “ades per meş di ricord, i pasen da ier a incoo  in ‘n atim…” – anni che appaiono e svaniscono, per riapparire subito dopo: e tutto dura quell’attimo che pare eterno.

Prema e dop la guera: andeven a spigler: racconto di quel che sucédeva ‘na vôlta, quando la vita seguiva le stagioni, quelle fatte di tre mesi e quelle che duravano una vita intera. Anche qui potrei riportare tutto quel Sergio ha trasmesso al lettore, ma perché? Basta leggere il libretto! Per cui scelgo: al prēt, il prete era uno che, incrociando le mani, al scrocheva, più dei carabinieri e dei scelbini, motivo per cui la saggia nonna gli dava da bere “al ven in ‘na scudèla cun un cucer”, ché in tal modo, alzando “só al gomet e la testa per scunirel, al vdeva la perdga di salam tacheda ai travèt dal sofèt ed la cantena”, alzando il gomito e conseguentemente, la testa, vedeva il lungo bastone su cui erano appesi i salami e, anche se ne aveva già avuto uno a gratis “quand l è gnuu a Benedir”, non avrebbe forse esitato a dire Ma che bèl salâm!, e poteva parer scortese non offrirgliene un altro.

Sergio Subazzoli
Sergio Subazzoli

A sun andee un pó só ed riga, sun parti da una piana de stòpia cun al spigler, e sun finii per cunter come feva al pret a scrocher, a noêter in piasa, a buscher”, tre parole che fan rima: “spigler, scrocher e buscher”, come le mazzate che buscavano “j operai” quando “i sciopereven  per reclamer i sō dirèt cunter i padron” e i “Scelben”, facevano venire loro dei lividi nella schiena come dei pezzi di gnocco fritto, ma è meglio dirlo in dialetto: “i feven alver só al s’ciopli indla schina come di pès ‘d gnoch frèt.”  

Ivo: la ‘sincsent’ e un fint basot sòta ‘l lunot: gli amici fanno uno scherzo a Ivo, nascondendogli “la ‘cinquetti’”, la macchina 500, per cui prima “l à piantee ‘l moll, l à fat l ofeş”, così imparo l’espressione: fare il mulo, quello che tiene il broncio, offeso. Ma poi gli passerà.

“Pogee in sém’al ripian, un cagnin fint, un tót al pés intoren”: sopra il ripiano un cagnolino col pizzo intorno. E la via di tutti, Ivo e cagnolino compreso, continua…

La cà dal ‘Sivètli’: altro racconto del tempo che fu e che solo talvolta non è più. Il tempo, e ‘sto fatto va ribadito a ogni piè sospinto, tanto è sempre lo stesso piede che scalcia nel Nulla, è un’illusione; se poi si scrive non cesserà mai, avverbio del non tempo, di realizzarsi ogni volta come se fosse la prima.

Un solo spoiling:al gat da j occ verd” è un tipo tranquillo; quell’unica volta che si era avventurato per fare “visita a ‘na so ‘amiga’”, ha avuto da dire con un altro pretendente di color rosso, per cui ora se ne sta lì, quieto quieto, “E i soregh? In gh intereseven mia, al gh eva di êter penser”.

I soregh sono la passione dei gatti, quelli piccoli però, perché i ratti grigi o pantegane (a Reş pundgòun), è meglio lasciarli perdere, che vivano pure la loro sorcesca e rodente vita!

“Tot al volti ch’a decid ed fêr dû pas in silensi, visitand i stès post, l è come sfojes al stès léber già lèt tânt volti” – e ogni volta quel libro che sfogli (ogni giorno, mi sa) muta di quel poco che li rende sempre diversi, in movimento. Panta rei! Come quel bambino che, agli occhi del papà, sembra lo stesso, ma che, t’assicuro, e tu lo sai da per te, si sviluppa continuamente fino a diventare a sua volta un padre, o uno zio, o un nonòun. E questo vale per ogni cosa, anche per i libri e i ricordi di noi esseri umani.

Racunt ed nostalgia: “A feva dal voledi avanti e indree cuntent cme un pès” – mai saputo che i pesci sono contenti, ma a dire la verità manco li ho visti mai piangere.

Scorgi Posacchio Malaguti, che non è tanto più vecchio di te, ma è già un partigiano, uno che, per un miraggio di libertà, perderà quella vita che ti ha detto di proteggere, a te, piccoletto, non dicendo a nessuno che lo avevi visto mentre parlava di nascosto con qualcuno che, come lui, lottava contro chi vi opprimeva.

L’ultimo spassosissimo racconto di questo capitoletto finisce con una tua osservazione pedagogica: “an gh è gnint che a faga piò mêl a una persona ‘ la mancansa ed fiduci in di so riguerd” – meditate, uomini, donne, bambini… e ânca nonòun!

29 maggio 2012:, al dé dal tó compleân (mé i compéss dmân): una certa Chiara si presenta come vicina di casa e vuol fare amicizia con te. Tu dici che sei contento di aver qualcuno che abita vicino, così potete aiutarvi l’un l’altro. E finite per festeggiare amorevolmente insieme!

Ed è il giorno del terremoto, causato dal mistero che non ci appartiene se non come effetto; o anche come causa? Qualcuno ha avuto l’ordine di trivellare la terra per vedere che c’è sotto (gas metano, petrolio?), e la tua nonna lo diceva sempre: “Lèsa ster al can ch al dorum”. No, quelli dovevano per forza “stigher al sottosuolo”. E quello se l’è presa un po’ con l’Homo non troppo sapiens.

I rumor dal fortèsi volanti: sognare per te è sempre stato un sogno, che hai realizzato da civile. Da militare non ti è stato concesso, perché “a sera un comunesta”. Peccato, dai. Fai bene però a sfogarti, ché poi ti passa. Ormai ti conosco, Sergio, tu sei uno che alla fine sa sempre perdonare.

Al riş, la rişera e i boo in dal balanti ed fianche al Bonden: lo scherzo che “Benito e Virtus, dû salvadegh, ch in dormiven gnan a lèt a la not” combinano a un povero bove è dei peggiori, roba da rovinare un’esistenza, per quanto bovina possa essere. Certo che Nando, al tôr atîv, a prîva stêr un po’ piò atèinti! Al bò pasîv a n gh ē mia piaşû, sicuramèint!

Ecco, Sergio, ho finito di leggere i tuoi diciassette racconti, uno più bello dell’altro, credimi, e mi han fatto ridere, sorridere, commuovere, emozionare. Di ognuno ho raccolto come si fa quando si va a strappare dal ramo le amarene. Si scelgono non le più belle, che forse tale primato non esiste in natura, ma quelle che paiono tali a te. La Bellezza, come tante altre cose, è un’illusione. Ma guai se non ci fosse! E grazie a te, questa creatura chimerica ha assunto nuove forme: Lei, io e tutti noi, non fosse che per questo, ti ringraziamo. E adèsa, Sergio, e tâch a lēşer al tó vocabolàri, che l ē in apendice

Nel Dizionarietto novellarese mi diverto un mondo a scovare analogie e differenze con l arşân ed ca’ mia, sitadèin, o piò o mēno, ma tieni presente che io abito in via Adua, fuori delle Mura, e che, quando mi recavo in città (così si dice ancora; oppure a Reggio), che distava meno di un chilometro da casa mia, e vedevo dei ragazzi in Piazza Vallisneri, mi sentivo un piccolo, sperduto provinciale.

Tante cose avrei da dire, per esempio pèl anziché pèla, per pelle; ma che vale per voi anche per pelo, che noi diciamo pêl.

Due osservazioni, a mo’ di scherzo, ma mica tanto. Mé sîna Zaira, sorella di mio padre, che però tutti chiamavano, chissà perché, Jolanda, come la fiôla del Corsaro Nero, una volta a pranzo mi stava guardando fisso e non capivo perché. E poi disse, bróta ma s-cèta, brutta ma schietta: in Stefano an gh ē gnînt ed bèl: niente di bello lei scorgeva in me. In effetti ero magro, patito e uno strano accidente, che mi veniva dal nonno materno, con la sua bilirubina alta, rendeva un po’ şâla la mé facîna, un po’ giallino il mio viso di bimbetto. In più a l era acsé patî, così macilento, che quèlch burlòun am ciamêva brêga vōda, diceva che ero una braga vuota. Tra l’altro ero sempre in strada a scorrazzare drê a un balòun, dietro a un pallone, e non stavo fermo un momento.

Poi un bel giorno scoprii la lettura, pappandomi ogni tanto un libro. Poi sempre più spesso. Poi fin troppo, ostinato come un Vittorio Alfieri: am lighêva mia alla scrâna perché tanto non avrei mai smesso d’inciuchîrem ed léber, ubriacandomi di sempre più sconfinate letture: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun: tutti i coglioni hanno la loro passione.

Diversamente dal mio Leopardi, anziché smagrire ulteriormente, cominciai a mettere su chili su chili. Un giorno rividi la zia e lei mi guardò di nuovo, con gli occhi sempre più sgranati, e poi disse a mamma: Oh! Finalmèint Stefano a s’ē un po’ inciuntî! Ciûnt, anzi, bél ciûnt è il grassottello, tânt a Rèş cme a San Bernardèin ed Nualêra. Un òm ciûnt l ē sèinper bél!

Quello che ci tenevo a dirti è che, per mio figlio che poco sa del dialetto, ciunto, non so per quale peripezia glottologica, è ancora sinonimo di florido: nothing al panta rei cme al dialètt!

Ultima piolata: grazie a te scopro che nel tuo dialetto pirōl è il piolo, e ora finalmente capisco perché mé mêdra la dgîva: quâcêt un po’ al pirulîn, copriti bene l’uccellino, quando al mare portavo degli slippini un po’ stretti. A saperlo, avrei sfruttato talvolta l’argomento, quando ero più giovane, potendo sempre dire a una ragazza: lo sai, cara, perché il mio cognome è Pioli?

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Sergio Subazzoli, Stôrii mai cuntêdi, Léngua Mêdra, 2022

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *