Vincitori e finalisti del Contest letterario “Primavera con Tomarchio Editore”

“Se accanto alla biblioteca avrai l’orto, nulla ti manca.” Marco Tullio Cicerone

Contest Letterario Primavera con Tomarchio Editore
Contest Letterario Primavera con Tomarchio Editore

Si è conclusa il 10 giugno 2022 a mezzanotte la possibilità di partecipare con una recensione di un libro (sia proprio sia di altri autori) al Contest letterario “Primavera con Tomarchio Editore” promosso da noi di Oubliette Magazine e dalla casa editrice Tomarchio Editore.

La giuria del contest (Alessia Mocci, Rosario Tomarchio, Stefano Pioli, Carolina Colombi, Miriam Ballerini, Beatrice Benet e Tiziana Topa) ha decretato i sette finalisti dai quali sono stati selezionati i tre vincitori del contest.

Il premio per ciascuno dei tre vincitori consiste nell’invio di:

N° 1 copia dell’antologia “Come fiori sul ciglio della strada”, AA.VV., con prefazione di Miriam Ballerini;

N° 1 copia della silloge poetica “Cielo” di Rosario Tomarchio.

Tutte le recensioni partecipanti al Contest possono essere lette cliccando QUI.

FINALISTI

Marco Astegiano con “Una questione privata”

Filomena Gagliardi con “Sogni di carta”

Alessio Asuni con “Il treno dei bambini”

Marco Salvario con “Dislesia… ah no scusa, Dislessia”

Barbara Orlacchio con “Anna dai capelli rossi”

Ninetta Pierangeli con “Virtù”

Salvatore Amato con “L’oscurità tra le foglie”

VINCITORI

Filomena Gagliardi con “Sogni di carta”

Sogni di carta, titolo della nuova raccolta poetica pubblicata da Carlo Alessio Cozzolino per Bertoni, mostra che la poesia è un sogno di carta.

Un elemento ricorrente all’interno della silloge è la brevitas dei testi, che rimanda immediatamente ed inequivocabilmente ad Ungaretti.

All’uomo è dato sognare, ma “i sogni sono parole non dette”, ovvero parole non ancora o mai realizzate, come i sogni di carta che possono costituire un progetto di realizzazione e non la realizzazione stessa. Forte è il rischio che i sogni rimangano tali, tuttavia restano preferibili alla realtà, fatta di “parole vuote”. Vivere nella pienezza è sognare, mentre vivere nel vuoto è restare legati alla realtà. Nietzsche nel saggio La nascita della tragedia puntualizza come l’illusione poetica sia la sola degna di nota. La poesia è la speranza che “le parole appena abbozzate” abbiano forma e “sostanza”, ovvero “luce”, giacché il buio sarebbe plotinianamente la zavorra indistinta della materia indefinita.

La luce della poesia però è incerta, è ancora “scepsi”. Come non pensare allo Scetticismo dei Greci, al dubbio socratico o, ancora una volta, a Ungaretti? Quest’ultimo, infatti, così scrive ne Il porto sepolto: “Vi arriva il poeta/ e poi torna alla luce con i suoi canti/ e li disperde// Di questa poesia/ mi resta/ quel nulla/ d’inesauribile segreto”. La lirica ha dato anche il titolo ad una delle sezioni (1916) poi confluite in Allegria (1931). Allude all’antico porto sepolto, ovvero scomparso e per questo sconosciuto dell’antica Alessandria d’Egitto, città natale del poeta, che cerca di rinvenirlo quasi fosse un archeologo.

Ogni poeta è in effetti archeologo, ovvero esperto dell’antichissima e universale tendenza umana a sognare il Bello, il Buono e a recuperarlo quando gli uomini stessi o i disastri naturali, seppelliscono tutto con il Brutto e con il Cattivo.

 

Marco Astegiano con “Una questione privata”

Come fiori sul ciglio della strada - Cielo
Come fiori sul ciglio della strada – Cielo

Nel 1963, Garzanti pubblica il romanzo breve “Una questione privata” di Giuseppe “Beppe” Fenoglio. L’opera uscita postuma ha come teatro la Resistenza nelle Langhe, terra d’origine dell’autore, ove il protagonista, il partigiano Milton, parte per un viaggio alla ricerca del più prezioso dei tesori: la verità sulla sua amata Fulvia. Purtroppo il giovane patriota non troverà quanto desidera né tantomeno il lettore riuscirà scoprirlo. Il XIII e ultimo capitolo si chiude, infatti, con la descrizione della sua fuga dal fuoco dei fascisti, che si interrompe di netto non appena arrivato in una boscaglia, in cui il protagonista crolla esausto.

Il romanzo si dipana come una serie di scatole cinesi che il povero Milton è costretto ad aprire dall’accanirsi degli eventi. Deciso a scoprire la verità sull’ipotetica liason carnale dell’estate precedente tra Fulvia e il fraterno amico Giorgio Clerici, parte alla sua ricerca per un confronto nel vicino paese di Mango, dove anche egli è partigiano, ma, avendo appreso che questi è stato appena catturato dai fascisti, inizia a peregrinare da una collina all’altra a piedi con l’intento di procurarsi un prigioniero con cui scambiare il rivale in amore, salvarlo e finalmente sapere la verità. Italo Calvino paragona l’intreccio del libro a quello de “L’Orlando Furioso” per meglio descriverne la “geometrica costruzione”.

L’autore con assoluta maestria riesce, attraverso l’ampio uso di flashback e di una severa narrazione in terza persona, a raccontare al lettore altre due storie oltre a quella principale del viaggio di Milton verso la verità. In primo luogo la primavera del 1942: la cornice che vide nascere e crescere l’amore del protagonista per Fulvia, evocato attraverso la visione della villa e il ricordo delle canzoni suonate al grammofono, tra tutte “Over the rainbow” che tornerà spesso, alle orecchie del partigiano durante il suo cammino suscitando in lui ferventi ricordi “proustiani” di quei giorni spensierati. In secondo luogo ci propina le vicende della guerra civile: stanca, sporca e a volte dilettantesca, combattuta per lo più da renitenti, farabutti e minorenni.

 

Ninetta Pierangeli con “Virtù”

Oggi ho letto una miscellanea di saggi e riflessioni, più o meno lunghe o brevi, da titolo “Virtù”, una delle belle parole a cui l’editore Studium ha voluto dedicare la sua collana.

Riassumendo e riprendendo il filo sparso tra le righe e gli autori, ho buttato giù questa lieve presentazione.

La virtù è un orizzonte che, per il filosofo McIntyre citato da De Angelis, si è completamente chiuso dopo la fine di una concezione condivisa del bene comune, perché solo essa rappresenta il fondamento dell’amicizia (Leopardi) e non si può essere virtuosi in solitudine, riafferma Evelina Piscione. È il nostro secolo quello della competizione, ma è nella cooperazione che splende la virtù dell’uomo, dice Duccio Piovani.

Cosa è dunque la virtù?

L’areté è la capacità di fare bene il proprio compito, sostiene classicamente Lorenzo Marone. E Carmelo Scavuzzo riprende il Convivio, nella definizione tomistica: Ciascuna cosa è virtuosa che fa quello a che ella è ordinata.

Ma è di nuovo Marone che mi ha colpito: le piante mettono tutta l’energia a farsi belle e così aiutano pure gli altri, perché dalla loro prosperità passa la fortuna di tutti.

Così la virtù delle piante e farsi belle. E qual è la fortuna degli altri? Guardare la bellezza delle piante. Così mi son detta che la virtù dell’uomo è guardare la bellezza perché così è fortunato ed è felice. Ed è essere belli. Il compito a cui siamo ordinati io lo vedo così: innaffiare il fiore che ciascuno di noi è. E poiché non possiamo essere felici da soli, la nostra virtù sarà di essere cespuglio.

La metafora del fiore e del cespuglio, dell’areté come realizzazione della bellezza e della felicità all’interno della comunità ci riporta direttamente nel cuore di un’etica aristotelica, come contraltare alla perdita della consapevolezza del quid specifico dell’essenza umana. Mi spiego: Luca Serianni con un’indagine lessicologica, scopre come attualmente il termine virtus lo troviamo ridotto alla virtù del burro o dell’extravergine. L’antropos a una dimensione schiacciato sulla mera necessità e felicità del mangiare e del consumare.

 

 

I vincitori saranno contattati via e-mail per l’invio del premio.

Complimenti ai vincitori, finalisti e partecipanti!

 

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