“Assalonne, Assalonne!” di William Faulkner: tanti Io e nessun Noi

Inizio la reazione del libro Assalonne, Assalonne! di William Faulkner dopo una dozzina di pagine del capitolo settimo, al termine di una notte non insonne, utilizzata sognando, l’indomani di una giornata trascorsa a leggere il libro che tanta sacra stanchezza dona al lettore.

Assalonne, Assalonne! di William Faulkner
Assalonne, Assalonne! di William Faulkner

Mi sono deciso ad agire per iscritto solo allorché ho compreso che, continuando a leggere, non sarebbe cambiata granché la consapevolezza che avrei avuto del senso della storia, il quale è chiarissimo sin da subito: girare in torno all’impavido lettore e ogni tanto lanciargli un sassolino, che poi quel lettore da riporto potrà, come il vecchio Charlie (spinone-bracco) a renderlo al padrone. Ogni volta Charlie faceva così, finché a un certo punto azzannava una pietra (non più bella delle altre) e non la voleva depositare più, se non quando era a casa, quando la posava sul balcone. Il senso me lo donò il cinofilo Giorgio Campanini: Charlie si era rotto le balle di quel gioco ormai stucchevole. Quando William Faulkner getta una pietra chiarissima, io gliela riporto, modificata dal mio assurdo commento.

Il dominus della situazione è lui, William Faulkner, il quale divide, come ogni buon scrittore che si rispetti, il suo horcrux in tutti i suoi personaggi, concedendo il boccone più grosso a Thomas Sutpen, miserabile squattrinato della West Virginia che ha una dote magnifica: al mondo c’è lui e nulla più.

Esiste un io narrante? Sì, no, forse: vari! Il più frequente e duraturo è Quentin Compson, ma mi ha molto intrigato anche Rosa Coldfield… Basta al momento cianciare. Occorre agire!

“Ciò (il parlare, il raccontare) sembrava a lui (a Quentin) avere la qualità di un sogno alogico e irrazionale che il dormiente sa essere senz’altro avvenuto, nato morto e completo, in un secondo, eppure l’intrinseca qualità su cui quel sogno si fonda per indurre il sognatore (verosimiglianza) alla credulità – orrore o piacere o meraviglia – dipende da un formale riconoscimento e accettazione del tempo trascorso e in atto di trascorrere, nella stessa misura della musica o di un racconto stampato.” – appunto, C.V.D.!

“… la ragione per cui Sutpen non beveva era che non aveva il denaro per pagare la sua parte o ricambiare la cortesia.” – un suo difetto diventava assenza di vizi.

“Ma ora lui apparteneva alla categoria dei proprietari terrieri del luogo, e alcuni cominciarono a sospettare quel che il generale Compson evidentemente sapeva: che la moneta spagnola da lui versata per far registrare la sua concessione era l’ultimo quattrino che gli rimanesse”un miserabile che ha puntato l’ultimo decino su un terno secco, facendo secchi tutti gli altri: che altri sono, lui è lui, invece, Sutpen.

Intanto i negri che si utilizzano in questi casi, come se fossero delle mattonelle per edificare una venusta dimora, “andavano nudi come Dio li aveva fatti tranne per un rivestimento di fango secco.” Pare che “il cacciatore di tassi Akers sostenesse di averne stanato uno dal mare di melma come un alligatore addormentato, gridando appena in tempo.”uno di quei diversamente bianchi, sia ben chiaro, anzi, oscuro.

“… gli abiti indossati da Sutpen la prima volta c’era entrato in Jefferson erano gli unici che gli avessero visto mai addosso…”.

Lui, Sutpen, era un idealista, solo che la sua idea non prevedeva che Sé: “solo un artista poteva sopportare la spietata fretta di Sutpen eppure riuscire a domare il sogno di cupa magnificenza da castello a cui Sutpen evidentemente mirava”. Un miserabile che sarebbe diventato un Qualcuno, per un’esigenza esistenziale, non per una diversa pochezza. “Lui viveva là fuori, a otto miglia da qualunque vicino, in virile solitudine in quella che si poteva chiamare la circoscritta santabarbara di un fasto baronale.” Era un uomo oculato: “I suoi uomini si portavano con sé il whisky, ma lui ne beveva con una specie di calcolo risparmiatore quasi tenendo mentalmente, a detta del generale Compson, una sorta di bilancio di contropartita spirituale fra la quantità di whisky che lui accettava e la quantità di cacciagione che forniva a sua volta ai fucili degli altri” – non un freddo calcolatore, ma un tipo, dicono dalle mie parti, precîş cme un dî in d’al cûl, e ogni traduzione sarebbe dolorosamente superflua. Lui, Sutpen, è un uomo funzionale a se medesimo: “Dati occasione e bisogno, quest’uomo è capace di tutto.” – un vincente, o uno sconfitto: il pareggio non era un risultato ammesso.

È un perspicace a tutto spiano: “guardò ancora di viso in viso, imprimendosi senza dubbio, e guardò ancora di viso in viso, imprimendosi senza dubbio nella memoria le facce nuove, senza alcuna fretta, e sempre con la barba per nascondere ciò che la sua bocca avrebbe potuto mostrare.”

Uno che non si lasciava crescere l’erba sotto i piedi:Due mesi dopo, lui e Miss Ellen si sposarono. Fu nel giugno 1838, quasi cinque anni precisi da quella domenica mattina i cui era entrato nel paese a cavallo del roano.”

Una deduzione che appartiene al narratore: per le donne “un matrimonio qualsiasi è sempre meglio di nessun matrimonio, e un grande sposalizio con un furfante è preferibile a un povero sposalizio con un santo” – è qui necessario il detto arşân: piutôst che gnînt l ē mej piutôst: meglio un avverbio che null’altro.

Egli era consapevole che si poteva “permettere un solo errore e non più”, e sapeva venire “a patti col suo sogno e la sua ambizione così come bisogna fare col cavallo che porti in aperta campagna e in zona boschiva, e che controlli soltanto mediante la tua abilità di non far capire all’animale che in realtà non ne sei capace, che in realtà è lui il più forte”è la psicologia tanto di Sutpen quanto di Faulkner.

Ellen si dimostrò, come poté all’altezza della situazione: “la zia la ricondusse a casa in uno stato molto prossimo all’isterismo, sebbene l’indomani tornasse a essere un semplice pianto quieto e intermittente.”

Scene da un matrimonio: “… la sposa rannicchiata al riparo del braccio di lui che se la tirava dietro e se ne stava là ritto, immobile anche quando un altro oggetto (non gettarono niente che potesse far male: erano solo zolle di terriccio e rifiuti vegetali) gli portò via netto il cappello dalla testa…”. Amore a modo suo: “Lui non dimenticò quella notte, quantunque Ellen, credo, la dimenticasse poiché se la cancellò dalla memoria lavandola con le lacrime. Sì, lei ora s’era rimessa a piangere; davvero che piovve su quel matrimonio.” Poi, Ellen “parve non solo accettare la sua vita e il suo matrimonio, riconciliarvisi, ma andarne addirittura orgogliosa. Era fiorita come se il Fato condensasse la normale estate di San Martino che avrebbe dovuto rifiorire gradualmente e graziosamente appassire nello spazio di sei o otto anni…” – versando in tal modo “l’assegno al quale la moglie del Fato, la Natura, aveva apposto la firma di lui” se poi vogliamo definire lo scrittore Faulkner, partendo dalle sue due prime lettere, possiamo dirlo scrittore del Fato, purché imperscrutabile e inevitabile, come tutti i Fati. “Egli era ormai arrivato a essere il più grosso proprietario terriero e piantatore di cotone della contea, con la stessa tattica con cui si era costruito la sua casa” – tramite “azioni visibili” e “invisibili”.

“Ellen aveva perduto un po’ di carne, certo, ma in quel modo stesso in cui la farfalla entra nella dissoluzione dissolvendosi veramente…”.

Henry, figlio di Sutpen, amava l’amico Bon. “Egli ripudiò per lui sangue diritto di nascita e sicurezza materiale, per quest’uomo che era quanto meno un bigamo intenzionale” – non troppo diversamente dal padre di entrambi, che si scoprì essere sempre lui, Thomas Sutpen, non meno menzognero e pro domo sua, esclusivamente sua, di Henry Sutpen e di Bon. Bon vuole Judith, sorella di Henry e per metà sua. Henry ama entrambi, lui, Bon, e lei, Judith. Henry giunge “a capire che la verginità della sorella deve essere distrutta per poter essere esistita, che prende quella verginità per mezzo del cognato, l’uomo che lui vorrebbe essere se potesse diventare per metamorfosi, l’amante, il marito.”

Una rivelazione: “Sì, fu Henry a sedurre Judith, non Bon”: in un anno di fidanzamento due furono le visite di Bon alla sua pretesa sposa. Henry ripudia il padre, perché la sorella deve sposare chi lui sa che deve, e che poi dovrà ammazzare. Lo anticipo perché lo fa l’autore e il suo io narrante, a prescindere da chi sia: uno dei suoi horcrux.

Sutpen andò a New Orleans, per la stessa logica con cui “un ragazzino sceglie un formicaio come tutti gli altri per versarci dentro acqua bollente, senza sapere nemmeno lui perché.” – e questa è la crudeltà.

Il Fato: Bon è figlio di Sutpen e di una meticcia, entrambi materiale di scarto. Bon è “il mentore” di Henry: e i mentori vanno ascoltati e poi uccisi, quando hanno raggiunto il culmine del loro insegnamento.

“… tu lo chiami matrimonio, quando una prima notte di nozze e l’incontro casuale con una prostituta pagata consistono nella stessa signoria su una camera (temporaneamente) privata” – di fatto l’atto di meretricio è un’allegoria del matrimonio sessuale, non del sacramento!, e questo concetto non sarebbe spiaciuto a G. B. Shaw.

“Hai dimenticato che questa donna, questo bambino, sono dei negri e basta? Tu, Henry Sutpen di Sutpens’s Hundred nel Mississipi? Tu, parlarmi di matrimonio, di nozze, in questo caso?”

Henry sapeva ormai, lei, Judith, no: “Henry non glielo avrebbe mai detto, e lei non lo avrebbe mai domandato al padre.” Henry e Bon “Si arruolarono e poi si nascosero in qualche posto” – sempre più simili, sempre più fratelli, sempre più vicini, sempre più antagonisti.

“Poi Helen morì, la farfalla di un’estate dimenticata morta ormai da due anni – l’involucro senza sostanza, l’ombra inaccessibile qualsiasi alterazione dissolutiva per via della sua stessa incorporeità: non corpo da seppellire: solo la forma, il ricordo, trasportato in qualche pomeriggio pacifico senza campane o catafalco in quel bosco di cedri, a giacervi in polvere…”.

Un faulknerismo: “Essi si affrontarono su due magri cavalli, due uomini, giovani, non ancora nel mondo, non ancora abbastanza sfiniti da esseri vecchi ma con occhi vecchi, capelli incolti e facce smunte e conciate dalle intemperie, come fuse nel bronzo da qualche mano spartana e perfino avara…” e poi continua a cianciare per qualche chilometro, che nessuno lo ferma più.

Siamo alla fine capitolo 4: “Siete voi Rosie Coldfield? Allora è meglio che veniate laggiù. Henry ha sparato a quel dannato tizio francese. L’ha fatto secco come un bue.”

William Faulkner
William Faulkner

Lo dice Faulkner oppure Rosa? “… ma è vera saggezza quella che sa comprendere che c’è un avrebbe-potuto-essere più vero della verità, svegliandosi dal quale il sognatore non dice ‘Ho dunque solo sognato?’ ma piuttosto dice, accusa lo stesso cielo in persona con un: ‘Perché mai mi sono svegliato, dal momento che in questa veglia non ritroverò mai più il sonno?– come il contadino che, per Pavese, aveva tutto il diritto di imprecare contro Dio, dopo una micidiale tempesta a secco.

Dice Rosa: “… divenni non amante, non amata, ma ancor più dell’amore stesso; divenni la sostenitrice androgina di tutto l’amore enciclopedico.” Rosa, eri “bambina troppo alta oppure donna troppo bassa.”e quel troppo forse ti salvò. “… e non lo amavo nel senso che noi diamo a questa parola perché non v’è amore di tale specie senza speranza…”.

Don Giussani parlava della Verità come una rupe a cui appendersi: “lo scoglio solitario a cui aggrapparci nel vortice della realtà insopportabile…”.

Un’allegoria ancora: “che noi esistessimo ormai in un’apatia che era quasi pace, come quella della stessa cieca insensibile terra che non sogna stelo o boccio di fiore, non invidia l’area solitudine musicale delle foglie germoglianti da essa nutrite.

Clitemnestra, detta Clytie:sì, selvaggia: metà sangue nero e metà sangue Sutpen…”.

Rosie è la sorella di Judith.

E poi un pomeriggio di gennaio venne casa Thomas Sutpen; qualcuno guardò là dove stavamo preparando l’orto per il cibo di un altro anno e lo vidi risalire il viale a cavallo. E poi una sera io divenni la sua promessa sposa.” – di lui, Thomas Sutpen, “io che per vent’anni lo avevo guardato (quando mi capitava – mi toccava anche – di guardarlo) come si guarda un orco, una bestiaccia di favola per spaventare i bambini…” – e ci sono vari etimi per orco, ma quello da cui deriva orchite è quello che calza meglio. Era come se “si preoccupasse (non paura: preoccupazione) non già che la vecchiaia potesse averlo reso impotente a fare quanto intendeva fare, ma che potesse non restarli il tempo di farlo prima di dover morire.” – e la sua età, 59, non era così verde come quando aveva “tredici o forse quattordici o già quindici anni ma non l’avrebbe più saputo con certezza”, anni d’età che, quand’era giovane, pareva sempre incerta, ma ora no, era 59 e non parliamone più.

La sua era quella fredda furia vigile del giocatore che sa di poter comunque perdere ma che basta un attimo di incertezza nella fiera costante volontà per dargliene la certezza”: di doman non c’è certezza, cantava Lorenzino, nemmeno per l’entropia cosmica!

Le va a dire quell’uomo, per cui il proprio onore è l’unico che vale qualcosa: “Tu forse penserai che per tua sorella Ellen non sono stato un ottimo marito. Probabilmente pensi così. Ma anche se non puoi dimenticare che adesso sono più vecchio credo di poter promettere che se non altro non farò peggio con te.

Lei si disse:Ma sì, è matto. Decreterà questo matrimonio per stanotte e compirà la sua cerimonia personale, facendo lui stesso da sposo e da sacerdote; reciterà la sua personale benedizione reggendo in mano la candela del capezzale: e io matta come lui, perché sarò acquiescente, soccomberò; lo asseconderò e precipiterò.” – Amen! Lui evita quasi di guardarla, perché “era troppo occupato che avendo compiuto il suo fidanzamento (ammesso che questo fosse il suo intento) lui non aveva bisogno di vedermi.” – il suo (di Sutpen) fidanzamento, non il loro.

Lei ora dice, a Quentin, a William, a me: “o piuttosto tenterò di dirtelo, perché vi sono certe cose per le quali tre parole sono troppe, e tremila parole altrettante di meno del necessario, e questa è di tal genere.

Lui era l’orco chesi portò la mia unica sorella alla sua cupa dimora di orco e generò due figli semi spettrali a cui compagnia non fui incoraggiata a cercare e non desideravo…” – e questo è tutto. Ma lei avrebbe sposato quell’orco, se quell’orco non…

“… dal buio abissale e caotico e caotico al buio eterno e abissale completando la sua ellissi (noti la gradazione?) discendente, aggrappandosi tentando di aggrapparsi con vane mani inconsistenti a ciò che sperava l’avrebbe tenuto, salvato, arrestato…” – si parla di Ellen, ovviamente; sì, caro Faulkner, cara Rosa, l’ho colta, lo credo, almeno. E tu, e voi avete colto il mio subliminale, non necessariamente sublime tentativo d’imitazione? Una domanda, cara, perché William ha messo in corsivo il tuo dire a Quentin, l’io narrante a seconda di tutti (soprattutto di William) più titolato, uno che non corsiverebbe mai, se non sotto tortura? Per William, e per me ora, la ripetizione aiuta, soprattutto se è stancante. E tu? Tu, Thomas Bernhard, che dici, che pensi a proposito? In questo romanzo sono tutti soccombenti. Non ce n’è uno a cui vada bene la vita, nemmeno la morte. Ma a chi va tutto bene, nella vita? Nella morte chissà!

Il capitolo 6 inizia con una lettera della madre al figlio Quentin, in cui gli comunica la morte di Rosa Coldfield.

Secondo Miss Coldfield, secondo Faulkner, secondo me, e lo dice a Quentin, “il demonio doveva fare un voltafaccia bello e buono e non solo cacciare il fidanzato dalla casa ma corrompere, sedurre e ipnotizzare in tal modo il figlio che lui (il figlio) finisse per svolgere l’ufficio del padre offeso e armato di pistola quando si profilò la minaccia della fornicazione.” – la soluzione a cui non v’era alternativa.

L’orco propose a Rosa “di procreare con lui un paio di cagnolini, inventando con diabolica astuzia quella cosa che da dieci milioni di anni mariti e fidanzati tentano di inventare: quella cosa che senza nuocerle e darle motivo di azione civile o tribale non soltanto avrebbe espulso dalla colombaia la piccola donna di sogno ma l’avrebbe lasciata irrevocabilmente maritata…” – e tutto ciò “nel giorno stesso in cui egli assodò definitivamente che sarebbe stato in grado di tenersi almeno un po’ ella sua terra…”.

Dice chi ha tempo da perdere che quella che inizia con “Proprio e tale quale papà…” – sia il più lunga frase della storia della letteratura in inglese. Joyce incluso?

Povera anche Milly, incapace di dare al suo anziano stallone un maschio, e questo le dice, sberleffandole addosso: “… peccato che tu non sia una cavalla come Penelope. Ti potrei dare un posto decente nella stalla…” – e il padre di lei lo tocca, sebbene lui gli imponga di non farlo: “niente colpo, nulla perché sempre ciò che consuma un castigo suscita un grido mentre ciò che suscita il silenzio estremo accade in silenzio.” – RIP! William sei onirico come pochi!

Ellen morì nel 1863, a 46 anni. Thomas 6 anni dopo. Charles Bon, uno dei tanti disconosciuti figli, nel 1865, “33 anni e 5 mesi”. Judith, del 1841, morta tra “le Indegnità e i Travagli di questo Mondo”, a 42 anni.

Jim “il ragazzo negro dalla pelle chiara che sta con quella vecchia”. Il cui cognome ora è “Bond”, quando “bond” è “cauzione”, il “figlio del figlio di Charles Bon”, fatto che “lui non solo non l’avrebbe saputo, ma non ci avrebbe tenuto.”

Sussurra una voce quasi sopita: “Quanto imparai fu che c’era un posto detto Indie occidentali dove i poveri si recavano in nave e diventavano ricchi, non importa come, purché svegli e coraggiosi. Qualità la seconda che ritenevo di possedere, mentre la prima ritenevo di poterla apprendere, se si trattava di apprenderla a forza di energia e volontà alla scuola dello sforzo e dell’esperienza.” Era solo “un ragazzo di quattordici anni che parlava solo inglese, e neanche molto bene, aveva deciso di andare nelle Indie occidentali ad arricchirsi…”. Egli “stava raccontando una storia. Non si vantava di qualcosa che avesse fatto; raccontava semplicemente di una storia di qualcosa che era successo a un uomo di nome Thomas Sutpen e sarebbe stata la stessa storia anche se si fosse trattato di qualsiasi uomo o di nessuno in particolare tra una sorsata e l’altra di whisky nella notte.” – chiamala se vuoi finzione, ripetuta ad nauseam, o ad libitum, che poi è lo stesso.

“… era un bel discorso, disse il nonno, e disse pure come Sutpen si fosse rivolto a lui ma lui (il nonno) si stava già accostando all’architetto…” – avevo capito che lui era il nonno, a cui manca un braccio, ma il resto ce l’ha tutto, e grazie lo stesso, anche per le non rarissime, è un’antifrasi, volte in cui svolgi questo servizio chiarificatore.

“‘Ci vorrebbero trent’anni’ – disse Quentin. – ‘Ci vollero trent’anni prima che Sutpen raccontasse dell’altro al nonno. Forse aveva troppo da fare. Tutto il tempo disponibile per la conversazione preso dal lavoro inerente all’attuazione del disegno che aveva in mente, e sua sola distrazione battersi coi suoi negri selvaggi nella stalla in cui gli uomini potevano legare i loro cavalli…”nel luogo dov’era lui, il dominus: “adesso lui era già sposato, la casa ultimata e lui già stato arrestato per averla rubata e poi liberato cosicché tutto era a posto, con la moglie e due bambini – no, tre – nella casa e la sua terra dissodata e seminata col seme prestatogli dal nonno e lui già in via di arricchire a spasso spedito e sicuro ormai…”.

La filosofia fa bene, quando non fa male. La filosofia cambia la vita, ma non il suo esito finale. Diversamente non è filosofia, è religione. “Sì. Forse siamo tutti e due papà. Forse nulla accade una volta per poi finire. Forse l’accadere non è mai per una volta ma forse come increspature sull’acqua dopo che il ciottolo è affondato, le increspature che avanzano, allargandosi, l’anello unito da uno stretto cordone ombelicale acquatico all’anello seguente che il primo anello alimenta, ha alimentato, alimentò, e contenga pure questo secondo anello una diversa temperatura d’acqua, una diversa molecolarità dell’aver visto, sentito, ricordato, rifletta pure in un tono diverso l’infinito cielo immutabile, non importa…” – e continua (lui, Quentin) ancora per un po’: è la miglior analisi possibile della scrittura di William F., fatta da lui medesimo, Quentin, ad usum lectoris.

“Io avevo un disegno. Per attuarlo mi ci voleva denaro, una casa, una piantagione, schiavi, una famiglia – incidentalmente certo, una moglie.” – tutto quello che serve per essere un felice lazzarone di successo.

“Fu a questo punto che Shreve andò in camera da letto e indossò l’accappatoio”gesto che è assurdo definire solito, quotidiano: diventa mitico, perché accade diversi anni dopo gli eventi narrati e subito, siamo dopo il 1910, diventa ac-caduto, passato da tirar su e da narrare.

“… stava già dimostrandogli conclusivamente che lui aveva avuto ragione, proprio come ne era convinto lui, e quindi ciò che era successo era semplicemente una chimera e non esisteva affatto.” – se non nel racconto. Lui, Quentin Compson, non altri.

Questa scena: “… udì solo Sutpen dire: ‘Indietro, Wash. Non toccarmi’, e poi Wash, la voce sommessa che le giunse a stento: ‘Invece vi tocco, altroché, colonnello’; e Sutpen ancora: “Indietro, Wash!’ brusco adesso, e poi lei udì il frustino sulla faccia di Wash ma non sapeva se avesse udito o no la falce perché adesso si accorse di potersi muovere, alzare, uscire di corsa dalla capanna e via fra le erbacce, di corsa…” – va ripetuta come minimo tre volte. Alla fine, ogni volta, Sutpen crepa. Una frusta contro una falce, beh, preferirei avere in mano la seconda. Preferirei essere altrove. Il nonno ammazza tutti, compreso il proprio incolpevole nipote (ma chi lo è, davvero innocente?). Precisa Quentin: “Era una bimba.” – la pietra dello scandalo, da gettare via. Peggio per lei che volle nascere.

“E Henry entrò e il vecchio disse: ‘Tu menti’ proprio così, con la stessa rapidità: nessuno spazio, nessun intervallo, niente in mezzo come quando premi un bottone e fai luce nella stanza.” – click!

Siamo in America, c’era già la luce che si accende premendo un bottone.

“… e inoltre, tuo padre ha detto che quando hai abbondanza di buon odio sostanzioso non hai bisogno della speranza perché l’odio basterà a nutrirti…”carburante molto dispendioso però. La speranza va sempre ed è l’ultima a tirare le cuoia.

La zia Rosa, fideisticamente, cristianamente, ingenuamente pensava: “… come gli si può mai permettere di morire senza aver prima ammesso che aveva torto e soffrire e pentirsene.”

Shreve fa della sana educazione sessuale ad usum Quentini: “Solo che, Gesù, un giorno o l’altro devi pure innamorarti. Mica te la farebbero così sporca. Sarebbe come se Dio avesse fatto nascere Gesù e si fosse assicurato che aveva gli arnesi da falegname e poi non gli avesse mai dato niente da fabbricarci. Non credi?”

A volte fai fremere, William: “la donna lievemente trasandata dai capelli corvini striati di grigio spettinati e ispidi come una coda di cavallo, dalla pelle color pergamena e gli implacabili occhi neri infossati che soli non dimostravano età perché non dimostravano oblio…”.

L’umanoide nulla fraintende più della guerra: “giacché né Henry e Bon, né Quentin e Shreve erano i primi giovani a credere (o almeno evidentemente agire con tale presupposto) che le guerre fossero create talvolta al solo scopo di sistemare le difficoltà e scontentezze private della gioventù.” – servono da canale in cui far scorrere di tutto, soldi, merda, eroismo, patriottismo, vanità, insofferenza, merda, merda, sangue, sangue, anima…).

William!: “Forse sapeva tanto meglio che cosa pensava Henry perché non sapeva anche cosa avrebbe fatto lui, non l’avrebbe saputo fintanti che tutt’a un tratto un bel giorno non erompesse alla luce e allora lui avrebbe saputo di aver sempre saputo che cosa doveva essere…” – etc etc.

“… giacché adesso tutti e due erano Henry Sutpen e tutti e due erano Bon, composti ciascuno di entrambi eppure ciascuno a sé, fiutando lo stesso fumo che si era alzato e dissipato quarantasei anni fa…” – due particelle venute per caso a contatto e ora entangled, correlate per l’eternità.

“…quel rapporto di sangue che doveva portare Bon a scrivere, lui ad acconsentire e il loro padre a venirne a conoscenza nello stesso identico istante, dopo un periodo di quattro anni, fuori del tempo.” – in quell’attimo lo spin di entrambe le particelle girano, seppure in direzioni opposte.

Lui non deve sposarla, Henry. Il padre di sua madre mi disse che la madre di lei era spagnola. Io gli credetti; fu soltanto dopo la sua nascita che scoprii che sua madre aveva sangue nero.” – che miseria, mio Dio! Che merita un autodafé con conseguente rogo. Il quale non è tanto il rogo finale, quanto, soprattutto, la proclamazione solenne di una sentenza, cui, in questo caso, non può seguire né l’abiura né la condanna degli eretici, bensì il supplizio degli eretici sul rogo e le cerimonie che, inevitabilmente, accompagnano quel disumano e umanissimo, rito, in cui ad ardere non sono soltanto i peccatori o i peccati, ma anche i loro rimorsi.

William è uno scrittore a cui importa scomporre il tempo, frazionandolo, facendolo riesaminare, come se non fosse un’illusione, ma una realtà che si evolve di volta in volta, a seconda da chi è colui che lo determina.

So d’essere noioso, ne sono cosciente e perciò ribadisco il fatto: lui, Bohr affermava che la particella esiste solo allorché viene attestata (non tanto dallo scienziato, ma da chiunque, anche da un negro arrotolato nel fango). Diversamente è un’onda che va, che va, che va… Che va via, dove vuol lei.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

William Faulkner, Assalonne, Assalonne!, Adelphi, 2001

 

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