“L’altro Pasolini” di Andrea Zannini: la tragedia del Porzûs
Il titolo può essere inteso in due modi: l’altro Pasolini è Guidalberto, che “nacque a Belluno il 4 ottobre 1925 e morì a Bosco Romagno, tra Cividal dl Friuli e Gorizia, il 12 febbraio 1945”, come c’informa nell’Introduzione l’autore stesso, partigiano, ucciso da altri partigiani e fratello del poeta, narratore, giornalista e regista Pier Paolo.
Oppure l’altro Pasolini è lo stesso PPP (così lo chiama Walter Veltroni nella Presentazione), un po’ diverso da come lo conosciamo. Nella nostra memoria PPP è uno che se ha qualcosa da dire, un pensiero da esprimere e un’opera da esibire, non ha timore di farlo, uno a cui piace colpire allo stomaco, magari dopo averlo blandito, il lettore e lo spettatore, uno che non ha mai avuto paura di esprimere il demone (socratico) che è in lui.
Il saggio di Andrea Zannini si propone il compito di illustrare, con dovizia di particolari, con un’ampia indicazione delle fonti storiche, quei tragici anni in cui combatté e fu ucciso Guidalberto, detto Guido, detto Ermes, il nome partigiano che si era dato, com’era abitudine in quei maledetti tempi.
L’autore scrive: “Quel ‘partigiano morto prima del maggio ‘45’,” come nella poesia di PPP, è lui ed è come se il poeta debba in ogni momento fare i conti con quella morte, la morte dell’’altro Pasolini’” – e qui vale la pena di deformare, facendone scempio, il verso di Ungaretti: “la morte dell’Altro si sconta vivendo la propria tormentata esistenza.” PPP e tormentata esistenza nella medesima frase non possono che collidere in un pleonasmo, come dire luce luminosa o buio oscuro.
Commento la citazione che, verso la fine del saggio, l’autore fa di un quesito che si pose nel 1980 Giancarlo Boccotti, che ancora non si sa spiegare con certezza: “… perché Pasolini non abbia mai pubblicato, ma neppure distrutto, questo dramma, composto in uno dei momenti più intensi e anche poeticamente fecondi della sua vita.”
L’opera in questione è I Turcs dal Friul, i Turchi nel Friuli, atto unico che egli compose nel suo dialetto, che riguarda un’invasione nel Friuli avvenuta nel 1499, che Casarsa, riuscì a evitare per un pelo.
PPP era di tre anni più vecchio di Guido, la cui immagine spicca sulla copertina del saggio, ove pare quasi un Rimbaud in procinto di partire per la Comune di Parigi. La differenza è che Guido giunge troppo presto nel luogo dove è destinato a morire. Rimbaud partì, arrivò, compose alcuni brani mitici e poi, almeno per lui, tutto ebbe fine. Poi si ritirò in se stesso, finì di comporre i suoi canti, e fuggì in Africa, ove badò ai fatti suoi. Guido terminò presto di combattere, per scelta dei suoi nemici, che erano partigiani e italiani come lui, pur ispirati da differenti ideali, che lo ammazzarono.
PPP e Guido un po’ s’assomigliano, essendo così stretti consanguinei, e al contempo divergono. Il viso di Guido pare quello di un bambino, mentre il viso di PPP pare essere nato adulto e vissuto, “assez vu/assez eu/assez connu” (da Départ di Arthur Rimbaud).
Se cerchi su Google puoi scorgere Guido in un’immagine in cui sta usando una specie di zappa (o un rastrello?, purtroppo l’immagine è tagliata), in un’altra tiene una pistola in mano e guarda in alto, chissà cosa sta mirando?; in un’altra ancora ha in mano un fucile, in altre ancora è in posa, forse per qualche ricorrenza. In tutte pare quel ragazzetto che presumibilmente rimase fino alla morte.
Secondo PPP, “Guido ‘Partiva comunista’ e solo per suo consiglio – ‘essere vissuto tre anni di più in periodo fascista doveva pur aver contato qualcosa’ – sceglie l’altra parte del movimento partigiano, quella non comunista.” – e c’è un motivo: da quelle parti, oltre che i nazisti, a incombere ci sono i titini. Tito aveva la mira di estendere il più possibile l’annessione dei territori italiani e con uno così non c’era proprio da scherzare.
Come anni dopo il suo più celebre fratello, anche lui non la mandava a dire; scrive in una lettera: “A Mernicco un commissario garibaldino mi punta sulla fronte una pistola perché gli ho gridato che non ha idea di che cosa significhi essere ‘Uomini liberi’ e che ragionava come un federale fascista (infatti nelle file garibaldine si è liberi di dire bene del comunismo, altrimenti sei trattato come ‘nemico del proletariato’ – nientemeno! – oppure ‘idealista che succhia il sangue del popolo’ – senti che roba! –)…” – poteva durare un siffatto uomo in un ambiente, dove i cosiddetti garibaldini erano in realtà filo-slavi?
Guido, secondo PPP, “scelse volontariamente la strada della montagna per non arruolarsi nella repubblica di Salò.” – era un periodo in cui ogni scelta, se rimandata anche di poco, poteva trasformarsi in una decisione altrui. La realtà è sempre più vischiosa di quel che si spera: in montagna Guido scopre che quelli della Brigata Garibaldi erano da temersi più dei fascisti, in quanto asserviti agli slavi. Egli aderisce perciò al Partito d’Azione. Una cosa vuole evitare: “la bolscevizzazione dell’Italia!!!” – così egli scrive in una lettera mandata a PPP e datata “27 novembre 1944”. Non si sa perché, anziché tornare in famiglia, al sicuro, sceglie di restare in montagna, come ad attendere, catarticamente?, il compiersi della propria tragedia.
Catturato insieme ad altri dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica, i garibaldini), è l’unico che ha il coraggio di parlare, e dice cose poco piacevoli a quelle orecchie nervosamente idealiste e dice che: “i comunisti, di giustizia conoscevano quella del colpo alla nuca” – al che “il commissario politico fece finta di nulla e proseguì la lezione. Pessimo segnale. La sera i prigionieri furono interrogati…” – attentamente, uno a uno, come se non fosse già deciso il loro destino.
Gli altri, i cosiddetti osovani, a cui apparteneva Guido, non furono uccisi tutti insieme, ma alla spicciolata, come si fa con degli animali che, ad ammazzarli tutti insieme, le loro carcasse creano soltanto problemi di spazio: questa metafora è mia, ci tengo a specificarlo, e se l’ho scritta è che sono sconvolto da quel che successe: “Con uno stillicidio, nei giorni seguenti, tra il 9 e il 18 febbraio, gli osovani furono eliminati”, per lo più senza processo, “perché non ci sarebbe stata probabilmente la dignità di una prova; non ebbero nemmeno la solennità di un plotone di esecuzione. Solo qualche raffica, ai bordi di un bosco, dopo essersi scavata una fossa.” – come bestie. Questa fu la cosiddetta tragedia del Porzûs, avvenuta circa mezzo millennio dopo l’invasione dei Turchi.
“Dopo quindici anni, dopo aver girovagato per mezza Italia e aver riempito le pagine dei quotidiani”, la ricerca dei colpevoli finì per uscire “definitivamente dalle aule giudiziarie”, senza un nulla di fatto, senza che “fosse data una risposta chiara alle principali domande”.
Interessante metafora: “… si potrebbe dire che ricostruire i fatti di Porziûs sia un gioco di specchi al termine del quale chiunque, da qualsiasi parte stia, può ricavare l’immagine che preferisce.”
Enten-Eller, direbbe Kierkegaard: “La guerra nella Iugoslavia occupata diventò così lo scontro semplificato tra comunismo da un lato, e nazifascismo dall’altro: nessuna posizione intermedia, nessun distinguo venne tollerato.”
Nel frattempo, nella pacifica pianura in cui viveva, PPP aveva fondato “un circolo di lettura e composizione poetica in friulano”, e così viveva, intellettualmente, la sua vita, pur roso dall’ansia per il fratello che si trovava chissà dove: “una quindicina di giovani e di ragazzi discute, sotto la magnetica direzione di Pierpaolo, di musica, poesia, letteratura.”, periodo che il poeta definisce il “più felice della mia vita”.
Soltanto il 2 maggio “Pier Paolo e la madre vengono a sapere della morte di Guido.”
Scriverà PPP: “Se io paragono la mia imprudenza nello scrivere versi di quell’età, con la tua vedo che sono la stessa cosa…” – ma Guido non poteva più rispondere e questa è un altro aspetto della tragedia, l’aver cessato di essere un interlocutore reale, non soltanto ideale, perché, si ripeteva in quei mesi PPP, “Non ha potuto sopravvivere al suo entusiasmo. Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere.” – egli si sentiva un patriota italiano, non un comunista di Tito. Questo fu il suo unico, orribile, peccato, che spinse poi PPP a seguirlo politicamente, per cui anche lui si iscrisse al Partito d’Azione di Parri.
S’iscrisse poi, per qualche tempo, al PCI, ma la cosa non poteva durare. Non c’era spazio in quel partito di un non del tutto allineato, che era tale forse già nel ventre materno.
Guido scelse “di non voltare le spalle a quanto sta accadendo…” – e così farà sempre PPP. E quando invitava i comunisti a riconoscere quelle colpe tragiche, fu sì, ascoltato, ma “mezzo secolo dopo”.
Fu alla fine solo “una sorta di lotta di nazionalismi”, così scrisse PPP nel luglio 1961.
Scrisse anche che: “… nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le conversazioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità…” – PPP m’è sempre parso un intellettuale e un artista in perenne ricerca di parole e di conversazioni, forse perché gli servono come combustibile, per produrre quell’energia che può servire a rintracciare quello che io giudico mai rinvenibile, perché ammiccante e subito dopo fuggevole: la Verità.
“Fine cesellatore di parole, trasformerà la sua lirica in orazioni civili, nelle quali il verso assomiglia sempre di più alla prosa, perfino giornalistica.” – un incivile poeta civile: sempre pronto a produrre lo scandalo che consente di far luce sulla realtà, questo gli accade ogni volta. Sulla verità, lascerei la parola ad altri pensatori, per esempio a Heidegger, che però lascerei solino soletto a meditare nella sua stanza. Non vorrei mica disturbarlo!
Il poeta ch’era in lui chiedeva a “Cristo, pietà per il nostro paese. Non per farci più ricchi di quello che siamo. Non per darci la pioggia. Non per darci il sole. Patire caldo e freddo e tutte le tempeste del cielo, questo è il nostro destino…” – e allora? A che serve un Salvatore, se non ti protegge?, se Pasolini parla “del Friuli come di una terra percorsa solo da ‘un perpetuo, febbrile succedersi di disastri…”? – come quell’immane terremoto degli anni ‘70.
Per Vanossi “la morte è la vera protagonista” dell’opera di PPP. Ricordo che una volta disse in un’intervista che quando usciva a tarda notte in cerca di un amore mal pagato, amore rubato e disgraziato, lui sentiva che la morte lo stava marcando a vista, per fare i conti con la sua anima gemente. Non ho la fonte di questa sua affermazione, né mi va di cercarla.
L’uso del friulano “è soprattutto uno strumento di comunicazione politica per affermare la dignità della Piccola Patria nel momento in cui la nuova Italia deve essere costruita.”
PPP arriva perfino bestemmiare Dio e la Sacra Famiglia, pensando alla Morte del fratello e della sua, la quale saliva in auto con lui, ogni notte, talvolta mostrandogli la lingua.
Torniamo alla domanda che riguarda il doppio atteggiamento di PPP verso la sua opera teatrale, mai rappresentata, e nemmeno pubblicata, e mai stracciata o arsa. L’autore propone alcune ipotesi, molto sagge, che non riporto. Basta leggere il saggio. La mia è questa, e in parte si nutre delle idee di Zannini. PPP è sempre vissuto in bilico tra due opposti, l’amore per il prossimo e il suo egoismo, come tutti, e la cosa vale anche per me. Adorava le parole, ma le bruciava una a una, senza tentennamenti. Amava la vita (e il pallone) e rincorreva la morte (e la squalifica). Aveva scoperto che ogni verità era celata dalla finzione e basata sulla sua contraddizione. Nel conflitto che ne nasceva egli tentava di cogliere l’energia che era necessaria per consentirgli di proseguire la sua, ahimè, folle ed esagerata ricerca.
Era nell’esagerazione, nell’uscire dall’argine che nasce la possibilità di irrigare le terre desolate, con tutti i rischi connessi alle inondazioni. In tal modo si regolavano gli Egizi col Nilo, dove il terreno sarebbe morto di sete, senza l’esondazione.
Tutto questo adduce lutti, dolori, sacrifici e conati di sopravvivenza. Quell’opera teatrale scritta, s’ipotizza, solo dopo l’acquisizione del dato della morte del fratello, era una fonte di speranza: Casarsa fu risparmiata dai Turchi. Il fratello no!
Però… far svanire la speranza che covava in quel dramma equivaleva ad annullare un’ultima e irrevocabile volta l’esistenza di Guido. E ciò non era per nulla auspicabile, non era ammissibile. Si sarebbe un giorno spento anche lui, PPP, e per sempre, scatenando l’energia che sappiamo.
Non è da tutti scegliere d’immolarsi del tutto e per sempre per il proprio cuore e per quello altrui.
PPP stesso lo faceva puntando l’arma verso di sé e assumendo il veleno giornalmente, a piccole dosi, non tutto in una volta, come fecero quegli assassini intermittenti della Garibaldi nei confronti di quei disgraziati, innocenti e ormai dimenticati ragazzi.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Andrea Zannini, L’altro Pasolini, Marsilio editore, 2022