“La torre” di Bae Myung-Hoon: l’unità esistenziale che t’avvolge l’anima
La Torre, protagonista indiscussa della silloge di Bae Myung-Hoon comprende “674 piani e ben cinquecentomila abitanti”.

Il primo racconto è L’epifania dei tre ricercatori (con e senza cane): è una prosa semplice, diretta, aggrovigliata e confusa, che non dice null’altro di quello che dice, ma anche tutt’altro; e che coglie l’essenziale nel superfluo.
“Da che mondo è mondo, in ogni paese l’utilizzo del denaro in certe relazioni delicate è senza eccezione considerato illegittimo.” – anche da noi, essendo nel mondo, presto sarà così e presto sarà stato sempre così, anche nel passato che sarà ricreato. Mondo, dal latino mundus, dal tema mand (in sanscrito è maṇḍati), ornare: quello che adorniamo per abitarci; almeno nella zona indoeuropea, in Corea non lo so.
“Se si viene scoperti, non esiste prova più schiacciante a proprio sfavore.” – e questo impone al mondo che detta la regola di scovare un modo per facilitarne il rispetto.
“… il Professor Jeong vi ha dedicato riflessioni su riflessioni. E a forza di scandagliare…” – ha trovato la soluzione che risolve l’inghippo: l’invio di “alcolici”. Che permette di ben figurare: “tutti ne devono parlare come di un liquore eccezionale ma, detto tra noi, senza che nessuno sappia perché. Quanta gente è capace di distinguere con un assaggio se un whisky è invecchiato vent’anni o trenta? Diciamo le cose come stanno, la gente pensa semplicemente che quelli più invecchiati siano i migliori perché più cari.”
In un mondo siffatto, come in alcuni villaggi, o grattacieli, o nei quartieri di Napoli e dintorni, questo si chiama far a parata. Detto meglio: “Viviamo in un mondo in cui un’immagine da sola conta più dei dati scientifici. E ciò stava a significare che in realtà la ricerca doveva essere chiusa entro dicembre. Se non proprio i risultati definitivi, serviva ameno una conclusione che non se ne discostasse troppo.” – quel che contava non era verificare, ma dare l’idea che serviva; non realizzare, ma rappresentare.
Torre Beanstalk, c’è un problema! “… accadde l’imprevedibile”: “Qualcuno all’Appartamento 57 del piano 487 aveva bloccato il flusso” – come se non l’avesse recepito, forse perché era l’“Attore P”, il quale “non era una persona. Era un cane.” – cose che capitano nel mondo della finzione. Un film è quel luogo in cui, come diceva quella filosofa di mia madre, anche i cani parlano, dove l’irreale rientra nel quotidiano.
La storia c’è e vale la pena di esaminarla, variandola, interpretandola, deformandola. Basta leggerla. Così capitava a Bohr quando intercettava una particella, costringendola a una nuova esistenza. Così è per ogni scrittura, per ogni accidente fisico.
“Perché forse il Professor Jeong non li avrebbe aiutati granché nella carriera, ma aveva il potere di mettere il bastone tra le ruote. Se ambivano a…” – a qualcosa, “l’unica era lavorare e tacere”.
Nulla di nuovo sotto il sole e Tutto è vanità: l’Ecclesiaste è sempre attuale. Al Professore suddetto, ma forse è più esatto dire alla moglie, “erano iniziate le doglie”.
Bisogna rifare i calcoli, o, meglio: “Dobbiamo realizzare due versioni. Con e senza cane”: due variabili d’armonizzare.
“‘Ricerca computerizzata’ non significava che, una volta inseriti i dati, le conclusioni della ricerca si generassero in automatico.” – il tutto andava “calibrato”, armonizzato, implementato.
La “Dottoressa Song”, con tutta la sua santa pazienza, calcolava e calcolava di nuovo, “e così gli sbagli si moltiplicarono a valanga…” – ma, per fortuna, “a poco a poco la velocità con cui li risolveva superò la velocità con cui si generavano. Non di molto, però. In poche parole, era questione di tempo…” – e non capisco se essa sia la più cogente oppure la più irrisoria.
“… contemplarono la vera struttura della Torre. C’era una linea di demarcazione netta tra centro e periferia del potere: un modello decisamente più chiaro rispetto a quello adottato fino ad allora. Un potere disseminato in modo confuso, che annaspa a mantenere il controllo perché sono tutti contro tutti, come dire, non dava l’idea di un vero potere.” – per Pasolini l’unica vera anarchia è quella che cova nell’alveo del potere, ma il tutto deve essere ben organizzato per funzionare. A volte dà l’idea di una sovrapposizione quantistica di stati che determinano ciò che appare, non quel che è reale.
“Una linea sottile si diramava dal centro del potere verso un punto del P-190. E la casa del Professore era proprio in quel punto.”
Quattro piani “dal P-22 al P-25”, a quanto pare, “erano occupati dalla Sorveglianza, in altre parole la frontiera: uno schieramento di duemila dei duemilacinquecento militari totali, e sei posti di blocco per l’immigrazione. In pratica l’Istituto si trovava proprio sopra il confine.”
Un’informazione necessaria: “In qualche caso, le persone stesse possono diventare merce-valuta. E venire irresistibilmente risucchiate se i campi si inclinano verso una certa direzione. Trasformati nel terzetto del presepe, si avviarono di fretta verso il P-647.” Non era ancora fatta: “… il problema era come arrivare dal P-212 al P-320.” – cosa non facile, in effetti. “Se prendiamo la L42 e poi cambiamo con la L57.”
La gente è imprevedibile, avvolta com’è dall’ammucchiarsi e aggrovigliarsi di sempre nuovi dati statistici: “Si erano fatte quasi le dieci, ma l’ondata di gente non accennava a scemare. Come se metà della popolazione della Beanstalk si fosse riversata nei corridoi invece che starsene negli spai assegnati. Girava voce che ogni Natale una decina di persone morisse nella calca.” – Jingle bell!
È nato: “È un maschietto.” – sorge però un’informazione di disservizio: “La misteriosa autorità in base alla quale chi governa può dire la prima cosa che gli passa per la testa, tanto gli organi di governo la giustificheranno e la razionalizzeranno di propria iniziativa.” Il potere che in quanto invisibile non può mai essere chiamato in causa, anche quando si macchia di azioni ignobili.
Accade ora una minuscola immensità. Il trio di innocenti è terrorizzato, oppresso all’idea d’essere colpevolizzato, chi è colpevole pare sereno e quasi assorto.
Qualcosa accadrà: “e la frontiera al P-22 sarebbe stata sigillata.” Quando si giunse al di là dell’invalicabile, quei tre “tirarono un sospiro di sollievo.”
“… si voltò di nuovo a guardare verso l’alto. Un gigante ricoperto di sangue la fissava dalla sommità del palazzo. Ma a una seconda occhiata, era solo…” – non voglio spoilizzare, non sia mai!
Ode alla natura: “Ogni volta che espandevano i mezzi di trasporto, era inevitabile un aumento degli utenti…” – per cui aggiungere ascensori significava aumentare il traffico e il disagio per chi viaggia (su e giù per i piani): “Inutile dire che chiunque si candidasse al ruolo di Primo Cittadino provava a giocarsi la carta ascensori.” – in un irraggiungibile altrove, ad Amalfi, dopo una dozzina di elezioni, fu costruito l’ascensore cimiteriale (prima i morti erano portati a spalla per centinaia di scalini).
Non so di chi fosse parente, ma questo “K era uno che di scheletri nell’armadio ne aveva.”
Banalmente solito, problema di democrazia: “Alcuni giornalisti che in pubblico avevano irriso i legami tra politici e ditte di costruzione verticale furono accusati di pornografia e videro la propria carriera bruciata…” – loro no, non furono manco intiepiditi.
K cominciò a scrivere sulla “Natura”. Egli, “da piccolo dicono che abbia assistito a un attentato terroristico”, per cui è affetto da “suolofobia”: “non ce la fa a scendere a piano terra.” – il che non è quel gran problema, che però rende problematica la vita di scrittore intorno alla natura, per cui uno si sente nato (e diversamente cresciuto).
“D ripensò agli ultimi romanzi di K.”, fra cui quello di un “orso polare” che a quel punto “coglie il principio di tute le cose e raggiunge il Nirvana!” – rimanendo perfettamente immobile, immagino. Qualcuno parla di disonestà: come fa, si chiede, a scrivere di quel che non s’è visto? Sto pensando a I cacciatori di foche di Salgari, autore che passò la sua vita tra Verona e Torino, senza mai avventurarsi da nessun’altra parte, manco con Google. Che K scriva di ciò che non ha potuto toccare con mano non piace. D non gliela manda a dire (al telefono, però): accenna al fatto che il suo stile è diventato un po’ piatto. Da parte mia, mi sento di dire che, dopo aver letto degli spezzoni, mi sono sentito toccare una corda dell’anima, sempre la stessa, la più tenera.
“Qualcuno era morto volando giù da una finestra a nord del P-197…” – e mi viene da chiedermi cosa accada a un suolofobo che si butta (o viene gettato) dalla finestra: muore d’angoscia prima di sbattere contro il selciato?
K clicca su un link che insegna in varie lingue “come ricollegarsi con l’anima”, il più è ricordarsi la password, “ma alla fine riuscì a collegarsi. Ci mise una giornata intera.” – a volte occorre una vita.
Mancata consegna nel Taklamakan: Perché due giovani si lasciano? Perché si uniscono? Alla prima domanda si può rispondere: perché uno dei due entra nella Torre, come cittadino di quello Stato. Poi ci sono i ricordi, che rimangono sempre, anche se si va in coma e s’immagina di tutto, persino una sfumata realtà. Ora “Eun.soo ricordò Min-so, il suo primo amore.” Min-so “risulta disperso. Nel deserto del Taklamakan. Da otto ore.”
Nella Torre il servizio postale corre su binari paralleli, alcuni gratuiti, altri no (se le missive sono importanti). Nelle “cassette blu” è messa “la posta ordinaria”, per cui basta scriverla, infilarla nelle cassette, aspettarsi che un bel dì arrivi. Non è una magia, ma una realtà ordinaria. Sono gli uomini che la rendono stra-ordinaria con la loro onestà e dedizione all’Altro: “se c’è posta per lo stesso piano dove sono diretti, semplicemente la prelevano e la portano con sé. Dopodiché la infilano nelle cassette blu del piano di arrivo. I residenti di quel piano vengono a controllare e la smistano, in modo da fare spazio per le consegne successive.” – e il tutto funziona grazie a un miracolo sociale: “C’è fiducia reciproca!” – Però quel tutto è privo del senso dell’assolutezza: “è l’ultima tendenza”.
Due opinioni divergenti: da una parte “il vero ‘stile Beanstalk’” consisteva nell’essere recettivo e protettivo di tutti quanti, “residenti e visitatori”; dall’altra, al contrario, “era soltanto retorica da campagna pubblicitaria” – mi domando se esistano le vie di mezzo, tipo le religioni tradizionali.
Si crea un programma “per cercare l’aeroplano abbattuto nel Taklamakan” – quello da cui si è gettato Min-so: “al momento abbiamo 27.470 accessi”.
Tutto si trova, basta cercarlo su internet. “Min-so era confuso. Non capiva in che genere di romanzo si trovasse. E adesso era troppo curioso di sapere come andava a finire per entrare nel Nirvana.” – forse è soltanto un insieme di dati armonizzati, che non scioglierà alcun mistero.
Le esercitazioni degli ascensori: l’io ha il dono della contraddizione. Pagina 101: “Se vogliamo essere precisi, io non sono un verticalista. Sono un semplice impiegato nel trasporto pubblico.”
Precisa qualche pagina dopo: “Alla fine il concorso lo vinsi. Altrimenti non sarei dove sono ora, vi pare? Fui assegnato subito alla Sorveglianza, Unità di Traffico. E da allora sono un verticalista.” – viviamo in un mondo in cui i facenti funzione sono i veri titolari (Leonid Il’ic Brešnev era ancor di più). Ci sono di una Cooperativa (che acronomizzo in CTV), tecnici, e di un sindacato di proletari (SLTO), operai. Entrambi servono per spostarsi in su e giù, oppure da qui a là. Il qua per lui è: l’“Unità di Pianificazione della Mobilitazione, ora ribattezzata Unità di Pianificazione Strategica. La Beanstalk ha circa quarantamila riservisti e in caso di mobilitazione i punti di raduno saranno una quarantina.” – un migliaio in ogni punto, pertanto.
Una frase di questo brillante io mi reca dolore: “Non avevo letto a dovere nemmeno un testo base come ‘Il Capitale Verticale’. E a dirla tutta non avevo in programma di farlo a breve” – idem con Das Kapital, poema composto dal più prolisso dei fratelli Marx.
A me è simpatico quest’io perché narra come mangia e respira: “Di fatto, otto bunker sarebbero costati molto meno di un ascensore fino al piano terra, che solo il prezzo a metro quadro… auguri!”; ma poi tutto finisce così, né maluccio né benissimo: “Un teatro di guerra, senza una guerra in corso. Una polveriera in piena regola, ma per fortuna non si arrivò allo scontro. Per una ragione o per l’altra si era a quel punto, ma i nostri vicini sapevano benissimo che non avevamo intenzione di attaccare.” – con un notevole risparmio di uomini, risorse, soprattutto denaro (e forse anche alcol).
Una splendida notizia (anche se non per tutti): “gli Stati confinanti riconoscevano ai cittadini della Beanstalk lo status di rifugiati per ragioni umanitarie”.
Il finale (lo racconto rischiando lo spoiling): “Un colpo di vento. Un oddiooooooo! risuonò forte. E un altro oddioooooooo! arrivò da lontano. A seconda della direzione del vento gli oddioooooo si accavallavano come onde. Oddioooooo!” – cose che nemmeno Ballard…
Un’ultima notizia curiosa per concludere: “Fu reso noto in seguito che l’ordigno esploso al P-520 non era stato introdotto da Cosmomafia, ma fabbricato in casa.” – presumo con amore.
Non mi fa gola leggere il libro della donna che tanto inquieta l’io: “Studio sul P-217”, ma devo dire che non mi desta maggior entusiasmo (da enthūsiasmós, stato d’ispirazione, indiamento) il secondo volume dell’autrice: “Studio sul P-520”. La storia è (forse) analoga, i personaggi (forse) scontati.
Il più simpatico racconto è (per me) Il Buddha in piazza, una novella epistolare. Lui, il cognato, comincia le lettere con “Cara cognata,”. Lei, la cognata, esordisce ogni vota con un “Caro cognato,”. Lui è simpatico. Lei no, pedante e precisa come il famoso ditino che non appena trova un pertuso ci s’infila rìnto. La donna in comune è (rispettivamente) la moglie e la sorella, un tipo con cui spero di non doverci mai a che fare finché entrambi campiamo. Lui scrive: “Come apro bocca mi esce una stupidaggine. Anche quando scrivo, le probabilità di malinteso abbondano, ma se le telefonassi… nemmeno cinque minuti e volerebbero parole grosse.” – m’identifico con questo malcapitato fantino di elefanti aspiranti all’illuminazione di natura non elettrica. Lei scrive: “Caro cognato, torna con i piedi per terra!”
Quando lui passeggia in groppa al pachiderma, dice, è sereno. Egli, il proboscitato, “a volte mi verrebbe da dire che non è semplicemente buono: ha un che di sacro.” – il che rientra nell’esagerata normalità tipica di un candidato alla beatitudine. Un urlo della folla, che potrebbe servire anche nella nostra tempestosa e disgraziata Europa: “Vogliamo il trattato di pace! Con cosmomafia dialogo, dialogo, dialogo! Basta bombe sui civili!”
L’elefantino è paragonabile a un Buddha, per cui, in quel marasma, “ci sono state conversioni, pare, nel mezzo di tutto quel Namu. Amitabul, Namu-Amitabul. Non so se rendo l’idea.” – sì (e con gli interessi).
Agiografia del Santo: “Se ci pensi, una vita proprio disgraziata. Prima al seguito dei monaci che lo facevano pure digiunare, poi a vagare per l’India senza meta, per risvegliarsi appeso a una gru con le zampe che scalciavano nel vuoto. Dopodiché costretto a passeggiare su una strada di fiori rossi fino a auna strada soffocante…” – roba che (forse) neanche Milarepa…
“A quel punto una qualche illuminazione la devi raggiungere per forza” – e infatti ce la fa, è sua… O no? No! È un gol! no! quasi gol! alla Nicolò Carosio! Nulla da fare! Risposta della cognata: e se l’avesse raggiunta? Avrebbe volato (forse pensava a Dumbo, o sarebbe precipitato, come di fatto avvenne “quando…”? Boh! “Ah, Amitabha, Amitabha…”.
Perfettamente conforme: “Non essendo Cosmomafia uno Stato sovrano…” – il che era la sua unica virtù. “… per dichiarare guerra non c’era bisogno della procedura per autorizzare il dispiegamento delle forze, in quanto l’incidente era avvenuto in un punto dove le truppe della Beanstalk erano già presenti.” – lascio la disamina politico-sociologica di tali cavolate a chi è sa capirci qualcosa.
“Choi Sinhhak”, lui sì che amava la Beanstalk, che altro non vuol dire che Fagioleria. Per lui “la suolofobia era un dono”. Ma ora la bella notizia: “Eliminata la doppia imposta su transizioni murabaha e ijarah.” – alla fine anche le belle notizie tediano. Gli interessi legali sono “considerati immorali secondo i precetti dell’Islam.” – secondo chi è schifosamente e criminalmente ricco no.
“L’origine di Cosmomafia si inseriva nel contesto della disgregazione della vecchia Unione sovietica, ed era pertanto un’organizzazione del tutto distante dal terrorismo islamico. Eppure ricorrevano a quegli strumenti.” – beh, se servono…
“I paesi vicini annunciarono che se fosse scattato di nuovo l’ordine di evacuazione, lo avrebbero considerato tecnicamente un’invasione.” – il che mi pare corretto, almeno dal punto di vista formale. “Fu rispolverata la vecchia polemica sul ‘nazionalismo suolofobico.” – che quando meno te l’aspetti salta sempre fuori. Due ipotesi, ugualmente incerte: una è fuggire, e “l’economia della Beanstalk sarebbe implosa senza bisogno di sparare missili” – l’altra è rimanere e attendere i missili. Un’idea della fine del mondo, non più scema di altre: “il crollo di tutti i grattacieli, e il genere umano che precipita su una superficie piatta, completamente priva di assi verticali.”
Tutti i sei timer fanno cilecca. Capita. Qualcuno è quasi contento. Non si è umani se non si pensa al proprio amoroso cortile, al proprio affettuoso quartiere. È in cima ai campanili che si è costruita la Storia. Il loro abbattimento è inevitabile, ma è meglio rimandarne l’evento.
Alcuni alla fine sono più ricchi di prima: e “vissero alla grande.” – uno stile di vita simile (si fa per dire) a quella del cane, che a un certo punto della sua pulciosa vita era andato a vivere “in una casa più costosa” di quella in cui vivevano i due mezzi eroi di questa storia, Sehriban e Choi Sinhak, che, poi, “non si rividero mai più” – poco importa: ora incombono le appendici.
Estratto da Il Pomeriggio del dio orso di K: – il noto scrittore della natura affetto da una non leggerissima forma di suolofobia.

Un “delfino fece capolino” e l’Orsa Bianca si pone il problema-chiave di ogni essere senziente del cosmo: “Le decine di delfini di cui si era cibata erano tutti lo stesso delfino” – mi chiedo se il suino, il bovino e il pollastro che sono serviti a comporre il pesto dei cappelletti sono i medesimi a cui qualcuno (lo stesso contadino-killer?), tira il collo, sgozza, squarcia, macella. E il cappone e il manzo la cui vita fu stroncata per insaporire il brodo sono sempre quelli che, nolenti, vennero un giorno sacrificati per onorare i nostri divini palati? C’è chi crede che esista un solo fotone al mondo, che scorrazza allegramente, forse fischiettando, intorno a ogni nucleo, creando l’illusione della compattezza laddove non è che un vuoto pieno zeppo di particelle virtuali!
“Non voleva, ma doveva. E alla fine non lo fece. Perché aveva guardato il delfino negli occhi.
Rinunciò alla preda…” – non so se abbia fatto bene o male. Ha fatto.
La domanda cruciale: “Il Dio Orso conoscerà il significato di tutti questi fiocchi di neve, uno a uno.” – abbozzo una risposta: so di non saperlo; ne abbozzo una più scarsa: non so nemmeno se so.
“Il Dio Orso raggiunse il Nirvana quel pomeriggio…” – io aspetto stasera, o stanotte, ora sono costretto alla scrittura.
Café Beans Talking: “Misure per tridimensionalizzare i collegi elettorali piatti” – ho capito; passo alla prossima appendicite. No, aspetta! Pare che “in base alla stessa ricerca, il messaggio veicolato ha un potere di persuasione molto più efficace se diffuso orizzontalmente piuttosto che verticalmente.” – allora sì che rimango per un attimo ancora.
“… più si allarga la platea di voti necessari per eleggere un parlamentare, più aumenta l’influenza dei media.” – mi pare di averlo già letto da qualche parte.
“Pare che quanto succeda in uno di tanti piani della nostra esistenza andrà svanendo, prima o poi, a meno che qualcuno non ne parli, mettendolo per iscritto.” – ogni libro, anche questo, è pertanto “il racconto di quel nostro prezioso modo di vivere e delle esperienze quotidiane che si svolgevano nello spazio orizzontale del P-520.” – Amen!
Intervista assurda con l’attore P: di cui vale la pena riportare i punti salienti: “Arf Arf.”, nonché la mirabile chiusa: “Arf! Arf!”
Glossario: Alla voce che attiene a Scheletro nell’armadio, colgo: “ogni armadio nasconde il suo scheletro.” – aggiungo: donandogli il suo senso primevo. Così abbiamo fatto con una sfilza semi-infinita di divinità, alcune delle quali doppie o triple, da scambiarsi come figurine.
Scemo: è colui che è incapace “di cattiveria”, per cui integro la definizione, è un disgraziato condannato alla cattività. Reputo inutile (per cui non ci rinuncio) aggiungere l’aggettivo povero che così bene s’intona a scemo. Ricco scemo sarebbe un osceno ossimoro.
Nota dell’autore alla prima edizione: “Una volta, una persona degna di rispetto mi disse che chi ha un buon carattere non può fare lo scrittore…” – Mi oppongo, idiota (nel senso di individui sui generis, da idios, proprio)! Sono stato sempre più buono che cattivo, ma mio padre mi disse che temeva che un giorno potessi uccidere qualcuno in un impeto di rabbia e quest’assurda eventualità mi ha accresciuto una folle autostima.
“… non riuscendo a risolvere le situazioni a parole nel momento in cui si presentano, se ne occupano dopo, quando nessuno li vede, con la scrittura.” – sono d’accordo: se uno scrittore si mostra anche un parlatore, è segno che deve smettere di inseguire quelle righe orizzontali dove le parole si susseguono una per volta, di cui ciarlava Italo Calvino. Un ulteriore consiglio a qualsiasi scrittore che si senta degno di questo nome: perseguire a tutti i costi una fama solo postuma, la più sicura di tutte (vedi il caso Morselli). Anche se, come per tutto, panta rei; inoltre, il secondo principio della termodinamica è sempre lì, in agguato nella penombra, con le zanne che sgocciolano furenti.
Nota dell’autore alla nuova edizione: parlando del presente volume, tu, Baemyung-Hoon, dici, “Sì, lo so. Non lo compreranno in molti”.
Ho letto pochi libri più chiari e oscuri di questo. Secondo il Cristianesimo Dio è Pura Luce, ma non spiega perché al suo angelo più luminoso ha dedicato il Piano Zero, che dovrebbe essere il più tenebroso e affascinante, almeno a sentir dire il Sommo Vate. Le cose più evidenti di per sé, patenti, le affermazioni apodittiche, sono le più illusorie. Le più ambigue intuizioni celano un residuo della Verità (ammesso che essa non sia la più irridente delle balle cosmiche). Cosa significa quest’eterna sciocchezza? Forse che noi abbiamo un’unica missione: cerca, almeno tu, di capire (prendere e comprendere) il mondo, ti prego, almeno provaci… Oppure chiedi al mondo di capire te.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Bae Myung-Hoon, La torre, Add editore, 2022