“Far fronte all’ombra” di Roberto Escobar: che cosa insegnano le pesti?
Premesso che bello deriva da bonus, bènus, bènulus, bènlus, bèllus, mi chiedo se anche nel male c’è il suo bello. Ad assicurarlo è il proverbio che dice che non tutto il male viene per nuocere. Sarebbe un fatto meraviglioso, ma sarà poi vero? C’è chi assicura che in ogni sconfitta c’è il germe di una futura vittoria. E se fosse vero il contrario, che a ogni successo non può che far seguito una fatale sconfitta? E se tutto questo rientra nell’umano e vano discorrere, che cerca di dare un senso a quello che, come dice un noto poeta della montagna modenese, un senso non ce l’ha?

Questo è il groviglio di pensieri che girano intorno al mio cervello come in un calci-in-culo, allorché mi accingo a leggere “Far fronte all’ombra” il saggio di Roberto Escobar, dopo aver assistito alla sua presentazione presso una libreria reggiana.
L’autore mi è parso un tipo schietto e simpatico, che sa esaminare con vivacità casi particolari della storia e della letteratura, riuscendo a trasmettere l’emozione che ha provato nel leggere e, successivamente, nel trasferire nella scrittura alcuni eventi memorabili connessi a tema della peste, intesa come l’assurda pandemia che in grado di sconvolgere la vita degli uomini.
Non so se abbia recitato un copione (è verosimile, anch’io l’avrei fatto), ma il suo discorso mi è parso immediato, con qualche fugace tentennamento, per esempio intorno al fatto che i virus che affollano la nostra atmosfera siano trenta nonilioni, no, dieci, no, trenta…, cose che voi Orsini non potete manco immaginare, il che ha finito per rendere più intrigante la sua esposizione. Smanettando col cellulare, da wikipedia ho scoperto che nel 1946 in Ungheria ci volevano 1,4 nonilioni di pengo per comprare quel che 9 anni prima si otteneva con un solo pengo. Al che mi è venuto in mente che a casa ho un francobollo tedesco di un secolo fa il cui valore nominale è di mezzo miliardo di marchi. Poi mi sono ripreso e sono tornato ad ascoltare il relatore, nonché le sapide domande del suo intervistatore. Per sapere il numero esatto di quei messer messerini, piccirilli e male incavati, capii che occorreva acquistare il libro. Per cui l’ho fatto.
Il saggio è diviso in varie parti, ognuna composta da alcuni capitoli. La prima è intitolata La belva.
“Forzando il pensiero di Elias Canetti,” – da Massa e potere – “si può supporre che, di fronte ai guasti della belva trionfante, i singoli finiscano per capovolgere la paura del contatto con gli altri in una prevista passione per una nuova, terribile vicinanza.”
Il senso è come quando si dice che si è tutti sulla stessa barca, intendendo che bisogna che tutti cooperino, ognuno come può, ma poi, fatalmente, la necessaria sinergia si trasforma in incompatibilità, paura, diffidenza dell’Altro, che si trasforma in un impostore, in un antagonista. Un conto è prendere atto che, altrove, i morti (a causa di un bombardamento, di una carestia, di una pestilenza) siano ammucchiati uno sull’altro, e a quel punto è opportuno cambiare canale e sorbirsi un reality basta che sia. Un altro è temere che in quel “mucchio di corpi che sempre più si addensa” ci potremmo piombare, presto o tardi, noi stessi.
Questo da una parte ci attira e dall’altra ci fa fuggire da tale eventualità, creando un’inevitabile schizofrenia: non si tratta di un enten eller che ci è dato di scegliere, ma di un fatale destino. Il Fato è irrevocabile, il Destino quasi, ma un minimo di speranza lo consente. Il fatale destino è un’inevitabilità che uno non cesserà mai di fronteggiare.
A poco a poco, si finisce invece per rassegnarsi: “C’era chi, sano, già scavava la propria fossa” e anche: “Sul punto di morire, un mio bracciante” – è sempre Montaigne a parlare – “con le mani e con i piedi si tirò addosso la terra”. Questi riporti sono terribilmente efficaci per aiutare il lettore a comprendere che un simile argomento si differenzia da qualunque altro, forse fatta eccezione da quello del condannato in un lager. In tutti i libri che ho letto su quest’ultimo argomento quel che mi ha più colpito è la rassegnazione che prima ti afferra alla gola, zittendo in te ogni conato di rivolta.
La seconda parte è L’autoinganno. Scrive il Leopardi, in una lettera del 9 marzo 1837, che “il choléra oltre che è attualmente in vigore in più altre parti del regno, non è mai cessato neppure a Napoli, essendovi ogni giorno, o quasi ogni giorno, de’ casi, che il governo cerca di nascondere.” – come garantiva Agatha Christie, l’uomo è lo stesso dappertutto e in ogni periodo storico.
La lettura mi spinge ora a cercare di nuovo sul fantastico globo Googliano, per cui scopro che collera e colera hanno lo stesso etimo: cholē, bile.
L’autore cita il personaggio don Ferrante dei Promessi Sposi, il quale, “forte dall’autorità che veniva dai quasi trecento volumi che si allineavano nella sua biblioteca”, era quello che oggi si definirebbe un negazionista, “‘non per schiamazzi, come il popolo’, ma ragionando da par suo”, partendo dal pensiero: “e questo contagio, chi l’ha veduto, chi l’ha toccato?” – è come un trucco, che c’è ma non si vede e perciò non è un fatto naturale, bensì un’invenzione. Inoltre: “‘un accidente non può passare da un soggetto all’altro’. Ergo, la peste non esiste.” – gli appestati purtroppo sì. Analoghi ragionamenti li ho sentiti nel 2020.
Alcuni medici erano odiati dalla gente comune perché erano “convinti”, per quanto incapaci di produrre prove che non fossero quelle dettate dalla loro pratica, “della realtà del contagio”, per cui “suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza.”
Vorrei qui ricordare l’insipido sarcasmo di chi, non addetto ai lavori, più avvezzo alle bande rock che alla microbiologia, definì zanzarologo lo scienziato Crisanti, i cui studi entomologici si trasformavano nella prova tanto definitiva quanto stolta della sua incompetenza: e poco è servito a far mutare l’opinione di taluni che le sue previsioni sono state attestate dai fatti.
La terza parte è L’ombra. “Partita da ‘lievi principj, ingrossata da tremenda procella’, la peste invase tutta Milano, scrive Ripamonti.” – descrizione che fa apparire il morbo come un subdolo agente che in un primo tempo sussurra sommessamente, per poi ruggire come una belva famelica, che dapprima terrorizza, per poi rientrare in un’assurda abitualità, per cui subentra “un’indifferenza morale che non accomuna, ma divide”. Non si è più legati da “vincoli di parentela, amicizia, vicinanza, e ognuno è lasciato alla sua morte.” – cioè a un suo evento personale, da non condividere con alcuno.
Nella commedia La mosca Pirandello, citata dall’autore, un insetto mortifero “era volato fin qui, addosso a Giurlannu. E la morte forse era ancora tra quei muri. ‘così piccola, che la si sarebbe appena potuta scorgere, se qualcuno ci avesse fatto caso’” – il che rende la morte così distruttiva: è troppo minuscola per essere recisa come si fa con la testa di un serpente o con la gola di un carnivoro, laggiù, nel quasi invisibile è lei che comanda: noi siamo troppo grandi per essere in grado di fronteggiarla.
A quel punto si deve “fuggire”, ma dove?; inoltre, “significa spargere il contagio, aiutare la belva.” – diventare suoi inconsapevoli complici. Il fatto più inquietante è questo: che ne sarà di quella tal persona che pur amo, allorché verrà a contatto con me? Che ne sarà di me, quando le sarò accanto? È “il fiato dell’altro” diventa l’arma che può distruggerci, ed è il nostro fiato la possibile causa dell’altrui rovina.
Il nemico è subdolo: “… le sue sembianze sono meno che niente, o forse più che niente, un fantasma” – che è derivato da un qualcosa che “prima c’era o sembrava esserci, e poi si è mostrato inafferrabile e vano.”
Tutto annulla il suo iniziale valore: “Muore l’autorità degli dèi, delle leggi, della consuetudine, della pietà” – tutto pare ri-diventare quel che era in partenza: un’illusione. Interessante è il paragone che sorge fra la nostra humanitas, così caduca, e la quasi eternità delle rocce, che precedettero il sorgere della storia dell’uomo. Noi cerchiamo di rapportarci a loro, mentre loro ignorano noi. Similmente, i batteri e i virus “nulla sanno di noi”, limitandosi ad abitarci dentro. Infine, si crea una frattura tra noi e il creato e questo non può mancare di turbarci, di farci mancare la terra sotto i piedi.
“Una pestilenza si manifesta come rottura della regolarità della vita e dell’ordine del mondo, o di quanto consideriamo regolarità della vita e ordine del mondo” – non essendo noi nemmeno più in grado di confezionare le definizioni minime dell’esistenza. “E rischiamo di sentirci non posti ‘a mezzo fra niente e tutto’, bensì “niente nel niente”. L’unica speranza è quella esibita da un personaggio di un racconto di Poe, che di fronte a un disastro riesce “a volgere lo sguardo e a porre la mente fuori dalla situazione, e dal sistema” – senza perdere la testa, inseguendo un mito, ma affrontando la realtà così come essa appare, osservandola “da fuori”, come se non gli appartenesse.
In questi casi il mio pensiero corre (come un pazzo!) al libero (beato lui!) pensatore Jiddu Krishnamurti, che consiglia di dimenticare i preconcetti (come se fosse facile, o possibile: e non è anche il suo un preconcetto?): di vedere la realtà senza farsi condizionare da essa.
L’ultima parte è Colpevoli. Secondo taluni la peste ha una funzione: punire i colpevoli, con la conseguenza che a patire furono spesso i perseguitati per eccellenza: gli ebrei: “tutti uccisi, alcuni impiccati, altri bruciati vivi, annegati, decapitati con l’ascia o con la spada.”
Lo stesso, se ci si pensa, capita nell’ingiustizia finanziaria, che già colpisce le classi medio-basse più di tutte le altre e che reca, come conseguenza, un calo delle prestazioni assistenziali, nonché un aumento delle tasse indirette. Non è un caso che, con l’attuale pandemia, i più favolosamente ricchi hanno incrementato a dismisura le loro risorse economiche mentre le classi più povere sono state quasi ridotte alla fame. Da questo si deduce che la colpa, che secondo un detto delle mie parti, è una brutta bestia, con cui nessuno vuole avere a che fare, se ha tanta fame, è giusto che divori chi corre più lentamente.
Infine ci sono i cosiddetti “untori”. Una considerazione dell’autore che da sola vale l’acquisto del libro: “Senza l’invenzione paranoide degli ‘untori del mondo intero, Adolf Hitler non sarebbe che un omino perso nella ‘babilonia delle razze’” – della sua Vienna, “del cui gorgo si sente in balia, e che, dice, gli dà la nausea.” – il popolo eletto, se non ci fosse, bisognerebbe prima inventarlo e poi sterminarlo. E questo pensiero vale per tutti i popoli perseguitati della Terra, ognuno colpevole di esistere. Lo stesso vale per chi fu accusato di essere un untore, nonostante l’opinione di Giuseppe Ripamonti, che fu lucido cronista della peste di Milano del 1630.
Magica fu la boutade di Manzoni: “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.” – non mancava la saggezza ma era come seppellita dalla follia generale.
E quando occorre scegliere “tra il fanatismo e la ragione, tra l’ingiusto e il giusto, tra il male e la cura del male”, la scelta cade dove maggiore è la massa gravitazionale. “Anche così, con questa indifferenza pavida, con questa ignavia dell’intelligenza, si aggiungono odio a odio, peste a peste, ombra a ombra, morte a morte.” – indifferenza che si somma a indifferenza.
Un personaggio di H. G. Wells “non fugge l’ombra”, ma ne vorrebbe diventare un “seguace e portatore entusiasta.” – e qui si forma il mostro che si cela in ognuno di noi: il “nichilista entusiasta, non in quanto nichilista, ma in quanto entusiasta.” – che non è il modo più saggio di far fronte all’ombra.
Qual è dunque il modo corretto? La consapevolezza di cui si diceva? O forse la volontà, non di rinvenire una colpa, ma di escogitare un rimedio? Non serve diventare “santi”, personaggi che cercano la vittoria definitiva e i cui strumenti sono più “importanti” degli “ammalati”, ma chi combatte il male con la serietà di un professionista: “un medico non cerca il conforto di un perché fuori dal mondo” e una soluzione eterna. Egli “sa che la peste è une interminable défait, ‘una sconfitta che mai ha termine”, che induce a non mollare mai la presa, a non giungere mai a un punto fermo, perfetto, cessato per sempre.
“… possiamo scegliere di fronteggiare insieme l’ombra, di essere medici gli uni degli altri.” – sviluppando la simpatia reciproca, anzi, quella che si definisce l’empatia, il sentimento che ravvisa nel prossimo se stesso e in sé l’anima altrui.
Il niente non si può cogliere, e se esiste può attendere per l’eternità. Quel che conta, anche se a volte può parere vana e illusoria, è la realtà. Questa è l’ombra in cui siamo destinati a vivere, già da ora e il meglio possibile.
L’autore sottolinea “un’altra necessità, quella di ricominciare, di insistere” a costruire e a ricostruire il mondo. Fantasticamente leopardiana la chiusa “Così è per la ginestra, che conoscendo il deserto con il suo profumo lo consola.”, una poesia che occorrerebbe rileggere ogni qual volta si fa sera.

Il saggio di Roberto Escobar non brilla solo per l’intelligenza e per una moltitudine di informazioni, ma anche per la bellezza della sua scrittura, che non è mai noiosa, né ridondante: merito della qualità delle fonti, ma anche della sua capacità d’armonizzarle, come egli dimostra a ogni pagina.
Nonché per la fine gentilezza: nel primo capitolo, intitolato A mo’ di prefazione, il lettore è preparato alla durezza dell’argomento; e come potrebbe finire questo breve ma necessario saggio, se non col conclusivo A mo’ di postfazione, in cui invita “a far fronte ai mali”, tenendosi “compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel migliore di modi questa fatica della vita.”
E se quel sentimento di amicizia fosse soltanto un sogno? È comunque “un’illusione buona, una verità raggiungibile…” – non forse la più bella che vale la pena d’amare? Per noi eterni viaggiatori, per “noi che siamo sogni fragili in cammino” è la strada più agevole che ci è consentito di percorrere.
Intendo rispondere al mio quesito iniziale: ci può essere del bene nel male, facendo riferimento alla mia filosofa preferita, mia madre, che diceva che pianşêr fa trî e réder fa trî, piangere fa tre e ridere fa tre, per cui anche la peggior disgrazia può indurre a una pur minima allegria, quella dei naufragi, direbbe Ungaretti e, come sempre la mia prima e ultima magistra vitae mi insegnò: piutôst che gnînt l ē mei piutôst! È meglio un misero avverbio che nulla! Tanto il nulla non esiste!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Roberto Escobar, Far fronte all’ombra, Raffaello Cortina Editore, 2022