“Il muro della terra” di Giorgio Caproni: la ricerca è nel perimetro?
Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990) è uno dei maggiori poeti italiani del XX secolo, benché il riconoscimento di questa sua grandezza sia arrivato lentamente, dopo un lungo cammino di scrittura e di ricerca, tra lo studio attento dei grandi del passato e dei suoi contemporanei.

Scrittore poeta, traduttore specie dal francese, maestro elementare e cultore delle forme metriche chiuse, sperimenta, anche grazie agli studi musicali, la vibrazione dei suoni delle parole e i loro effetti. Il logos si sostanzia in una sempre più stringente connessione con la realtà concreta, tangibile, della cosa.
Così, dopo aver sperimentato l’orrore della guerra, la distruzione di uomini e paesaggi, le sue parole impareranno a rarefarsi, strozzarsi nel discorso, ridursi e accartocciarsi, per diradarsi come le cose, nel loro ineluttabile consumarsi.
Autore di numerose opere poetiche, già dal 1936 con Come un’allegoria, poi nel 1938 Ballo a Fontanigorda.
L’attività letteraria, in realtà non fu mai interrotta nemmeno dal richiamo alle armi nel 1940, allo scoppio della guerra, di cui scriverà nel diario Giorni aperti pubblicato nel 1942 (sottoposto a censura da parte del regime fascista) dove apertamente si dichiarerà contro quel capolavoro d’insensatezza. Nel 1941 aveva riunito le due precedenti raccolte in Finzioni, con altri 23 componimenti, e nel 1943 Cronistoria che ricomprendeva le tre raccolte già edite.
Lui, nato in Toscana e trasferitosi a Genova sin da fanciullo, visse però il resto della sua vita a Roma, dove conobbe e frequentò i maggiori scrittori e intellettuali, mentre si dedicava, accanto alle traduzioni e alla stesura delle sue opere, anche ad articoli di critica letteraria. Nel 1952 vinse il premio Viareggio (che vincerà di nuovo qualche anno dopo) con la raccolta poetica Le stanze della funicolare. Pubblicò ancora Il passaggio d’Enea (1956), Il seme del piangere (1959), Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965) che apre le vie a un nuovo sperimentalismo.
L’opera che segna un vero e proprio spartiacque nella sua produzione e nella sua maturazione stilistica e intellettuale arriva nel 1975, Il muro della terra, edita da Garzanti. Verranno dopo numerosi riconoscimenti pubblici, inviti, premi, e la pubblicazione delle ultime opere: Il franco cacciatore (1982), Il conte di Kevenhuller (1986), e le opere postume Res amissa (1991) e La scatola nera, raccolta di saggi critici edita nel 1996.
La scelta di Garzanti (collana I grandi libri/poesia) di ripubblicare Il muro della terra, oggi, con introduzione e commento di Adele Dei, è dunque una volontà importante di partire e ripartire da quel momento cruciale della ricerca caproniana, atea, ma sempre più volta alla verifica dell’esistenza di un principio metafisico capace di dare un senso all’esistenza umana. Caproni è un grande viaggiatore della letteratura e della poesia, ma “Io voglio essere prima di tutto un uomo, ecco”. Così diceva, rigettando da sé l’appellativo di poeta, ritenendosi, semmai, “uno che scrive in versi”. Il suo viaggio, poi, incontra quello di un altro grande poeta viaggiatore, Dante Alighieri, che ci ha lasciato nella sua Commedia, divina, la più alta sintesi del viaggio umano tra le cose del mondo e dentro l’uomo di ogni tempo, rivolto a mondi altri.
Il titolo riprende il canto X dell’Inferno dantesco, canto degli eretici, in riferimento a quel momento di periglioso passaggio del varco infernale, entro la metallica cinta della città di Dite: «Ora sen va per un secreto calle/ tra ’l muro della terra e li martiri/ lo mio maestro, e io dopo le spalle».
L’opera caproniana del 1975 (dove il muro della terra assume il significato di opprimente confine d’inconoscibilità che racchiude la terra, l’intero pianeta) è costituita dallo snodarsi del percorso in una sorta di “partitura musicale” che all’apertura dei Tre vocalizzi prima di cominciare fa corrispondere in chiusa i Due svolazzi finali: dall’Io lirico, protagonista del viaggio, si raggiunge un’altissima universalità di contenuti. La ricerca metafisica, che pare fine a se stessa e destinata all’ineluttabile smacco, invece che essere sopraffatta dalla sconfitta e svuotata di ogni ragion d’essere, sembra invece trovare nuovo vigore e libertà d’azione proprio dallo scontro frontale con quel muro incrollabile della terra che è destino primo e ultimo dell’uomo. La Ragione indagatrice perlustra a fondo se stessa, i suoi strumenti, i suoi fini e le sue cause prime, conosciuti e riconosciuti i propri limiti, rinvigorita nelle sue potenzialità, riprende a viaggiare per quegli spazi entro il muro e lungo lo snodarsi del perimetro, ove ha piena e compiuta giurisdizione.
I temi propri della poetica di Caproni qui tornano, si ridefiniscono, in primis quello della natura, di cui si perdono i contorni idilliaci delle prime opere, per giungere a un esito scolorito, slavato, alterato sia nell’elemento naturale che in quello antropizzato. La ferita profonda dell’evento bellico è evidente, duratura, traumatica. Il razionalismo dell’Autore giunge ai confini estremi, stabiliti dallo scontro col muro della terra, il limite oltre il quale la ragione e la scienza non hanno potere. Dentro questo perimetro della terra l’esistenza è confinata, con tutto il suo male e non vi è modo alcuno di uscirne: “Ho provato anch’io./ È stata tutta una guerra/ d’unghie. Ma ora so. Nessuno/ potrà mai perforare/ il muro della terra.” (“Anch’io”)
Se il paesaggio è postumano, l’Io pure attraversa, come Dante, un mondo in cui può incontrare, con l’aiuto della poesia, ciò che resta dell’umano: residui della memoria, scorie del passato, siano pur essi affetti. Siamo già andati oltre, l’Io ha superato il tempo e se stesso per cercare cosa ci sia dopo, oltre, nell’al di là, nell’aldilà. Ma Caproni qui ci dice anche che la comunicazione è ormai impossibile. E quel parlare ai morti è anche un parlare a coloro che, vivi, non sono in grado di capire certi discorsi. Il poeta è solo: “Un uomo solo,/ chiuso nella sua stanza./ Con tutte le sue ragioni./ Tutti i suoi torti./ Solo in una stanza vuota,/ a parlare. Ai morti.” (“Condizione”)
Al di qua è desolazione, ormai, natura insensibile e ormai deserto sconfinato; gli oggetti abbandonati segnano che l’umano non abita più qui da molto tempo ormai. Non ci sono cartelli che indichino la via, non guide cui affidare le proprie richieste d’aiuto e nemmeno un’utopia è più possibile. Il senso di scoramento, solitudine e spaesamento regnano, solo inframezzato da una superstite ironia che riaffiora e ravviva il ritmo: “M’ero sperso. Annaspavo./ Cercavo uno sfogo./ Chiesi a uno. “Non sono,”/ mi rispose, “del luogo.”” (“Bisogno di guida”)
“Non chieder più./ Nulla per te qui resta./ Non sei della tribù./ Hai sbagliato foresta.” (“Cabaletta dello stregone benevolo”)

Io e Dio sono parole e identità che si rincorrono, nel verso, ripetendosi, in maniera spesso incalzante, anaforica, nella loro rima che indica pure parziale corrispondenza tra chi ricerca e chi è cercato, in uno sdoppiamento di personalità, in una guerra all’ultimo sangue di domande e silenzi. L’assenza impietosa e ingombrante di Dio non è sopportabile: ““Piaccia o non piaccia!”/ disse. “Ma se Dio fa tanto”,/ disse, “di non esistere, io,/ quant’è vero Iddio, a Dio/ io Gli spacco la Faccia.”” (“Lo stravolto”)
Un Dio assente che non salva merita solo la morte: “Un semplice dato:/ Dio non s’è nascosto./ Dio s’è suicidato.” (“Deus absconditus”)
Il che genera, come re-azione, un “a parte”, recitato quasi tra sé, come battuta o Postilla: “(Non ha saputo resistere/ al suo non esistere?)”
Eppur ci prova ancora, quel “piccolo pazzo (…) che vorrebbe forare quel muro”, a provocare, che in un certo senso corrisponde a evocare: “Dio di volontà,/ Dio onnipotente, cerca/ (sfòrzati!), a furia d’insistere/ –almeno – d’esistere.” (“Preghiera d’evocazione o d’incoraggiamento”)
Escluso e spaesato, nel deserto del mondo, pure la parola non è più appiglio sicuro, può fallare: “Ho provato a parlare./ Forse, ignoro la lingua./ Tutte frasi sbagliate./ Le risposte: sassate.” (“Sassate”)
Se il nodo cruciale resta irrisolto perché irrisolvibile, la chiusa del libro si fa “in fine” apertura, ma in un modo tutto caproniano. Un libro che resta, tutto intero, in ogni suo componimento da leggere e rileggere, oggi come ieri, con tutta la gradevolezza della grande poesia.
Written by Katia Debora Melis